Caso Amara, cosa non torna nelle versioni di Greco e Davigo. Parla l'ex pm Robledo
Su Greco: “5 mesi per fare un’iscrizione nel registro degli indagati è un tempo inaccettabile". Su Davigo: "Ma quale 'sede vacante'. E altro che vie informali: è proprio la procedura formale che garantisce il segreto". L'ex pm Robledo commenta la gestione dei verbali che stanno sconvolgendo la magistratura
Il caso Amara, che ha portato alla diffusione incontrollata di verbali secretati, ha due punti oscuri che necessitano chiarimenti. All’inizio e alla fine. Il primo è l’inerzia della procura di Milano rispetto alle accuse di Amara, che spinge il pm Paolo Storari a rivolgersi a Piercamillo Davigo. Perché il procuratore Francesco Greco temporeggia? Era un’attesa anomala o fisiologica? “Si parla di 5 mesi di attesa per fare un’iscrizione nel registro degli indagati: è un tempo inaccettabile – dice al Foglio Alfredo Robledo, ex procuratore aggiunto a Milano –. Secondo il codice di procedura penale bisogna iscrivere immediatamente quando c’è un indizio, perché da quel momento decorrono i tempi di chiusura dell’indagine. E’ una norma a garanzia dell’indagato”. E’ stata usata “cautela”, ma rispetto a cosa? Sullo sfondo c’è il processo Eni, finito con una pioggia di assoluzioni, in cui la procura voleva portare Amara come testimone. E’ l’importanza di questo processo ad aver condizionato la scelta della procura di non verificare subito le dichiarazioni di Amara? Greco, per ora, non ha spiegato i motivi specifici di una scelta anomala. Ma quali che siano state le motivazioni della procura, la preoccupazione di Storari, ritenuto unanimemente un professionista serio, era legittima.
L’errore più grave di Storari è stato, evidentemente, affidarsi al suo amico al Csm Piercamillo Davigo che ha deciso di seguire vie “informali”. E questo è il secondo punto da chiarire. E’ vero, come dice Davigo, che da un lato la Procura generale era “sede vacante” e che seguire le vie formali avrebbe “comportato il disvelamento della vicenda”? Robledo quasi sorvola sulla prima scusa: “Anche uno studente sa che non esistono ‘sedi vacanti’, e per una ragione giuridica semplice: l’ufficio è impersonale”. Mentre si sofferma sul secondo aspetto, quello più importante della giustificazione di Davigo, cioè che si doveva seguire una via informale per garantire la riservatezza: “Non è vero, non solo perché c’è una delibera del Csm che dice il contrario, ma per una questione di principio che è l’esatto opposto: è proprio la procedura formale a garantire il segreto. Qui Davigo sbaglia clamorosamente. Doveva dire a Storari di consegnare gli atti al comitato di presidenza del Csm. La via prevista è quella lì”. E invece Davigo si rende protagonista di una gestione personalistica che cozza con le declamazioni di principio: ne parla con tante persone e, ovviamente, il segreto non viene preservato. Anzi, viene tutto talmente disvelato che la sua segretaria è accusata di aver inviato gli atti ai giornali: i verbali di Amara diventano il segreto di Pulcinella.
C’è poi un altro elemento sconcertante. Per giustificare la rottura con il compagno di corrente Sebastiano Ardita, Davigo svela “nella tromba delle scale” del Csm a un politico come il presidente della commissione Antimafia Nicola Morra (M5s) le accuse di Amara ad Ardita mostrandogli i documenti. Insomma, Davigo non preserva il lavoro di Storari che a lui si era affidato, ma usa le informazioni contenute nei verbali di Amara per scopi personali. Un ex pm come Antonio Ingroia sostiene che “Davigo, usando procedure certamente non ortodosse, ha di fatto agevolato – e ciò a prescindere dalla sua buona fede – un vero e proprio disegno criminale”. Forse Ingroia esagera. Forse non c’è alcun reato e Davigo non rischia sanzioni disciplinari anche perché, per fortuna, è in pensione. Ma a prescindere dagli aspetti sanzionatori, l’uso informale e personalistico di atti segreti è un precedente grave, che merita risposte vere e non cavilli.