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Il garantismo modello Draghi non è una rivoluzione, è un ritorno alla normalità

Claudio Cerasa

Contro la giustizia amara non servono svolte copernicane, ma serve solo rispettare la Costituzione. Il perimetro necessario della riforma Cartabia, con una notizia sugli indagati mai più mascariati (speriamo)

Verrebbe quasi naturale definirla una “rivoluzione copernicana” quella che nelle prossime ore il governo Draghi, e in particolare il ministero guidato da Marta Cartabia, offrirà al Parlamento sui temi della giustizia. E in un certo senso, una rivoluzione vi sarà davvero se l’esecutivo riuscirà a fare quello che sembra avere intenzione di fare, ovverosia spingere i partiti su una strada per così dire garantista, con un’idea di giustizia più vicina ai princìpi costituzionali, guidata da quattro direttrici chiave: innocenza fino a prova contraria, durata ragionevole del processo, processo costruito intorno al principio della condanna solo oltre ogni ragionevole dubbio, limitazione dei poteri assoluti di cui godono oggi i pubblici ministeri.

 

L’intenzione della ministra Cartabia, alla luce di ciò che è già emerso in queste ore e alla luce di ciò che ha raccolto il Foglio nella giornata di ieri per avere qualche elemento ulteriore rispetto a quanto già emerso dalle cronache dei giornali, è un’intenzione nobile, che ha a ch fare con la volontà di perimetrare l’attività del pubblico ministero fissando sul terreno di gioco alcuni paletti necessari per rendere l’attività di indagine meno discrezionale. L’intenzione della riforma Cartabia, come è in parte noto, prevederà la possibilità di rinviare a giudizio solo in presenza di una prognosi di probabilità di condanna concreta e non aleatoria.

 

Si proverà a rendere più difficile la presenza di atti di accusa costruiti solo con l’idea di offrire a un giudice l’esposizione di un teorema vago. Si proverà a rendere più vincolante la presentazione di fronte al giudice, già in fase di richiesta di rinvio a giudizio, di elementi solidi per poter condannare. Si proverà a offrire formule di archiviazione più vaste sia al giudice sia al pubblico ministero. Si proverà a offrire una formula innovativa come quella dell’archiviazione meritata, la possibilità cioè per il pm di chiedere l’archiviazione a seguito di condotte riparatorie messe in campo da un sospettato già nella fase delle indagini. Si proverà a rendere effettivo il divieto di impugnazione delle sentenze di assoluzione in primo grado  da parte del pm. Si proverà a mettere in atto un’estensione dei criteri per rendere più appetibile un patteggiamento, non aumentando lo sconto di pena, ma offrendo la possibilità di patteggiare anche per le pene accessorie, rendendo chiaro, anche dal punto di vista del proprio casellario giudiziario, che un patteggiamento, in qualsiasi ambito, possa essere equiparato a una sentenza di condanna, a un’ammissione di colpevolezza. Si proverà a cambiare l’attuale legge sulla prescrizione bloccando la prescrizione solo in caso di condanna in primo grado e dando un termine fisso e massimo di due anni alla Corte d’appello per decidere cosa fare rispetto alla sentenza di primo grado – se la Corte d’appello non decide entro due anni, la prescrizione torna a decorrere computando anche i due anni trascorsi per attendere la sentenza d’appello. Si proverà, dato meno noto, a mettere in atto anche un’altra piccola rivoluzione, che coinciderà con la volontà di specificare, all’interno del pacchetto di riforme sulla giustizia, un fatto elementare, che è incredibile sia diventato necessario da specificare: la semplice esposizione a un’indagine non potrà, in nessun caso, avere alcuna conseguenza pregiudizievole nei confronti dell’indagato, e nessuna norma, neppure le interdittive antimafia, potrà più essere costruita per fare del sospettato un colpevole fino a prova contraria.

   

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Rispetto a quello che è il quadro desolante della giustizia italiana, le proposte consegnate da Cartabia ai partiti sono oggettivamente rivoluzionarie. Ma il dato sconfortante della riforma Draghi-Cartabia è che ciò che propone oggi il governo non ha a che fare in verità con una rivoluzione vera, ovvero con uno stravolgimento dell’ordinamento attuale. Ha a che fare, piuttosto, con l’ammissione di una verità che andrebbe riconosciuta anche da tutti coloro che negli ultimi anni hanno contribuito a trasformare il nostro sistema giudiziario in un far west senza regole. E la verità è questa: la rivoluzione in corso, possibile e auspicabile, è una rivoluzione che punta a rispettare alcuni princìpi non negoziabili della nostra Costituzione che la politica ha scelto negli ultimi anni di negoziare sull’altare del consenso elettorale.

 

Si può davvero dire oggi, come prescrive l’articolo 27 della Costituzione, che l’imputato non sia considerato colpevole sino alla condanna definitiva e che le pene non possano consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e che debbano tendere alla rieducazione del condannato? Si può davvero dire, oggi, come prevede l’articolo 111 della Costituzione, che ogni processo si svolga nel contraddittorio tra le parti, in condizioni di parità, di fronte a un giudice terzo e imparziale, all’interno di un percorso che garantisce alla persona accusata di un reato di essere informata riservatamente della natura e dei motivi dell’accusa elevata a suo carico e di avere diritto a una durata ragionevole del processo? Si può davvero dire oggi, come prevede l’articolo 112 della Costituzione, che l’obbligatorietà dell’azione penale sia volta a garantire sia l’indipendenza del pubblico ministero, quale organo appartenente alla magistratura, sia l’eguaglianza dei cittadini davanti alla legge e non sia invece diventata tutto il suo opposto?

 

La vicenda Palamara, sommata al caso Amara, sommata alla guerra tra correnti della magistratura, sommata alla lotta tra bande nel Csm, sommata all’utilizzo sempre più discrezionale dell’azione penale, sommata all’uso spregiudicato degli strumenti del circo mediatico e sommata alla battaglia tra giustizia amministrativa e giustizia ordinaria, che ieri ha portato alla decapitazione formale via Consiglio di stato della testa della procura di Roma, è un cocktail letale, che dimostra come la giustizia italiana non abbia bisogno di svolte copernicane ma abbia semplicemente bisogno di una rivoluzione guidata da un unico motore: combattere la giustizia marcia attraverso l’ordinario rispetto della Costituzione. E il fatto che la normalità appaia oggi come una rivoluzione offre la dimensione precisa della grandezza del buco nero all’interno del quale la politica, a colpi di populismo penale, ha fatto sprofondare, negli anni, la nostra giustizia. Se vogliamo, la resilienza della giustizia passa tutta da qui: non da una rivoluzione epocale, ma dal semplice ritorno alla normalità.Claudio Cerasa

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  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.