Giustizialisti in mutande: una lezione per loro e per il paese

Claudio Cerasa

Da Grillo a Morra, da Gratteri a Davigo, alla procura di Milano: gli scandali di questi giorni possono essere uno spasso, quando i giustizialisti si scoprono all’improvviso garantisti  e nemici della cultura del sospetto

Siamo degli inguaribili ottimisti, lo sappiamo. Tendiamo sempre a vedere il bicchiere mezzo pieno e non mezzo vuoto, lo ammettiamo. Rischiamo, ogni tanto, di sopravvalutare alcuni piccoli segnali che raccogliamo nelle cronache quotidiane che forse dimostrano meno di quello che noi ci aspettiamo. Ma stavolta è diverso. Stavolta lo sballo è sincero. Stavolta guardando il mondo della giustizia c’è un modo diverso di guardare gli scandali di questi giorni, e lo si nota se si sceglie di osservare il bicchiere non solo nella sua parte mezza vuota (il disastro) ma anche nella sua parte mezza piena (lo spasso). Lo spasso in questione, a costo di essere un po’ cinici, è quello che riguarda l’incredibile spettacolo offerto in questi giorni dalla giustizia italiana. E se proviamo ad allargare la nostra inquadratura, tentando in modo eroico di non soffermarci solo sui piccoli dettagli, ci renderemo conto di un fatto difficile da negare: il momento terribile, drammatico, osceno, crudele vissuto in questi mesi dai giustizialisti italiani. 

  

Pensate per esempio a Beppe Grillo che sul tema delle accuse al figlio è oggi lì a fare i conti con un circo mediatico-giudiziario che secondo lui avrebbe trasformato in furfante proprio il figlio, e verrebbe da chiedere a Grillo chi, secondo lui, in questi anni ha contribuito ad alimentare quel distributore automatico di fango che lui stesso oggi sembra voler denunciare. Pensate per esempio al brutto momento che sta passando un politico tutto d’un pezzo come Nicola Morra, scomodissimo presidente dell’Antimafia, che dopo aver foraggiato per anni, anch’egli, il circo mediatico-giudiziario si ritrova ora a fare i conti con un circo che gli chiede conto di ciò che ha combinato con PierAnguillo Davigo (copyright Robledo), che, secondo lo stesso racconto di Morra, gli avrebbe consegnato, in un sottoscala, dei verbali coperti da segreto istruttorio, commettendo dunque, sempre stando alle dichiarazioni di Morra, un reato che se fosse stato ammesso da qualcun altro sarebbe stato considerato da Morra ovviamente come un’oscenità fino a prova contraria. E invece oggi no. Pensate a questo. E pensate anche ad altro.

 

Per esempio al brutto momento che sta passando un magistrato tutto d’un pezzo come Sebastiano Ardita, già autore di un saggio molto scomodo sui giustizialisti italiani (firmato con Piercamillo Davigo, con prefazione di Marco Travaglio) e già animatore nel passato (nel 2017) del primo convegno organizzato dall’associazione di Casaleggio, altra grande jam session di garantisti, che oggi si ritrova a fare i conti con un circo mediatico-giudiziario che ha provato a screditarlo (Amara, il cocco della procura di Milano, ha inserito anche il nome di Ardita nella famosa e fantomatica loggia Ungheria). Pensate per esempio al brutto momento che sta passando Piercamillo Davigo, a cui va tutta la nostra sincera e umana solidarietà, che al netto delle azioni compiute con il dottor Storari, azioni che sarà certamente la magistratura a giudicare in modo non accondiscendente, perché noi, come tutti gli italiani, abbiamo fiducia nella magistratura, si trova oggi ad affrontare una sfida più complicata di quella giudiziaria. Per chi si fosse distratto: Davigo ha ricevuto dal dottor Storari senza averne il diritto delle carte coperte dal segreto istruttorio. E secondo quanto dice il vicepresidente del Csm David Ermini, la ricezione di quelle carte non è mai stata comunicata in forma ufficiale, scritta, al comitato di presidenza del Csm. E proprio quelle carte poi sarebbero state successivamente offerte dalla  segretaria di Davigo, poco dopo il pensionamento di Davigo, ad alcuni giornalisti. Non ce ne voglia PierAnguillo, ma siamo certi che,  se il caso Davigo non avesse riguardato Davigo,   l’ex pm di Mani Pulite avrebbe usato per il dottor Davigo, di fronte alle azioni della sua ex segretaria, una frase tipica della cultura giustizialista: no, non poteva non sapere.

 

Pensate a questo. E pensate, tra gli altri giustizialisti in mutande, per esempio al Movimento 5 stelle e al Pd, costretti a scrivere nero su bianco, sul Pnrr, che la corruzione non è un elemento endemico della società italiana  che si cura appesantendo lo stato, ma è un elemento che si può provare a sradicare partendo da tre consapevolezze diverse: dal fatto che “la corruzione può trovare alimento nell’eccesso e nella complicazione delle leggi”; dal fatto che diverse “norme sui controlli pubblici di attività private, come le ispezioni, da antidoti alla corruzione sono divenute spesso occasione di corruzione”; dal fatto che “occorra evitare che alcune norme nate per contrastare la corruzione impongano alle amministrazioni pubbliche e a soggetti privati di rilevanza pubblica oneri e adempimenti troppo pesanti”. Il tutto dopo aver combattuto per anni la corruzione facendo l’esatto opposto: appesantendo lo stato a colpi di populismo penale, perché non esistono innocenti, esistono solo colpevoli non ancora scoperti. Pensate poi per esempio a Gratteri, costretto a scusarsi per aver scritto fesserie complottiste nella famosa introduzione allo scomodissimo libro sui segreti di stato della pandemia, e costretto di fatto a rinnegare lo stesso spirito giustizialista, tutti colpevoli fino a prova contraria, che ha animato non poche delle sue invettive giudiziarie.

 

Pensate per esempio ai giornali complici degli inventori delle patacche (Ciancimino, il pataccaro, è stato per anni un idolo degli stessi giornali, Repubblica e il Fatto, che oggi invece si scagliano senza mezzi termini contro il pataccaro Amara, arrivando anche a condannare il metodo usato da loro stessi nel passato, ovvero la violazione del segreto) che oggi sono lì impegnati a convincere i propri lettori di un fatto preciso: no, le patacche non sempre sono una risorsa ma  invece sono spesso un problema. Tu guarda. Pensate al caso, ancora, della procura di Milano, specchio perfetto del modo in cui un pezzo della magistratura italiana, negli ultimi anni, ha preso letteralmente in giro il paese con la farsa dell’obbligatorietà dell’azione penale (espressione che forse andrebbe sostituita nei manuali di giurisprudenza con l’aleatorietà dell’azione penale) il cui capo, l’altissimo e rispettabilissimo dottore Francesco Greco, si ritrova sotto attacco di un manipolo di ex giustizialisti convertiti, come Antonio Ingroia e Antonio Di Pietro. Con il primo, vai avanti tu che a me vien da ridere, che arriva a dire che il caso Amara “consegna un pessimo spettacolo agli occhi dei cittadini che hanno la deleteria, e difficilmente contestabile, impressione che gli uffici giudiziari e perfino le auliche sedi del Consiglio superiore della magistratura si sono trasformate in una cosa peggiore del ‘palazzo dei veleni’, in veri e propri ring dove si consumano guerre per bande, senza esclusione di colpi”. E con il secondo che, riferendosi a un altro filone di indagine in cui era coinvolto Amara, il caso Eni, condotto con la consueta eleganza dal dottor Fabio De Pasquale, ha condannato senza mezzi termini quanto fatto dalla procura di Milano in quell’indagine, perché “si è trattato di un modello di indagine alla ricerca di un reato, non è un modello di indagine alla scoperta del colpevole di un reato certo, avvenuto”.  

 

Giustizialisti di ieri contro il giustizialismo di oggi: uno sballo! Pensate a questo, ma pensate anche a tutti gli altri giustizialisti che si muovono come anguille (ops) nel torbido che loro stessi hanno contribuito ad alimentare (un caso su tutti: quello  del noto giornalista giustizialista di Arezzo vaccinatosi, ancora non si capisce come, prima di molti anziani della sua regione, che ha passato parte degli ultimi mesi, in quei preziosi istanti sottratti alle beauty farm, a lamentarsi dell’incredibile cultura del sospetto, alimentata davvero non si capisce da quali giornalisti e da quali giornali, che lo ha trasformato in modo inspiegabile in un manigoldo fino a prova contraria). Il grande spettacolo offerto dai giustizialisti che si scoprono improvvisamente garantisti, che si scoprono improvvisamente nemici della cultura del sospetto, che si scoprono improvvisamente nemici della teoria del “non poteva non sapere” non è uno spettacolo utile per dimenticare i disastri della giustizia italiana, ma è solo un modo per provare a osservarli coltivando un’illusione ottimistica eppure necessaria: sperare che i giustizialisti in mutande, un domani, possano pensarci due o tre volte prima di contribuire ad avvelenare i pozzi del paese con le loro sciocchezze. Chissà.

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  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.