La tragedia del Mottarone. Avidità è un movente di reato
Sbaglia chi accusa il profitto e chi vuole la gogna. Ma negare i fatti per non usare i nomi serve? Come evitare gli eccessi liberisti e ipergarantisti sul caso Stresa
Avidità è per una volta una parola usata non malaccio, non a casaccio, nonostante la titolistica italiana e certe idiozie del non pensiero politico facciano ribrezzo, anzi spavento. Avidità (Greed) è il film capolavoro di cento anni fa di Erich von Stroheim: non un comunista, uno che era fuggito da Vienna verso la Land of opportunity. Ma alla fine del suo colossale dramma è l’avidità che uccide: una strage grottesca, mentre le monete luccicano al sole, come ganasce di freni di una funivia precipitata. Manomettere i freni per non pagare dazio alla crisi dell’azienda non è malintesa cultura del rischio, non è disperata resilienza al lockdown. E’ un reato grave, con il movente dell’avidità. Movente diciamo, non peccato. E nemmeno, ovviamente, categoria politica: il profitto capitalista da abbattere. Ma di certo siamo così abituati, costretti, a un meccanismo di autodifesa (dell’intelligenza) per tutte le volte che sentiamo il paradosso di Brecht, “è più grave fondare una banca che sfondarla”, e anche più spesso storpiato da chi dice “restituzione”, che tendiamo a controbattere. Su questo, siamo d’accordo. Ma conviene fare attenzione all’ipercorrettismo, stavolta. In questo caso avidità è parola usata non malaccio, indica i fatti. (segue nell’inserto IV)
Forse persino la custodia cautelare, per una volta, potrebbe avere una logica (questo non lo so, e lo lascio appeso alla pura ipotesi: ma l’ipotesi che qualcuno voglia nascondere qualche carta, ora che le ganasce sono state ritrovate, nel paese di lago piccolo e che non mormora, può starci). Ed è il caso di stare attenti, anche noi di provata fede garantista, noi che il sospetto che fare una azienda e profitto sia una colpa lo respingiamo al mittente, noi che pensiamo che manomettere i freni sia il contrario della cultura d’impresa e della gestione del rischio. Perché questa volta, la volta della funivia volata giù per l’avidità, bisogna evitare di nascondere le colpe per difendere i concetti. Non si può negare che i gestori della funivia abbiano agito per avidità e sete di profitto; non si può dire che, al massimo, la tragica conseguenza è un accidente preterintenzionale; suggerire anzi che la crisi della pandemia mordeva più delle ganasce. Una rapina a mano armata, che mette in conto i morti, è fatta per avidità e sete di profitto: questo va detto, senza timore che chi lo dica sia contro il profitto d’impresa. E nemmeno contro l’avidità in sé, per chi voglia intenderla come virtù. Di un barista che tenesse aperto anche nella certezza di essere malato e trasmettere il virus, perché altrimenti chiude, diremo che è rischio di impresa o crimine?
Così pure c’è un “ipercorrettismo ipergarantista”, per prendere in prestito l’espressione da Giuliano Ferrara, che finisce per negare una dinamica (ipotetica, fino al terzo grado di giudizio) criminosa. Ci sono in Italia migliaia di casi di carcerazioni preventive errate, di innocenti sbattuti in galera e persino processati e condannati. L’ex sindaco di Lodi è solo l’ultimo esempio. Ma che la detenzione cautelare sia, in quanto tale, contraria allo stato di diritto, come qualcuno ha pure detto, non è vero. Per molti, per la canea delle tricoteuses, significa invece condanna già fatta, testa già mozzata sulle picche? Purtroppo sappiamo che è così, e lo è anche per certuni politici o firme di giornali. Ce ne facciamo una ragione. C’è chi chiede come al solito “pene esemplari”? Continueremo a combattere questa barbarie. Ma non al punto di voler difendere come imprenditori che hanno calcolato male, o addirittura come innocenti vessati dalla magistratura, persone che per le loro ammissioni sono semplicemente sospettati, per ora e fino a processo, di aver provocato una strage mossi dal movente dell’avidità.