Ecco perché Giovanni Brusca è stato scarcerato. Storia di un macellaio che ha espiato la pena
“Umanamente è una notizia che mi addolora, ma questa è la legge, una legge che peraltro ha voluto mio fratello e quindi va rispettata”, ha detto Maria Falcone.
Giovanni Brusca ha lasciato il carcere di Roma Rebibbia dopo 25 anni. Non è un regalo, almeno non stavolta, ma l'applicazione di una legge dello Stato. Si chiama diritto, anche se non coincide con il senso di giustizia.
Il boss stragista, colui che premette il telecomando a Capaci, lo strangolatore del piccolo Giuseppe Di Matteo, il killer di un numero indefinito di omicidi ha finito di scontare la sua pena. In carcere c'è rimasto cinque anni in meno dei trenta che gli erano stati inflitti. L'ulteriore sconto di pena è dovuto alla buona condotta che spetta a tutti i detenuti, persino a quelli come lui.
C'è chi lo avrebbe voluto morto da subito, secondo la logica “occhio per occhio e dente per dente”. Oppure lo avrebbe tenuto in carcere fino all'ultimo respiro, come avvenne per Totò Riina e Bernardo Provenzano. Da ore si assiste alla girandola delle dichiarazioni indignate. Quelle delle vittime della mafia sono comprensibili e giustificabili, altre meno.
Fuori dal coro Maria Falcone, sorella del magistrato che lo stesso Brusca fece saltare in aria a Capaci. “Umanamente è una notizia che mi addolora, ma questa è la legge, una legge che peraltro ha voluto mio fratello e quindi va rispettata”. Dura lex, sed lex.
Lo stato con Brusca ha siglato un accordo negli anni in cui la mafia sembrava invincibile e i pentiti erano l'unica arma a disposizione. Collaborare con la giustizia e, in cambio, niente ergastolo. Lo Stato ha rispettato il patto, ma Brusca è stato leale? Sarebbe bastato un pizzico dell'indignazione odierna per rendersi conto che il percorso dichiarativo del boss è stato quanto meno ondivago.
Sul papello, la lista delle richieste che i corleonesi avrebbero avanzato allo Stato per fermare le stragi, tacque per anni. Poi disse che Riina gliene parlò dopo la strage di via D’Amelio. Infine cambiò idea. Ne era venuto a conoscenza a cavallo dei due eccidi, appena dopo quello di Capaci. “Tornato in cella con questo dubbio da lì ho subito ricordato come sono andati i fatti”, disse lo smemorato Brusca. Forte era la sensazione che volesse compiacere coloro che lo stavano interrogando. All'improvviso, e dopo anni, si ricordò anche di un tale Vito Ciancimino, ex sindaco mafioso di Palermo, e del ruolo di Marcello Dell’Utri. Aveva paura, così si giustificò anche se il patto con lo Stato la paura non la prevedeva. E tacque a lungo pure su Calogero Mannino, definitivamente assolto dall’accusa di avere dato avvio alla Trattativa fra la mafia e lo Stato. Nel primo processo all'ex ministro democristiano, pure questo chiuso con l'assoluzione dall'accusa di concorso esterno in associazione mafiosa, a domande specifiche Brusca disse che sul conto di Mannino nulla gli risultava. Anni dopo, quando la trattativa Stato-mafia aveva già iniziato a tenere banco, nei tribunali e in Tv, ecco la folgorazione. Brusca spiegò che Mannino si mise a disposizione di Riina per aggiustare processi ed evitare di essere ammazzato. Si era dimenticato di un particolare, un peccatuccio. E lo ammise pure con sfacciataggine. I ricordi fuori tempo massimo erano “un difetto, molte volte cose che io non ho vissuto in prima persona le do per non importanti. Poi, quando arrivano alla mente, li racconto senza nessuna riserva”.