Giustizia e censori
L'assoluzione di Mannino e i pm contro la Cassazione: il de profundis della trattativa
I sostituti procuratori generali hanno presentato una memoria di 78 pagine che contesta la sentenza a favore dell'ex ministro. È tollerabile un tale accanimento accusatorio fuori tempo massimo?
L’ormai lungo romanzo mediatico-giudiziario della cosiddetta trattativa Stato-mafia si arricchisce di un ulteriore capitolo, suggestivo forse sul piano drammaturgico, ma discutibile in punto di diritto: la memoria di 78 pagine depositata dai sostituti procuratori generali Fici e Barbiera nel processo-trattativa con rito ordinario attualmente in fase di appello per contestare la fondatezza dell’assoluzione definitiva dell’ex ministro Calogero Mannino nel processo parallelo con rito abbreviato già conclusosi anche in Cassazione. Che la procura generale palermitana abbia interesse a tentare di smontare in profondità il predetto giudicato assolutorio è in sé comprensibile: l’accusa originaria rivolta a Mannino (di avere cioè sollecitato per primo il dialogo che esponenti delle istituzioni avrebbero avviato con i vertici mafiosi corleonesi per stipulare patti compromissori in vista dell’interruzione della strategia omicidiaria ai danni di uomini politici colpevoli, secondo Cosa nostra, di non aver voluto o saputo impedire l’avallo in Cassazione delle pesanti condanne piovute nel maxiprocesso) costituiva e continua infatti a costituire il presupposto di tutta la costruzione accusatoria della trattativa; per cui, se cade il primo pilastro, incombe il rischio concreto di un crollo dell’intera struttura argomentativa.
Nondimeno, rimane da chiedersi: è ammissibile che l’organo di accusa del processo-madre prenda in mano la matita blu per segnare i (presunti) numerosi errori motivazionali in cui sarebbero incorsi i giudici di un altro processo per giunta passato al vaglio del giudizio di legittimità? I sostituti procuratori generali ritengono di potersi ergere a super-censori del già deciso avvalendosi del ricorso all’art. 238 bis del codice di procedura penale, cioè di una disposizione normativa approvata subito dopo la strage di Capaci (in cui perse la vita Giovanni Falcone) e concepita appunto per essere applicata soprattutto nei processi di criminalità mafiosa: questa disposizione stabilisce che le sentenze divenute irrevocabili possono essere acquisite in altri procedimenti ai fini della prova dei fatti da esse accertati e sono valutate a norma degli artt. 187 e 192, comma 3, dello stesso codice di procedura (vale a dire unitamente agli altri elementi di prova disponibili).
Evidentemente il legislatore del 1992, disponendo in questo modo, muoveva dalla premessa – funzionale ad una esigenza di economia probatoria – che, essendo Cosa nostra una realtà criminosa unitaria, ogni singolo processo già concluso potesse contenere acquisizioni utili ai fini della condanna di altri mafiosi in processi ancora in corso: insomma, ciascun processo come un tassello che contribuisce alla messa in stato di accusa e alla punizione dell’intera organizzazione criminale. Se così è, sembra allora quantomeno dubbio che lo stesso art. 238 bis possa essere senza obiezioni utilizzato per uscire dal vicolo cieco di giudizi contraddittori sugli stessi fatti, la cui esistenza indebolisce fortemente un’ipotesi accusatoria che si intende nonostante tutto perseguire, e ciò sino al punto di pretendere di ribaltare di fatto e nella sostanza l’esito di processi già legittimamente chiusi. È vero che esiste pur sempre – come gli stessi procuratori riconoscono – lo sbarramento opposto dal principio del ne bis in idem, grazie al quale Mannino una volta assolto in via definitiva non può essere più formalmente riprocessato per gli stessi fatti. Ma è altrettanto vero che Mannino finisce, per effetto della mossa della procura, col subire ancora una volta la medesima imputazione su di un piano per così dire sostanziale, tornando a rivestire – anche agli occhi della pubblica opinione – il ruolo di un (presunto) colpevole fortunosamente sfuggito alla condanna a causa della (presunta) scarsa perizia dei suoi giudici. È tollerabile un tale accanimento accusatorio fuori tempo massimo, sia pure strumentale alla perseguita condanna di altri supposti protagonisti della trattativa, in uno Stato di diritto degno di questo nome?
Comunque sia, due assunti sembrano a questo punto ricevere una significativa conferma. Il primo è questo: l’esistenza di sentenze contrastanti riprova che l’impalcatura della trattativa è basata su di un teorema che non può in ogni caso essere provato oltre ogni ragionevole dubbio, per cui l’esito dovrebbe essere sempre assolutorio. Il secondo: l’auspicato salto di qualità della nostra giustizia penale esigerebbe, prima ancora che ennesime riforme legislative, un riorientamento culturale volto a contrastare la duplice patologia del teoremismo accusatorio e di un punitivismo oltranzista che tende, per di più, ad assimilare indebitamente giudizio penale, giudizio storico-politico e giudizio morale.
L'editoriale del direttore