Feticci dell'azione penale
Perché una buona riforma della giustizia ha il dovere assoluto di fare i conti con una falsa verità: la non discrezionalità del pubblico ministero. La Commissione Lattanzi e quelle svolte necessarie
Art. 112 della Costituzione: “Il pubblico ministero ha l’obbligo di esercitare l’azione penale”. Una frase, 9 parole o, come si conta oggi, 64 battute spazi inclusi.
Obbligatorietà sì, obbligatorietà no? Forse si può fare un passo avanti rispetto a una contrapposizione che spesso sembra assumere i caratteri di una guerra di religione.
Prescrivendo l’obbligatorietà dell’azione il Costituente ha voluto “soltanto” fissare un principio: l’eguaglianza di tutti davanti alla legge sancita dall’art. 3 esige che nell’applicazione della legge penale il primo attore, il pm, sia sottratto a ogni influenza dell’esecutivo. Era allora viva l’esperienza dell’influenza del regime fascista sull’attività del pubblico ministero, al quale, per di più, il codice Rocco consentiva l’archiviazione diretta senza alcun controllo del giudice istruttore. Ma la democrazia non ha definitivamente risolto il problema se è vero che ancora negli anni Ottanta del secolo appena trascorso si parlava della Procura di Roma come “porto delle nebbie”. Basterebbe solo evocare quello che fu chiamato l’“assalto” alla Banca d’Italia con l’incarcerazione di Mario Sarcinelli e il ritiro del passaporto a Paolo Baffi. Nella lettera con la quale trasmette il suo diario, intitolato asetticamente “Cronaca breve di una vicenda giudiziaria”, al giornalista Massimo Riva si legge l’amara considerazione di Baffi: “Ho dovuto accorgermi della potenza del complesso politico-affaristico-giudiziario che mi ha battuto”. Sono passati trent’anni, tutto è cambiato alla Procura di Roma, ma la lettura di quel diario, pubblicato su Panorama dell’11 febbraio 1990 è tuttora istruttiva.
In Francia vige il principio della opportunité des poursuites e non si è voluto recidere fino in fondo il cordone ombelicale tra esecutivo e pubblico ministero, ma tutta la recente evoluzione è nel senso di delimitare e circoscrivere l’intervento del governo con direttive ai procuratori generali: dapprima direttive scritte e non più discrete telefonate, poi direttive scritte e inserite nel fascicolo, quindi direttive solo in positivo come invito a procedere e non nel senso di non procedere. Ora è sempre più vivo il dibattito sulla permanenza di quel che resta del cordone ombelicale.
Se in Francia la tendenza è quella di delimitare la discrezionalità, che nella pratica ormai opera solo come deflazione per i casi di minima offensività (come d’altronde in Germania), in Italia all’opposto è oggetto di critica il principio di obbligatorietà.
Sgombriamo subito il campo dai cortocircuiti argomentativi. Non esistono nella realtà i “modelli puri” di processo, inquisitorio o accusatorio; non esiste negli stati democratici a livello globale e neppure nella nostra piccola Europa e neppure nell’ambito più ristretto dell’area di civil law un “modello di pm”. Per fortuna nel 1989 abbiamo adottato un codice di procedura penale che dalla ispirazione accusatoria trae il principio fondamentale del contraddittorio e per fortuna, saggiamente, non abbiamo adottato il modello del pm americano. Voler trarre la conseguenza della soppressione del principio di obbligatorietà dalla adozione di un processo ispirato al contraddittorio è una forzatura. D’altronde, e in senso opposto, in Francia la discrezionalità è inserita in un sistema che mantiene istituti del processo inquisitorio.
Torniamo allora al nostro art. 112 della Costituzione: “Il pubblico ministero ha l’obbligo di esercitare l’azione penale”. Il principio, lo si è detto, esprime un valore, ma l’attuazione concreta apre una serie di problemi, che non possono essere elusi.
Obbligo, ma quando, su quali presupposti? La facile risposta del codice “quando vi è una notizia di reato” non risolve nulla. Si tratta di una “notizia” circostanziata o una vaga suggestione o peggio la polpetta avvelenata di una fake news? E cosa è “reato”? La risposta dei manuali è semplice, perché meramente formale: “Reato è ciò per cui è prevista una sanzione penale”.
Ma inquadrare il fatto concreto nella congerie delle norme previste dal codice penale e dalle innumerevoli leggi speciali che prevedono sanzioni penali è tutt’altro che una operazione meccanica. Oggi di fronte alla complessità della legislazione, interna, europea, internazionale, non appaga la figura del giudice “bocca che pronuncia le parole della legge… essere inanimato”. Se questo vale per il giudice che, in penale come nel civile, non procede d’ufficio, ma su impulso di parte e dunque su un terreno già circoscritto e inoltre è “assistito” dal contraddittorio tra le parti, varrà a maggior ragione per il “povero pm”.
Una provocazione “povero pm” a fronte dei grandi poteri che gli sono attribuiti? Egli è solo in questa fase del tutto iniziale, non è “assistito” dal contraddittorio con la difesa, deve individuare la norma che sarebbe applicabile. Deve governare le inevitabili pulsioni della polizia alla ricerca di un risultato immediato. Deve resistere alle suggestioni di una opinione pubblica altalenante, che un giorno è occhiutamente garantista, ma il giorno appresso chiede al pm di dare risposte a problemi politici e sociali, di indagare su “fenomeni criminali”, o addirittura di “lanciare segnali alla politica” o infine di farsi custode della virtù pubblica, intervenendo su fatti di malcostume o irregolarità amministrative. Alcuni pm, per insufficienza di cultura quando non per smania di protagonismo, non resistono a queste sirene, dimenticando che il pm ha l’obbligo di accertare fatti di reato specifici e responsabilità individuali, con il livello di prova elevato che si esige per una condanna, nel pieno rispetto delle garanzie di difesa. Oggi è passata nel linguaggio giornalistico la impropria ridondante locuzione “reati penali”, ma forse serve a segnare un limite.
Compito difficile quello del “povero pm” in questa fase iniziale: strattonato da una parte e dall’altra, deve attuare il principio di “obbligatorietà” attraverso una serie di scelte ineluttabilmente discrezionali, tra diverse opzioni possibili.
E’ inconsistente il pretestuoso trincerarsi di alcuni pubblici ministeri dietro il principio della obbligatorietà dell’azione penale, o peggio dietro la fuorviante giaculatoria dell’“atto dovuto”, per evitare di misurarsi con la assunzione di responsabilità per le scelte che percorrono tutta l’attività del pm, pur se rigorosamente svolta nella osservanza delle regole e delle garanzie del processo.
Una recente vicenda ha attirato l’attenzione sul momento della “iscrizione della notizia di reato”. “Immediatamente” dice la norma processuale, ma spesso non è né semplice né immediato individuare se la notizia riguardi un “reato”. Infatti è previsto anche il Registro mod. 45 per le “non notizie di reato”, accanto ad altri due, uno per le notizie a carico di ignoti (Mod. 44) e altro per i noti (Mod 21).
Il pm iscrive “immediatamente”, ma in quale dei tre registri mod 21, 44 o 45? Reato o non reato? Noti o ignoti? Qualunque scelta ha margini di opinabilità e può prestarsi ad arbitri, ma appunto è una scelta che il pm deve operare. Immediatamente? Ma già l’esame preliminare della “notizia” può non essere così semplice. Ed è più garantista, nel dubbio, iscrivere comunque e subito a mod. 21 noti? Procedere ad iscrizioni non necessarie è tanto inappropriato quanto omettere le iscrizioni dovute.
Dunque se neanche quello che apparirebbe più semplice, la “immediata” iscrizione della notizia di reato è automatico, successivamente scelte che comportano esercizio di discrezionalità punteggiano tutta la attività di indagine del pm.
Da ultimo: obbligatorietà/priorità.
Adattando la nota replica di Mark Twain alla pubblicazione della notizia della sua morte, mi verrebbe da dire che la questione dei criteri di priorità dell’azione penale “è fortemente esagerata.” Mi riferisco al valore salvifico che si attribuisce all’idea di un elenco di reati messi in fila uno dopo l’altro.
La assunzione di responsabilità per l’indicazione di priorità a livello nazionale non può che essere del Parlamento. Naturalmente il Parlamento non potrebbe mai dare la direttiva più drastica: non perseguite questi reati. Sarebbero quelli che proprio il Parlamento dovrebbe cancellare con la depenalizzazione.
La Commissione Lattanzi insediata dalla ministra Cartabia ha proposto un emendamento ragionevole al disegno di legge Bonafede n. 2034: “Prevedere che il Parlamento determini periodicamente, anche sulla base di una relazione presentata dal Consiglio superiore della magistratura, i criteri generali necessari a garantire efficacia e uniformità nell’esercizio dell’azione penale e nella trattazione dei processi; prevedere che, nell’ambito dei criteri generali adottati dal Parlamento, gli uffici giudiziari, previa interlocuzione tra uffici requirenti e giudicanti, predispongano i criteri di priorità nell’esercizio dell’azione penale e nella trattazione dei processi, tenuto conto della specifica realtà criminale e territoriale, nonché del numero degli affari e delle risorse disponibili”.
Viene abbandonata la originaria proposta Bonafede: “Prevedere che gli uffici del pubblico ministero, per garantire l’efficace e uniforme esercizio dell’azione penale, individuino criteri di priorità trasparenti e predeterminati, da indicare nei progetti organizzativi delle procure della Repubblica”, che tagliava fuori del tutto il Parlamento e il Csm.
Rimane, nel clima del dilagante populismo penale, il rischio che si verifichi quanto descriveva qualche anno fa un procuratore francese. "Siamo sommersi da circolari di politica generale che ci impongono delle priorità, ma queste circolari sono così numerose che praticamente tutto è prioritario e dunque dobbiamo noi ridefinire un poco le priorità […] Se facciamo l’inventario di tutte queste circolari, le quali ci dicono che un tale settore deve essere trattato con diligenza, fermezza e celerità, vediamo che esse riguardano quasi l’80 per cento dei nostri fascicoli. E dunque dobbiamo fare una selezione di ciò che è realmente urgente e importante” (Testimonianza di un procuratore della Repubblica in Ph.Milburn, K.Kostulski, D.Salas, Les procureurs.Entre vocation judiciaire et fonctions politiques, Puf, Paris 2010, pp. 91-92, mia traduzione)
La politica criminale più che in direttive di priorità si concreta nell’adeguamento della normativa penale processuale e sostanziale, nelle scelte organizzative sull’impiego delle risorse materiali e tecnologiche e nella distribuzione del personale di magistratura e delle forze di polizia.
Le eventuali priorità definite annualmente a livello nazionale devono essere calibrate a livello locale e costantemente monitorate. La attuazione pratica di questi indirizzi nella singola Procura si traduce nella dislocazione delle risorse materiali, tecnologiche e umane. La normativa del 2006 ha realisticamente precisato il potere/dovere del procuratore nella responsabilità della organizzazione di un ufficio, che nel rispetto della dignità professionale di tutti i magistrati sostituti, richiede una uniformità di indirizzo. Le scelte organizzative del procuratore si devono attuare nella trasparenza dei “Criteri di organizzazione dell’ufficio”, che sarebbe bene il legislatore raccordasse con le “Tabelle degli uffici giudicanti”. Andrebbe generalizzato lo strumento del Bilancio di responsabilità sociale.; la pionieristica iniziativa, diversi anni, addietro dal procuratore della Repubblica di Bolzano Cuno Tarfusser, è tuttora poco seguita, con l’unica rilevante eccezione degli uffici giudiziari di Milano. Ma in conclusione ritorniamo alla grande responsabilità in capo al pubblico ministero, che esige cultura professionale, rigoroso rispetto delle garanzie e forte impegno deontologico.
Ora in pensione, Edmondo Bruti Liberati è stato fra l’altro procuratore della Repubblica di Milano e presidente dell’Associazione nazionale magistrati.