Amara come Ciancimino
Indagato, testimone e pataccaro: stesso metodo stesso risultato. L'ennesima inchiesta su Piero Amara sta facendo sbriciolare la già fragile credibilità della magistratura italiana, non solo quella che si è fatta corrompere da lui, ma anche quella inquirente che l’ha usato o si è fatta usare in una dinamica poco trasparente (vedi: loggia Ungheria)
Ha cercato in tutti i modi di evitarlo ma alla fine, dopo tre anni, l’avvocato Amara è stato arrestato di nuovo. L’accusa è sempre quella di corruzione di magistrati, la sua specialità, stavolta insieme a lui le misure cautelari sono scattate per l’ex procuratore di Trani e Taranto Carlo Maria Capristo che, secondo la procura di Potenza, aveva venduto la sua funzione giudiziaria. Dopo Siracusa, Roma, Milano e Perugia quella lucana è la quinta procura a occuparsi dell’avvocato che sta facendo sbriciolare la già fragile credibilità della magistratura italiana. Non solo quella che si è fatta corrompere da Amara, ma anche quella inquirente che l’ha usato o si è fatta usare in una dinamica poco trasparente.
Per certi versi la figura e la parabola di Piero Amara ricordano quelle di Massimo Ciancimino sulla cosiddetta “Trattativa stato mafia”. In entrambi i casi parliamo di sedicenti “pentiti”, presentati al pubblico come “collaboratori di giustizia”, ma che in realtà sono presenti nelle inchieste nella doppia veste di indagati e testimoni che diffondono patacche. Un ruolo ambiguo che ha consentito a entrambi di fare dichiarazioni senza scadenza prefissate; di mischiare il vero con il falso; di lanciare accuse false e calunniose; di promettere prove inconfutabili e identità misteriose come papelli, fantomatici “signor Franco” o liste di aderenti alla “loggia Ungheria” che però non arrivano; di andare incontro ai desideri delle procure che li indagano, magari per preservare i propri patrimoni e i propri interessi; di trasformarsi in oracoli e fenomeni anche televisivi.
Il recente intervento di Amara a "Piazzapulita", benché non abbia detto nulla di chiaro e sostanziale, è fondamentale per capire il suo metodo: ha diffuso pizzini e messaggi in codice, ha fatto capire di avere delle “registrazioni”, ha fatto allusioni e scagionato mascariando (paradigmatico il riferimento a Sebastiano Ardita, definito un “monumento storico della magistratura” che però non avrebbe detto la verità sui torbidi rapporti con il Tinebra, il magistrato deceduto e asserito capo della presunta loggia). Inoltre Amara con la teoria del doppio cerchio della loggia Ungheria – uno esterno fatto di persone perbene e ignare, l’altro interno e segreto che invece è un’associazione a delinquere – si è lasciato il margine poi per mettere nel primo o nel secondo cerchio tutti i nomi che secondo lui farebbero parte di questa “loggia”.
E’ vero che Amara ha ammesso alcuni reati per avere sconti, ma ha allo stesso tempo fatto dichiarazioni false e calunniose. Ha iniziato, quando era indagato a Roma, contro il magistrato Stefano Rocco Fava: Amara dichiarò di avere avuto accesso alle notizie sulle inchieste a suo carico attraverso un carabiniere corrotto che, a sua volta, le riceveva dal pm Fava. L’accusa era falsa, smentita dall’ufficiale pagato da Amara, e serviva a far fuori l’unico pm che a Roma lo voleva arrestare. Non solo non si è proceduto contro Amara, ma l’ha avuta vinta perché Fava, dopo il famoso scontro nella sua procura con Giuseppe Pignatone e Paolo Ielo, è caduto in disgrazia e ora è a processo a Perugia insieme a Luca Palamara. Così Fava viene spogliato del suo fascicolo, Amara non viene arrestato e non si procede neppure al sequestro del patrimonio da decine di milioni di euro della Napag, una società che secondo Fava è riconducibile proprio ad Amara. Che nel frattempo, secondo la procura di Potenza, ha continuato a delinquere.
Quando il fascicolo si sposta a Milano, Amara si rende subito protagonista di altre rivelazioni e accuse infondate. La vittima più importante del suo metodo è il giudice milanese Marco Tremolada, che avrebbe dovuto emettere la sentenza sul famoso caso Eni-Nigeria a cui la procura teneva molto e che poi ha visto tutti assolti. Amara riferisce di aver saputo, sempre de relato, che gli avvocati Eni hanno avuto “accesso” al giudice Tremolada e avuto rassicurazioni sull’assoluzione. L’accusa era gravissima e ritenuta credibile dalla procura di Milano, anche se si è rivelata infondata. Neppure in questo caso si è però proceduto per calunnia. Amara cerca di liberarsi di magistrati scomodi e di sorreggere le inchieste delle procure, che stranamente sono piuttosto lente sui procedimenti a suo carico come quello per depistaggio sul “falso complotto Eni” fermo da anni a Milano.
Quando il fascicolo sulla “loggia Ungheria” arriva a Perugia, anche qui, Amara da indagato diventa un testimone che puntella un’altra inchiesta della procura con dichiarazioni – sempre de relato e già smentite da chi viene tirato in ballo come il pg di Messina Vincenzo Barbaro – che rafforzano l’accusa per corruzione a carico di Palamara che era abbastanza fragile.
Si fa fatica a comprendere come importanti procure guidate da magistrati esperti si siano fatte portare a spasso da un personaggio come Amara. Ma dopo che, con lo stesso metodo, è stato concesso a Ciancimino di girare scortato per l’Italia con i candelotti di dinamite in auto e di nasconderli nel giardino di casa, tutto appare purtroppo normale.