Amara come Ciancimino

Luciano Capone

Indagato, testimone e pataccaro: stesso metodo stesso risultato. L'ennesima inchiesta su Piero Amara sta facendo sbriciolare la già fragile credibilità della magistratura italiana, non solo quella che si è fatta corrompere da lui, ma anche quella inquirente che l’ha usato o si è fatta usare in una dinamica poco trasparente (vedi: loggia Ungheria)

Ha cercato in tutti i modi di evitarlo ma alla fine, dopo tre anni, l’avvocato Amara è stato arrestato di nuovo. L’accusa è sempre quella di corruzione di magistrati, la sua specialità, stavolta insieme a lui le misure cautelari sono scattate per l’ex procuratore di Trani e Taranto Carlo Maria Capristo che, secondo la procura di Potenza, aveva venduto la sua funzione giudiziaria. Dopo Siracusa, Roma, Milano e Perugia quella lucana è la quinta procura a occuparsi dell’avvocato che sta facendo sbriciolare la già fragile credibilità della magistratura italiana. Non solo quella che si è fatta corrompere da Amara, ma anche quella inquirente che l’ha usato o si è fatta usare in una dinamica poco trasparente.

 

Per certi versi la figura e la parabola di Piero Amara ricordano quelle di Massimo Ciancimino sulla cosiddetta “Trattativa stato mafia”. In entrambi i casi parliamo di sedicenti “pentiti”, presentati al pubblico come “collaboratori di giustizia”, ma che in realtà sono presenti nelle inchieste nella doppia veste di indagati e testimoni che diffondono patacche. Un ruolo ambiguo che ha consentito a entrambi di fare dichiarazioni senza scadenza prefissate; di mischiare il vero con il falso; di lanciare accuse false e calunniose; di promettere prove inconfutabili e identità misteriose come papelli, fantomatici “signor Franco” o liste di aderenti alla “loggia Ungheria” che però non arrivano; di andare incontro ai desideri delle procure che li indagano, magari per preservare i propri patrimoni e i propri interessi; di trasformarsi in oracoli e fenomeni anche televisivi. 


Il recente intervento di Amara a "Piazzapulita", benché non abbia detto nulla di chiaro e sostanziale, è fondamentale per capire il suo metodo: ha diffuso pizzini e messaggi in codice, ha fatto capire di avere delle “registrazioni”, ha fatto allusioni e scagionato mascariando (paradigmatico il riferimento a Sebastiano Ardita, definito un “monumento storico della magistratura” che però non avrebbe detto la verità sui torbidi rapporti con il Tinebra, il magistrato deceduto  e asserito capo della presunta loggia). Inoltre Amara con la teoria del doppio cerchio della loggia Ungheria – uno esterno fatto di persone perbene e ignare, l’altro interno e segreto che invece è un’associazione a delinquere – si è lasciato il margine poi per mettere nel primo o nel secondo cerchio tutti i nomi che secondo lui farebbero parte di questa “loggia”.


E’ vero che Amara ha ammesso alcuni reati per avere sconti, ma ha allo stesso tempo fatto dichiarazioni false e calunniose. Ha iniziato, quando era indagato a Roma, contro il magistrato Stefano Rocco Fava: Amara dichiarò di avere avuto accesso alle notizie sulle inchieste a suo carico attraverso un carabiniere corrotto che, a sua volta, le riceveva dal pm Fava. L’accusa era falsa, smentita dall’ufficiale pagato da Amara, e serviva a far fuori l’unico pm che a Roma lo voleva arrestare. Non solo non si è proceduto contro Amara, ma l’ha avuta vinta perché Fava, dopo il famoso scontro nella sua procura con Giuseppe Pignatone e Paolo Ielo, è caduto in disgrazia e ora è a processo a Perugia insieme a Luca Palamara. Così Fava viene spogliato del suo fascicolo, Amara non viene arrestato e non si procede neppure al sequestro del patrimonio da decine di milioni di euro della Napag, una società che secondo Fava è riconducibile proprio ad Amara. Che nel frattempo, secondo la procura di Potenza, ha continuato a delinquere.

 

Quando il fascicolo si sposta a Milano, Amara si rende subito protagonista di altre rivelazioni e accuse infondate. La vittima più importante del suo metodo è il giudice milanese Marco Tremolada, che avrebbe dovuto emettere la sentenza sul famoso caso Eni-Nigeria a cui la procura teneva molto e che poi ha visto tutti assolti. Amara riferisce di aver saputo, sempre de relato, che gli avvocati Eni hanno avuto “accesso” al giudice Tremolada e avuto rassicurazioni sull’assoluzione. L’accusa era gravissima e ritenuta credibile dalla procura di Milano, anche se si è rivelata infondata. Neppure in questo caso si è però proceduto per calunnia. Amara cerca di liberarsi di magistrati scomodi e di sorreggere le inchieste delle procure, che stranamente sono piuttosto lente sui procedimenti a suo carico come quello per depistaggio sul “falso complotto Eni” fermo da anni a Milano.

 

Quando il fascicolo sulla “loggia Ungheria” arriva a Perugia, anche qui, Amara da indagato diventa un testimone che puntella un’altra inchiesta della procura con dichiarazioni – sempre de relato e già smentite da chi viene tirato in ballo come il pg di Messina Vincenzo Barbaro – che rafforzano l’accusa per corruzione a carico di Palamara che era abbastanza fragile.
Si fa fatica a comprendere come importanti procure guidate da magistrati esperti si siano fatte portare a spasso da un personaggio come Amara. Ma dopo che, con lo stesso metodo, è stato concesso a Ciancimino di girare scortato per l’Italia con i candelotti di dinamite in auto e di nasconderli nel giardino di casa, tutto appare purtroppo normale.

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  • Luciano Capone
  • Cresciuto in Irpinia, a Savignano. Studi a Milano, Università Cattolica. Liberista per formazione, giornalista per deformazione. Al Foglio prima come lettore, poi collaboratore, infine redattore. Mi occupo principalmente di economia, ma anche di politica, inchieste, cultura, varie ed eventuali