L'amministratore delegato di Eni Claudio Descalzi (LaPresse)Claudio Descalzi 

Eni e rito ambrosiano

Imputati assolti e pm indagati. Il disastro del processo Eni-Nigeria

Ermes Antonucci

Dopo le accuse al giudice, le prove nascoste alla difesa. Indagati i pm milanesi del processo Eni-Nigeria 

Era nato con l’obiettivo di svelare il più grande caso di corruzione internazionale della storia, e invece rischia di trasformarsi in uno dei più gravi scandali della storia della magistratura italiana. Si tratta del processo per corruzione contro Eni e Shell per l’acquisto della concessione petrolifera Opl 245 in Nigeria. Lo scorso marzo tutti gli imputati, tra cui l’amministratore delegato di Eni Claudio Descalzi e il suo predecessore Paolo Scaroni, sono stati assolti dalla settima sezione penale del tribunale di Milano, presieduta dal giudice Marco Tremolada, che ha bocciato senza scampo l’impianto accusatorio dei pm milanesi Fabio De Pasquale e Sergio Spadaro. A quasi tre mesi dall’assoluzione, ora giunge l’ennesimo colpo di scena: De Pasquale e Spadaro sono indagati dalla procura di Brescia con l’ipotesi di rifiuto di atti d’ufficio, per aver omesso di depositare tra gli atti del processo Eni-Shell documenti che sarebbero stati elementi di prova favorevoli agli imputati.

 

L’ipotesi dei magistrati bresciani è che i colleghi milanesi, pur avendo la consapevolezza della falsità delle prove portate dall’ex manager di Eni Vincenzo Armanna (il grande accusatore dei vertici Eni, fortemente valorizzato dalla procura), avrebbero omesso di mettere a disposizione delle difese e del tribunale gli atti su tale falsità. L’attenzione dei pm di Brescia è rivolta, in particolare, alla decisione degli inquirenti milanesi di non depositare una videoregistrazione che mostrava l’intento ricattatorio di Armanna nei confronti dei dirigenti Eni, né alcune chat dalle quali emergevano le prove di un versamento di 50 mila dollari da parte di Armanna in favore di un testimone, il super-poliziotto nigeriano Isaak Eke (un teste chiave dell’accusa che, però, poi in aula smentì le sue dichiarazioni iniziali).

 

A scoprire questo versamento sarebbe stato il pm Paolo Storari, responsabile dell’indagine sul cosiddetto “falso complotto” Eni orchestrato dall’avvocato Amara (e anch’egli, Storari, indagato  a Brescia per il caso dei verbali di Amara sulla presunta loggia Ungheria consegnati all’allora consigliere del Csm Piercamillo Davigo). Storari avrebbe informato della scoperta i colleghi, che però avrebbero deciso comunque di non depositare gli atti al processo, mentre Armanna avrebbe prodotto nel dibattimento conversazioni nelle quali mancavano parti dei dialoghi.

 

L’iscrizione di De Pasquale e Spadaro nel registro degli indagati risalirebbe a una decina di giorni fa, dopo l’interrogatorio reso da Storari ai magistrati bresciani, e quindi prima del deposito (avvenuto mercoledì scorso) delle motivazioni della sentenza con cui il tribunale di Milano ha assolto tutti gli imputati del processo Eni-Shell. E anche nelle motivazioni i giudici milanesi criticano l’operato dei pm sottolineando non solo la mancanza di prove a sostegno delle accuse, ma anche alcune decisioni “irrituali” e “incomprensibili” degli stessi inquirenti.

 

La prima appunto riguarda proprio il mancato deposito della videoregistrazione in cui Armanna, licenziato dall’Eni un anno prima, preannuncia l’intenzione di rivolgersi ai pm milanesi per far arrivare “una valanga di merda” ad alcuni dirigenti apicali dell’azienda. L’esistenza del video venne scoperta per caso, nel corso di un altro procedimento, da uno dei difensori degli imputati. A tal proposito, i giudici scrivono con un certo fastidio nella sentenza: “Risulta incomprensibile la scelta del pubblico ministero di non depositare fra gli atti del procedimento un documento che, portando alla luce l’uso strumentale che Vincenzo Armanna intendeva fare delle proprie dichiarazioni e della auspicata conseguente attivazione dell’autorità inquirente, reca straordinari elementi a favore degli imputati”.

 

A opinione dei giudici sorprende ancora di più, tanto da essere definita “irrituale”, la richiesta avanzata dai pm milanesi nel febbraio 2020, cioè dopo oltre due anni di processo, di ascoltare in aula Piero Amara, affinché questi riferisse su presunte “interferenze da parte della difesa Eni” nei confronti del giudice Tremolada. Una richiesta, evidenziano i giudici, che avrebbe imposto “valutazioni che non competono a questo tribunale”. Le affermazioni di Amara, secondo cui gli avvocati di Eni avrebbero ricevuto rassicurazioni dal giudice sull’assoluzione, sono poi state valutate sempre dalla procura di Brescia e ritenute prive di attendibilità. Anche questa vicenda rischia di arrivare al Csm.

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