Girotondo di opinioni
L'anno zero della giustizia. Parlano Bruti Liberati, Nordio e Rossi
Prescrizione, separazione delle carriere, riforma del Csm, riorganizzazione dei tribunali e referendum di Lega e Radicali. Un'analisi fuori dalle correnti e dalle schermaglie quotidiane
Ci sono magistrati che guerreggiano, gli uni contro gli altri, a colpi di dossier e denunce, e poi ci sono magistrati che disegnano percorsi di riforma, immaginano un mondo nuovo, con regole e prassi capaci di coniugare diritto e buon senso. Forse l’età della saggezza aiuta a guadagnare distacco, a formulare analisi più lucide e autonome rispetto all’andamento correntizio e alle schermaglie quotidiane che certo non favoriscono il necessario processo di riabilitazione di una magistratura in crisi di autorevolezza.
Bruti Liberati: “Riorganizzare la geografia giudiziaria”
“Il primo tema da affrontare è la lentezza dei processi civili e penali – dichiara al Foglio Bruti Liberati, Nordio e Rossi , Edmondo Bruti Liberati, toga storica di Md –. Prima del Covid-19 in alcune sedi i tempi erano ormai allineati con quelli europei. Il programma Best Practices, finanziato dall’Ue con il Fondo sociale europeo e promosso dal Csm, ha prodotto a partire dal 2007 innovazioni organizzative importanti. Rimaneva la distanza tra i pochi uffici virtuosi e i tanti in difficoltà. Oggi con gli ulteriori problemi posti dal virus è urgente un intervento riformatore e i fondi europei sono un’occasione da non perdere. Per essere efficace la riforma deve muoversi simultaneamente sui due piani delle riforme processuali e dell’innovazione organizzativa. Quest’ultimo punto sembra appassionare meno il dibattito politico ma dovrebbe essere centrale nell’impegno di spesa del Pnrr. Senza radicali interventi sull’organizzazione, le riforme processuali cadrebbero nel vuoto. Vi sono buone premesse su due punti e totale silenzio su un terzo”. Quale? “La ministra Marta Cartabia si impegna per rendere operativo l’Ufficio del processo con un piano di assunzione di 16.500 addetti, rilanciando l’iniziativa promossa nel 2014 dal ministro Andrea Orlando. Oltre all’assunzione di segretari e cancellieri, ma anche informatici e statistici, la novità è quella degli assistenti dei magistrati che mette a regime la positiva esperienza dei giovani laureati che hanno svolto periodi di tirocinio negli uffici giudiziari.
La ministra inoltre ha rilanciato l’iniziativa delle Best Practices promuovendo la diffusione dei migliori modelli organizzativi nelle situazioni di maggiore difficoltà. Ma vi è un terzo, essenziale, settore di intervento sul quale invece tutto tace: la geografia giudiziaria. La riforma Severino di dieci anni addietro è rimasta incompiuta, per gli insensati limiti posti dalla legge delega: mantenimento di tutte le corti di appello e dei tribunali dei capoluoghi di provincia e per finire la ciliegina della regola del 3, tre tribunali almeno per ogni distretto di Corte di appello. Ma è sotto gli occhi di tutti che il Tribunale ‘sotto casa’ non ce lo possiamo più permettere. Vi è almeno una ventina (se non di più) di piccoli, troppo piccoli, tribunali che per loro ridotte dimensioni non sono in grado di garantire efficienza, ed entrano in crisi totale quando sopravvengono emergenze. Per le corti di appello il principio è quello di una per regione. Ma la Sicilia ne ha quattro: Palermo, Caltanissetta, Messina e Catania; la Puglia ne ha tre: Bari, Lecce e Taranto. Se due corti sono sufficienti per macroregioni come Lombardia e Campania altrettante dovrebbero bastarne per Sicilia e Puglia. È stato insensato mantenere un tribunale in ogni capoluogo di provincia, tanto sono diversificate le situazioni. L’assurda ‘regola del 3’ mantiene tre tribunali anche nelle mini corti di appello che, invece, andrebbero soppresse. Il ministero della Giustizia dispone di tutti i dati aggiornati necessari per procedere alla revisione. Non ignoro le resistenze dei deputati, degli amministratori locali e di una parte dell’avvocatura. Ma deve essere chiaro che in mancanza di un incisivo e preventivo intervento sulla revisione della geografia giudiziaria sarà inevitabile un gigantesco spreco dei fondi europei e si renderà più difficile il raggiungimento dell’ambizioso obiettivo di ridurre la durata dei processi nel civile del 40 percento e nel penale del 25 per cento”.
La commissione ministeriale, presieduta dall’ex presidente della Consulta Giorgio Lattanzi, disegna un nuovo processo penale. “La Commissione Lattanzi modifica significativamente la proposta Bonafede: piuttosto che ideologia e propaganda, prevede interventi coraggiosi sul processo per assicurare insieme celerità e garanzie. Meno casi a giudizio, grazie a un ampliamento dei criteri per l’archiviazione da parte del giudice dell’udienza preliminare, e dunque maggiore celerità per quelli che effettivamente meritano di andare a processo. S’introduce anche il concetto dell’archiviazione meritata, una misura innovativa per i reati meno gravi, subordinata a riparazioni verso la vittima o a lavori di pubblica utilità. L’effetto deflattivo sul dibattimento potrebbe essere significativo”.
La maggioranza però sembra spaccata sul nodo della prescrizione. “Vi sono diverse proposte per attuare un ragionevole equilibrio. Il blocco dopo il giudizio di primo grado, che peraltro è la regola in gran parte d’Europa, nella nostra situazione potrebbe portare al ‘fine processo mai’. Ma non dimentichiamo che grazie alla riforma ex Cirielli la prescrizione ha vanificato indagini e processi anche per reati gravi e anche dopo la pronuncia di primo grado. Altrettanto potrebbe accadere per alcune posizioni nel processo per il crollo del ponte Morandi. Il processo infinito non è la soluzione ma occorre evitare che la prescrizione sia agevolmente raggiungibile. Non dobbiamo dimenticare l’ovvio: il difensore ha il dovere deontologico di avvertire il cliente che una impugnazione meramente dilatoria con possibilità di successo zero può far fruttare la prescrizione. Tempi ragionevoli per il processo e obiettivo prescrizione (pressoché) irraggiungibile: così imporrebbe un approccio razionale”.
Con i sei referendum sulla giustizia promossi da Lega e Radicali torna il tema della responsabilità civile su cui gli italiani si espressero in modo netto già nel 1987. “La semplificazione del ‘chi sbaglia paga’ è ricorrentemente proposta – risponde Bruti Liberati – ma rimane fuorviante. Se in un sondaggio di opinione si chiede se sia opportuno che il giudice sia tenuto a risarcire i danni che abbia cagionato con una decisione colpevolmente errata, i più risponderanno di sì. ‘Chi sbaglia, paga’, sembra ovvio. Ma che la responsabilità personale del giudice per i danni (problema, si noti, diverso e indipendente dalla responsabilità dello stato) costituisca uno strumento efficace e opportuno allo scopo, non è affatto ovvio, anzi. Già dieci anni fa si esprimeva così, sul Corriere della sera, un grande professore di Diritto civile, Pietro Trimarchi, e non si potrebbe dire meglio. La responsabilità dello stato per le disfunzioni della giustizia esiste dovunque in Europa. La responsabilità diretta del magistrato che qualcuno vorrebbe introdurre da noi non esiste da nessuna parte in Europa. In caso di condanna dello stato, esiste già nel nostro sistema la cosiddetta azione di regresso nei confronti del magistrato ma i casi sono stati pochissimi e, a mio avviso, giustamente. In Francia, dove è previsto un sistema abbastanza simile al nostro, l’azione di regresso, action récursoire, nei confronti del magistrato di fatto non è mai stata esercitata. Una disciplina ‘vendicativa’ nei confronti del singolo magistrato avrebbe il solo risultato di renderlo più timoroso di fronte a quei casi difficili che però sono il pane quotidiano della giustizia. Gli eccessi sulla responsabilità professionale dei medici hanno portato alla medicina difensiva. I magistrati professionalmente attrezzati, quale che sia la futura disciplina, continueranno ad assumersi le loro responsabilità”.
Nordio: “Rimettiamo mano al codice Vassalli”
Per l’ex procuratore aggiunto di Venezia Carlo Nordio, toga blu della magistratura e oggi in pensione, “è bene distinguere le riforme necessarie e urgenti tra quelle possibili, quelle difficili e quelle impossibili. Tra le prime vi è quella della giustizia civile, perché i suoi ritardi incidono gravemente sull’economia con un impatto sul pil stimato in due punti percentuali. È una riforma facile perché esistono dei sistemi, come quello tedesco, che si possono copiare. Non è divisiva come quella penale, e per di più è quella che ci vien chiesta con maggiore insistenza dall’Europa. Questa riforma è dunque possibile. Poi vi sono almeno un paio di reati che impattano negativamente sull’economia, perché rallentano o paralizzano l’attività amministrativa: mi riferisco all’abuso d’ufficio e al traffico di influenze, aggiungiamoci anche la legge Severino. Andrebbero aboliti, e non ci sarebbe un vuoto di tutela. Ma ci sarebbero forti resistenze parlamentari, soprattutto da parte del M5s. Sarebbe quindi una riforma difficile. Infine, quelle impossibili. Prima di tutto un nuovo Codice di procedura penale. L’attuale codice Vassalli è stato così snaturato, demolito e imbastardito che ormai è un mostriciattolo da sopprimere, nessuno ci capisce più nulla. Va riscritto di sana pianta, recuperando l’originale disegno di un rito accusatorio e liberale.
L’idea che si possa fare entro cinque o sei mesi è metafisica perché con questo Parlamento conservatore si arriverebbe al massimo a un pasticcio. A seguire, con le altre riforme necessarie ma impossibili, vi è quella del Csm, ormai screditato come tutto il sindacato della magistratura. Io auspico da sempre l’elezione per sorteggio, e sono stato considerato a dir poco un eretico; mi rallegro che oggi anche molti colleghi, unitamente a illustri giuristi, la pensino così. Il sorteggio non è previsto dalla Costituzione ma associarlo a un’elezione di primo o secondo grado potrebbe superare il problema. Anche qui le resistenze sarebbero enormi. In tempi normali un governo con un capo così autorevole e una ministra come Marta Cartabia, in assoluto la migliore dai tempi di Gonella, potrebbe anche provarci, ma occupato com’è dalla crisi pandemica ed economica non so se sarà in grado di rischiare”.
Non abbiamo parlato del ruolo delle procure. “Non mi sottraggo. Ogni procura ha centinaia di ‘fascicoli virtuali’, vale a dire esposti che si riferiscono ai fatti più diversi. E da lì pesca se e quando vuole. Poi esiste il ‘fascicolo clonato’, cioè quello che il pm estrae dalle sue stesse indagini creandone di nuove ed estendendole a soggetti diversi. Questo in nome dell’obbligatorietà dell’azione penale che in realtà è diventata arbitraria e conferisce ai pm un potere enorme, con una facoltà di intervento virtualmente illimitata, senza alcuna responsabilità. Rilevo che nel sistema accusatorio il District attorney americano dirige le indagini ma la sua attività è valutata alla fine del suo mandato quadriennale attraverso le elezioni. Chi sbaglia paga con la rimozione, non con il giudizio disciplinare che da noi è una favola vuota, e tantomeno con il risarcimento, che peraltro è affidato a un ente assicurativo. Finché avremo un pm che in nome della cosiddetta cultura della giurisdizione – espressione di vuota astrazione speculativa – gode dell’indipendenza del giudice ma con un potere di iniziativa insindacabile, non risolveremo il problema. Personalmente preferisco il sistema britannico dove il pm è l’avvocato dell’accusa ma le indagini sono affidate a Scotland Yard. In ultimo, c’è da rifare il Codice penale firmato da Mussolini e da re. Cosicché, paradossalmente, se entrasse in vigore la legge Zan avremmo delle condanne fondate sull’impalcatura di un Codice elaborato da chi ha promulgato le leggi razziali… E questo la dice lunga sulla disgregazione complessiva del nostro sistema penale”. Che opinione ha dei referendum di Lega e Radicali? “Credo che solo il referendum possa dare uno scossone a un’impalcatura marcita. Pur nutrendo molti dubbi sulla formulazione dei quesiti, l’importante sarebbe il messaggio innovatore che arriverebbe da una larga partecipazione e magari da una convincente vittoria”.
Rossi: “Niente più leader unici o notabili nel Csm”
Per Nello Rossi, già procuratore aggiunto di Roma e oggi direttore della rivista Questione Giustizia, “la crisi della magistratura non passa. Montata due anni fa, l’ondata di piena non accenna a placarsi, alimentata da campagne martellanti, dai toni spesso parossistici e da mediocri conflitti interni al mondo dei magistrati che ostacolano la severa ‘critica di se stessi’ indispensabile per rialzarsi e ricostruire”. La credibilità della magistratura, dottor Rossi, è ai minimi storici: quali sono le conseguenze? “Una magistratura quotidianamente additata al sospetto e una giustizia inefficace e paralizzata sono un danno incalcolabile per il paese. Nasce da qui la scommessa ambiziosa della ministra della Giustizia Cartabia di puntare su riforme che restituiscano alla giurisdizione un accettabile grado di efficienza e tempestività favorendo una visibile rinascita etica della magistratura”. Con quale ordine e quali priorità? “È giusto – prosegue Nello Rossi – che il processo riformatore inizi dal luogo in cui la crisi è nata : il Csm, organo che la Costituzione prevede ‘eletto’, nella sua componente togata, da tutti i magistrati. Non c’è spazio per il sorteggio. Proprio chi è convinto che le aggregazioni tra magistrati che hanno una comune visione della giustizia e dei suoi problemi siano non solo legittime ma anche indispensabili deve ‘volere’ che il sistema di elezione dei membri togati del Csm sia liberato dal peso opprimente dei leader unici e incontrastati (à la Cosimo Ferri, per intenderci), dei notabili onnipotenti (à la Palamara, per capirci), delle oligarchie onnipresenti, anche in seno alla magistratura progressista”.
Insomma, il correntismo ha da finire. “Muoiano pure le correnti come apparati di potere, signore delle elezioni e dispensatrici di posti, se questo può servire a far rivivere i gruppi di magistrati che hanno ancora voglia di pensare insieme, ragionando del diritto e della sua politica, della giustizia e della sua organizzazione e alimentando quei vivaci centri di elaborazione culturale che sono le riviste. È un fatto che la vigente legge elettorale del Csm, datata 2002 e targata Berlusconi-Castelli, ha miseramente fallito l’intento proclamato di annullare o ridurre il peso elettorale delle correnti. Eppure quella legge era il trionfo dell’atomismo: i gruppi associativi non vi erano mai menzionati, non c’erano liste di candidati, le candidature erano tutte rigorosamente individuali. Piccolo inconveniente: quella legge non faceva i conti con la ritrosia dell’elettore per il voto inutile. E poiché tutti i voti espressi a favore di un candidato non eletto venivano cancellati e mandati al macero, i gruppi associativi hanno avuto buon gioco nel suggerire di concentrare i voti su chi aveva – sulle base delle loro indicazioni o, nel migliore dei casi, sulla base di elezioni primarie – concrete possibilità di essere eletto. Un boomerang classico delle riforme mal concepite: la produzione di effetti opposti a quelli desiderati”.
La commissione ministeriale, presieduta dal professor Massimo Luciani, intende riformare il sistema elettorale per la componente togata del Csm. “Oggi, sulla scorta delle indicazioni della commissione Luciani, si punta sul sistema elettorale del ‘voto singolo trasferibile’ che chiede all’elettore di dare una pluralità di preferenze ‘in scala’ nell’ambito di una platea di candidati presentati da pochi sostenitori. Il sistema dovrebbe consentire agli elettori scelte più articolate e attente alle qualità dei candidati, e sparigliare i calcoli meramente elettoralistici. Il meccanismo funzionerà se le candidature saranno numerose e se sarà alto il numero di preferenze che l’elettore ‘dovrà’ esprimere. Nel rispetto, tra l’altro, dell’esigenza di una equilibrata rappresentanza di genere, sempre più avvertita in una magistratura ricca di presenze femminili”.
Dunque per lei, dottor Rossi, il metodo di elezione del Csm resta la priorità. “L’urgenza della riforma del meccanismo elettorale nasce dalle cose, il rinnovo del Csm non è lontano, e dalla consapevolezza che solo un Consiglio rigenerato e depurato da scorie clientelari potrà gestire efficacemente le molte modifiche dell’ordinamento giudiziario prefigurate dalla Commissione in tema di nomine e conferme dei dirigenti, formazione dei magistrati e organizzazione degli uffici”. La Commissione Lattanzi invece si è concentrata sul processo penale. “È l’altro grande ammalato della nostra giustizia che pone in evidenza il nodo, oggi enormemente controverso, della collocazione istituzionale e del ruolo processuale del pubblico ministero. Su questo terreno la commissione Lattanzi si muove su due linee diverse e parallele, ma non contraddittorie. Da un lato propone di intensificare il controllo del giudice sull’operato del pubblico ministero e impone al pm di rinunciare all’appello contro le assoluzioni, in perfetta coerenza con la regola che chiede al giudice di primo grado di assolvere l’imputato in presenza di un ragionevole dubbio sulla sua colpevolezza. Dall’altro, al fine di ampliare i riti alternativi e deflazionare il dibattimento, conferisce all’organo inquirente maggiore discrezionalità e libertà di manovra, ad esempio in tema di patteggiamenti e di proposte di archiviazioni ‘meritate’ per effetto della riparazione delle conseguenze dannose dei reati. È mia opinione che la nuova fisionomia del pubblico ministero richiederà, con ancora più forza, che l’ufficio rimanga ancorato alla giurisdizione e alle sue regole. Si tratta di sanzionare rigorosamente le violazioni e le cadute (che ci sono) ma non di trarne spunto per snaturare il modello italiano che sta orientando la riflessione sul pubblico ministero in corso di svolgimento in ambito europeo. Del resto, quali alternative vi sono al nitido disegno costituzionale?”.
Che idea si è fatto dei referendum promossi da Lega e Radicali? “Il referendum radical-leghista sulla separazione delle carriere è così mal congegnato che non porterà da nessuna parte. Le cinque leggi coinvolte e una infinità di quesiti referendari di segno divergente rendono impossibile per il cittadino rispondere con un secco sì o no, come impone la logica dell’istituto del referendum abrogativo. Diversa è la proposta di legge di iniziativa popolare promossa dall’Unione delle Camere penali: concorsi di accesso separati, carriere separate, due Consigli superiori distinti. L’Unione proclama di voler salvaguardare l’indipendenza dei magistrati del pubblico ministero e l’obbligatorietà dell’azione penale rivendicando la perfetta buona fede della sua iniziativa. C’è da crederle: gli avvocati penalisti non hanno infatti alcuna voglia di veder iniziare i processi con la formula che si ascolta nei legal thriller televisivi: ‘Lo stato di New York contro XY’. Ma è difficile pensare che i pubblici ministeri italiani, una volta divenuti, a seguito della riforma, altrettanti samurai senza padrone, reggerebbero l’urto delle prime dure polemiche dovute al distacco. Infine, ad agitare le acque, ritorna l’eterno tema della prescrizione che si potrà risolvere solo a patto che si scelga il pragmatismo delle soluzioni mediane e compromissorie indicate dalla commissione Lattanzi. Senza dar vita a guerre di religione promosse da forze politiche che, dichiarandosi estranee alle ideologie, finiscono con il trasformare in totem ideologici questioni che meritano di essere affrontate con ragionevolezza e sensibilità istituzionale”.