Riforma della giustizia: è vera o è farlocca?
Cosa cambia sulla prescrizione? Il garantismo è reale o immaginario? E i tempi potranno mai essere davvero contingentati? Un dialogo tra uno scettico e un entusiasta, sceneggiato da Fiandaca
La riforma della giustizia penale varata di recente dal Cdm presenta luci ed ombre. Certo è che essa si discosta in più punti dalle proposte della Commissione ministeriale Lattanzi, che avevo avuto occasione di valutare con prevalente favore in un precedente articolo su questo giornale (cfr. il Foglio 18 giugno 2021). Ma fino a che punto questo discostamento appare censurabile?
Mi sia consentito proporre elementi e spunti di riflessione inscenando un dialogo immaginario tra due figure – per così dire idealtipiche – di giurista, di rispettivo orientamento idealistico e realistico.
-GIURISTA IDEALISTA (G.I.) La riforma Cartabia così come uscita dal Cdm è figlia del solito compromesso politico al ribasso: piuttosto che un equilibrato bilanciamento tra i principi di fondo che dovrebbero in teoria presiedere alla materia penale, ha infatti finito col prevalere un contingente bilanciamento politico – per riprendere una efficace formula giornalistica – tra gli “opposti mugugni” in campo (cfr. V. Valentini sul Foglio 11 luglio 2021).
-GIURISTA REALISTA (G.R.) Secondo te, la politica politicante avrebbe dunque per l’ennesima volta violentato la ragione giuridica? Sei il solito idealista astratto propenso soprattutto a criticare. Davvero credi che esistano principi giuridici superiori immunizzabili dai condizionamenti politici? Ma in quale iperuranio vivi? Dovresti, finalmente, prendere atto che diritto e politica – specie oggi – sono così strettamente intrecciati, che una separazione netta tra i due ambiti è impossibile.
-G.I. Mi vuoi fare una lezione di filosofia del diritto? Il fitto intreccio di cui parli non giustifica, però, l’asservimento della razionalità giuridica a calcoli e convenienze politiche del momento. Un esempio emblematico di questo inammissibile asservimento è il pastrocchio della nuova prescrizione, divenuta metà-Bonafede e metà-Cartabia, un curioso ibrido che non si capisce bene alla fine a quali principi obbedisca. Valeva la pena cercare di accontentare Alfonso Bonafede – cioè uno, per dirla con Adriano Sofri, “che gli scherzi kafkiani della post-politica hanno fatto svegliare una mattina nel suo letto mutato in ministro della Giustizia” – restituendogli il giocattolo del blocco della prescrizione dopo il giudizio di primo grado, ma introducendo nel contempo vincoli temporali di durata del processo che rendono quel blocco un giocattolo rotto, cioè una disposizione più simbolica che produttiva di effetti concreti in quella prospettiva iperpunitivista cara ai pentastellati?
-G.R. Confesso che sul punto non è facile replicare efficacemente alle tue obiezioni. Ma vorrei, nondimeno, richiamare la tua attenzione su quello che a me pare un assunto su cui si dovrebbe almeno in parte convenire. Cioè, le stesse ragioni tradizionalmente sottostanti all’istituto della prescrizione (in estrema sintesi, da un lato il tempo dell’oblio, per cui al crescere della distanza temporale dal commesso reato progressivamente decrescono l’interesse dello Stato a punire e l’utilità della punizione; dall’altro, l’accertamento processuale diventa tanto più difficile quanto più il reato risulta lontano nel tempo), lungi dal rappresentare il riflesso di espliciti, puntuali e univoci principi di diritto, sono sempre state in non piccola misura condizionate da valutazioni politiche o di opportunità. Non è un caso, da questo punto di vista, che la prescrizione sia disciplinata nei vari ordinamenti giuridici nelle forme più disparate.
-G.I. Questo che tu dici contiene elementi di verità. Ma rimane il fatto che in teoria ci si dovrebbe sempre preoccupare di verificare anticipatamente fino a che punto vi sia non solo coerenza logica, ma anche congruenza empirica tra il modello di disciplina normativa progettata e i risultati pratici che con tale disciplina si intendono conseguire. è dimostrabile che questa nuova prescrizione potrà avere effetti concreti più positivi che negativi?
-G.R. Fai bene a sollevare questo interrogativo. In effetti, quel che come studiosi siamo soliti lamentare è che le riforme penali in Italia vengano concepite a tavolino, senza avere alla base studi empirici che aiutino a pronosticarne le ricadute nella prassi. Purtroppo, si tratta di un vizio antico. Sappiamo già che dal versante della magistratura è stata mossa una prevedibile obiezione: cioè la possibilità di rispettare i nuovi tempi processuali previsti dalla riforma richiede un ampliamento degli organici dei magistrati e un rafforzamento del personale amministrativo, insieme a una estensione dell’informatizzazione. Da giurista realista, attento cioè a tutto ciò che va al di là dei principi astratti e delle norme scritte, dal mio canto aggiungo che vi è un aspetto problematico ulteriore rispetto a quello delle risorse disponibili. Alludo ai riflessi pragmatici del tipo di cultura giurisdizionale che sta alla base delle indagini e dei processi: se ad esempio la parte politicamente più militante della magistratura d’accusa continuerà a promuovere indagini – come non di rado è accaduto specie nell’ambito della criminalità dei colletti bianchi – per esercitare un controllo di legalità che va alla ricerca di possibili reati da contestare, anziché muovere da ipotesi criminose sufficientemente profilate sin dall’inizio e da concreti elementi probatori, sarà sempre considerato necessario un prolungato accertamento, con la conseguenza che il principio della ragionevole durata del processo sarà di fatto destinato a recedere di fronte alla ritenuta priorità da accordare ad una lotta giudiziale a tutto campo contro le forme di criminalità considerate più gravi e minacciose. Insomma, la magistratura penale nel suo insieme (ed un analogo discorso vale, ancor prima, per l’intero fronte politico-partitico) dovrebbe maturare una più convinta interiorizzazione della necessità di un equilibrato contemperamento tra le concorrenti esigenze del contrasto della criminalità e del rispetto delle fondamentali garanzie individuali. Appare tra l’altro perciò opportuna, e meritevole di essere presa sul serio nella prassi, la progettata modifica normativa che subordina il rinvio a giudizio all’acquisizione di elementi che consentono una ragionevole previsione di condanna.
-G.I. Non vorrei tediarti insistendo col richiamo ai principi generali, ma c’è un profilo della nuova prescrizione che tocca appunto una questione di principio secondo me importante. Come sappiamo, secondo il modello misto Bonafede-Cartabia la vecchia prescrizione sostanziale legata al tempo dell’oblio viene combinata con una nuova prescrizione processuale, tecnicamente declinata in chiave di improcedibilità dell’azione penale per superamento dei limiti temporali relativi alle fasi successive al giudizio di primo grado (limiti fissati in 2 anni per il giudizio di appello e in 1 anno per la Cassazione, ma a loro volta eventualmente prorogabili con decisione giudiziale entro soglie massime normativamente prestabilite ai fini dell’accertamento di una serie non piccola di reati considerati – a torto o a ragione – più gravi e/o di più complessa verifica probatoria). Come ha già rilevato Massimo Donini (cfr. il Riformista 14 luglio 2021), se si ritiene che abbiano natura processuale le norme che disciplinano i tempi del processo, ne deriva che la disciplina dell’improcedibilità per decorso dei limiti temporali di fase non risulterà più soggetta al divieto di retroattività vigente per le norme penali sostanziali: per cui ad un futuro legislatore sarebbe possibile attuare ulteriori riforme volte ad allungare i predetti limiti temporali anche in rapporto a processi aventi ad oggetto reati commessi in precedenza. Da questo punto di vista, il regime normativo della improcedibilità dell’azione penale appare quindi meno garantistico rispetto a quello della prescrizione finora vigente, qualificata dalla stessa Corte costituzionale come istituto di diritto penale sostanziale e perciò soggetto al divieto di retroattività.
-G.R. Necessita senz’altro di essere approfondito quest’ultimo problema che tu hai sollevato nella scia di Donini. Ma intanto di chiedo se ci siano parti della riforma che tu, invece, sei disposto a condividere senza riserve.
-G.I. Incondizionatamente non mi sento di approvare quasi nulla. Ciò non toglie, però, che io apprezzi le linee ispiratrici della riforma delle sanzioni, col maggiore spazio assegnato alle misure alternative al carcere, il potenziamento della messa alla prova, l’allargamento dell’area della non punibilità dei fatti di lieve entità e l’ampliamento dei riti alternativi, ancorché si sarebbe nel complesso dovuto osare di più. Considero meritevole di apprezzamento anche la maggiore attenzione nei confronti dei paradigmi non punitivi della giustizia cosiddetta riparativa. Riconosco che queste novità segnano, finalmente, un mutamento di orizzonte rispetto all’irrazionale e dannoso estremismo punitivista del precedente guardasigilli grillino.
-G.R. Ritengo che tu abbia in linea di principio ragione nel sostenere che anche rispetto alle parti migliori della riforma si sarebbe dovuto osare con maggiore coraggio. Ciò però, appunto, in teoria. Da giurista realista, ti inviterei a non sottovalutare il principale fattore causale che continua a inibire nel nostro paese riforme più radicali della giustizia penale, cioè maggiormente conformi a quei modelli di garantismo costituzionale preso molto sul serio che tendiamo a vagheggiare come professori di diritto. Mi riferisco, come avrai forse intuito, all’eccesso di politicizzazione della questione penale, la quale continua a porsi come questione assai controversa e divisiva sui diversi fronti della politica partitica, della magistratura, dell’avvocatura e della stessa opinione pubblica. Non a caso, anche il giudizio dei cittadini sull’efficienza del sistema giudiziario e il loro livello di fiducia nella magistratura risultano pregiudizialmente influenzati dalle rispettive appartenenze politico-partitiche. Proprio l’elevato tasso di politicità conflittuale inerente ai temi del diritto e del processo penale, e la persistente tentazione di strumentalizzarli in vista di obiettivi politici più generali, per tornaconto elettorale o persino in funzione di contingenti giuochi di potere tra fazioni politiche contrapposte, costituiscono una tipica patologia italiana che ci trasciniamo, non curata, da anni e che perciò è andata addirittura aggravandosi.
-G.I. Con questo intendi implicitamente sostenere che una riforma penale come questa uscita dal Cdm sia quanto di meglio in questo momento storico si possa sperare di realizzare? Non credi che possa essere in vari punti migliorata, e non ritieni che sia anche necessario tenere conto dei suggerimenti provenienti dal mondo dell’avvocatura?
-G.R. Non escludo che possa essere migliorata. Ma soprattutto mi auguro che il polemico dissenso ideologico manifestato dall’ala tuttora manettara dei 5Stelle vada progressivamente ridimensionandosi. E auspico che il Conte politico, non rinnegando il precedente Conte professore di diritto, via via si ravveda, convincendosi che la demagogia punitiva – esplicitamente condannata anche da papa Francesco – non può fungere da stella polare di una intelligente e innovativa azione politica.