Come contrastare la magistratura che lotta contro Costituzione
Non tutto è però perduto. Ancora una volta il cambio di passo lo sta dettando la Consulta. Ci sono segnali per sperare in un rilancio di alcuni principi fondamentali
Tra i principi costituzionali che dovrebbero orientare il diritto penale e che invece – come ci ha ricordato Claudio Cerasa giovedì scorso – tendono a finire nel bagagliaio della macchina giudiziaria, va ricompreso anche il principio di legalità di cui al secondo comma dell’articolo 25 della Costituzione (“nessuno può essere punito se non in forza di una legge entrata in vigore prima del fatto commesso”). Lasciando da parte il profilo della riserva di legge e la sua (vera o solo supposta) crisi che arriva a mettere discussione lo stesso modello di democrazia rappresentativa, soffermiamoci a riflettere piuttosto sul tratto che sembra caratterizzare, richiamando ancora Cerasa, l’odierno ruolo “sacerdotale” della magistratura e che finisce per riverberarsi sulla tenuta della separazione dei poteri: la non ortodossa applicazione del divieto di analogia e del vincolo di tassatività della norma penale.
Si tratta, come è noto, di corollari del più ampio principio di legalità che impongono – quale argine a possibili invasioni di campo tra poteri – al legislatore un onere di formulazione precisa e determinata della norma penale e al giudice un vincolo di applicazione tassativa e un rigido divieto di analogia (non si possono punire "fatti o casi analoghi" a quelli espressamente contemplati). Il testo della legge, insomma, come fondamento e limite della responsabilità penale, presidio di “lacune” che non rappresentano vuoti di tutela ma spazi di libertà.
Non è difficile riconoscere come questo approccio tradizionale abbia perso consistenza, a favore di una visione palingenetica patrocinata da chi reputa la legalità violata non solo e non tanto quando il legislatore venga meno al dovere di precisione e determinatezza nella formulazione della fattispecie, quanto piuttosto allorquando il potere legislativo sia stato esercitato in maniera, per così dire, inadeguata o maldestra, lasciando impunite (o non adeguatamente punite) condotte ritenute invece meritevoli di sanzione; si alimenta per questa via l’esigenza politico-criminale di colmare – per via giudiziaria – asseriti vuoti di tutela.
Gli esempi non mancano: dalla responsabilità per colpa degli operatori sanitari, all’ampliamento del perimetro applicativo dell’abuso d’ufficio, dalle evanescenti condotte di traffico di influenze illecite all’ineffabile corruzione per l’esercizio della funzione, dal furto di file informatici alla rapina di ovociti (!) senza dimenticare il grande classico del concorso esterno in associazione mafiosa.
Non tutto, forse, è però perduto. Ancora una volta il cambio di passo lo sta dettando la Corte costituzionale, che in due recenti sentenze (la numero 115 del 2018 e soprattutto la numero 98 del 2021) ha ribadito con forza il peso del divieto di applicare la legge penale oltre i casi da essa espressamente stabiliti: divieto che impedisce di riferire la norma a situazioni non ascrivibili ad alcuno dei significati letterali delle espressioni utilizzate dal legislatore, “a garanzia sia del principio della separazione dei poteri, che assegna al legislatore – e non al giudice – l’individuazione dei confini delle figure di reato; sia della prevedibilità per il cittadino dell’applicazione della legge penale, che sarebbe frustrata laddove al giudice fosse consentito assegnare al testo un significato ulteriore e distinto da quello desumibile dalla sua immediata lettura”.
Dietro queste parole, la riaffermazione dell’assetto orizzontale dei poteri e della separazione delle rispettive competenze. Con un punto fermo: spetta al Parlamento (e non a giudici e prima ancora a pubblici ministeri) il monopolio nelle scelte di criminalizzazione. A voler essere ottimisti, ci sono segnali per sperare in un rilancio di alcuni principi fondamentali: chissà che l’odierno deficit di legittimazione morale della magistratura ci lasci in eredità il ridimensionamento delle pretese paralegislative del diritto giurisprudenziale.
*Cristiano Cupelli è professore associato di Diritto penale all’Università Tor Vergata, Roma