L'intervento
Bruti Liberati: la riforma Cartabia è fatta. Adesso cambiamo davvero la giustizia
Certi allarmi erano ingiustificati anche se alcune scelte sono criticabili. Nella magistratura prevale la voglia di attuare i cambiamenti. La fase transitoria sarà decisiva
Con il voto di fiducia su quello che negli atti parlamentari rimane intitolato “Disegno di legge n. 2435 AC presentato dal ministro della Giustizia (Bonafede)” si conclude una fase nella quale il dibattito-scontro si è concentrato sulla prescrizione in clima di contrapposizione da tifo da stadio. L’irrigidimento del partito di Bonafede ha imposto una soluzione giustamente criticata per la sua irrazionalità, ma questo è il punto di mediazione raggiunto dalle ragioni della politica. Gli avventati termini previsti nella prima versione per i giudizi di appello e di cassazione erano impossibili da rispettare. Se la maggioranza virtuosa non pone problemi, per le corti di Roma, Napoli (non proprio marginali) e anche Venezia e alcune altre, questi termini non sono raggiungibili in tempi brevi, nonostante ogni misura organizzativa attuata. Che per produrre effetti concreti richiede ovviamente del tempo.
Gli allarmi lanciati, anche da magistrati, con toni apocalittici erano fuori misura. Bastava, come ora è stato fatto, sia pure tardivamente, aumentare questi termini a tre anni per l’appello e a un anno e mezzo per la cassazione fino al 31 dicembre 2024. Per tre anni non succederà nessuna catastrofe. Per di più si è previsto in via generale, dunque anche per il futuro, che il giudice di appello “quando il giudizio di impugnazione è particolarmente complesso, in ragione del numero delle parti o delle imputazioni o del numero o delle questioni di fatto e diritto da trattare” possa prorogare i termini; ulteriori proroghe il giudice potrà disporre per delitti di terrorismo, mafia e violenza sessuale. È una inconsueta facoltà attribuita al giudice, ma deve essere motivata ed è controllabile dalla Cassazione. Poteri incisivi del giudice nella gestione dei tempi del processo non sono inconsueti nel processo accusatorio. Inoltre tale facoltà concessa al giudice potrebbe ovviare ad un dato pratico che è stato bellamente dimenticato. Dopo la sentenza di primo grado i pesanti faldoni dei fascicoli del processo non migrano automaticamente in Corte di Appello. Vi sono adempimenti giuridici (notificazioni, avvisi) e banalmente un trasferimento fisico che non è gestito da una logistica modello Amazon Nella decorrenza per il processo di appello, non si può partire dalla data del deposito della sentenza di primo grado, ma occorre considerare i tempi tecnici di trasmissione del fascicolo dai tribunali alle corti di appello, novanta giorni oggi nei casi migliori.
Molto si gioca in questa fase transitoria, fino al 31 dicembre 2024, nel corso della quale saranno attuati i provvedimenti organizzativi: reclutamento di nuovi magistrati e personale amministrativo, ufficio per il processo, informatizzazione delle procedure. Tra le norme di immediata attuazione previste negli emendamenti approvati vi è il “Comitato tecnico-scientifico per il monitoraggio sull’efficienza della giustizia penale” che dovrà fornire dati per le determinazioni che dovranno essere adottate da ministro della Giustizia e Csm. E’ uno snodo trascurato, ma assolutamente fondamentale. Più magistrati, più cancellieri sono necessari, così come innovazioni organizzative e tecnologiche, ma non si può ignorare che oggi vi sono inaccettabili disparità di efficienza tra sedi e sedi che non dipendono dalle risorse disponibili. Se poi si riuscisse a riaprire il discorso sulla revisione della geografia giudiziaria, si eviterebbero sprechi di risorse. Il Comitato, se non vorrà essere un orpello, dovrà, per così dire, stare con il fiato sul collo degli uffici giudiziari meno efficienti. Ai magistrati spetta raccogliere questa sfida che le nuove risorse disponibili imporranno. Sui media i titoli spettano ai proclami di alcuni magistrati “illustri” che sanno-loro-come risolvere-tutto, ma nelle liste riservate di discussione dei magistrati, pur con accenti critici ad aspetti della legge, l’invito è quello di “rimboccarsi le maniche”. Cito testualmente sulle cose da fare da una delle mail, che ha ricevuto molti consensi: “La prima è senz’altro quella che stiamo facendo, evidenziando le criticità e discutendo dei correttivi e di quello che potrebbe ancora farsi, fra cui per esempio una seria depenalizzazione. Continueremo anche dopo l’approvazione della legge. […] Serve allora la seconda cosa. Lavorare per attuare al meglio le nuove norme ed utilizzare nel modo giusto le risorse umane e tecnologiche che arriveranno”.
Lo scontro tutto ideologico sulla prescrizione ha finito per porre in seconda linea le altre riforme dirette a rendere più celere il processo. Il testo approvato alla Camera, forse lo chiameremo “ex- Bonafede”, introduce molte (purtroppo non tutte) delle innovative proposte della Commissione Lattanzi diretta ad incidere sui tempi dei processi, riformula con migliorie tecniche diverse norme dell’ordinario progetto Bonafede, ne mantiene altre molto opinabili. Una rapida rassegna con accenti adesivi e critici, per aprire una discussione di merito che potrebbe anche portare a miglioramenti nella trattazione al Senato in settembre. In un clima politico più disteso in cui la prescrizione sia capitolo chiuso, vi potrebbero esser aperture a modifiche su aspetti specifici.
Le innovazioni positive sono rilevanti a partire dal regime delle notificazioni, tema per i non tecnici marginale, ma cruciale nella pratica. Ma soprattutto troviamo ampliamento dei criteri per l’archiviazione, accesso più diretto alle pene alternative al carcere, recupero di efficacia alla pena pecuniaria, giustizia riparativa. Vi sono poi snellimenti delle procedure, senza sacrifici per le garanzie di difesa: definizione anticipata della competenza per territorio per evitare che un processo, come è avvenuto, possa andare avanti fino in cassazione e poi tornare daccapo; norme equilibrate per il recupero di attività già svolta in caso di mutamento di un giudice del collegio. Una opportuna norma garantista di controllo ex post in materia di perquisizioni, atto necessariamente a sorpresa, disposto dal pm senza preventiva autorizzazione del Gip. Opportuna la proposta di “allineare la procedura di approvazione dei progetti organizzativi delle procure della Repubblica a quelle degli uffici giudicanti”. Dove questo coordinamento organizzativo nella prassi ha già operato si sono avuti risultati eccellenti in termini di durata complessiva dei processi,
Ma non mancano aspetti problematici sui quali sarebbe auspicabile una riflessione ulteriore. L’iscrizione di un indagato nel registro notizie di reato non è, pressoché mai, un automatismo, e l’affrettata iscrizione crea danni non rimediabili. Pretendere di precisare i presupposti della iscrizione “in modo da soddisfare le esigenze di garanzia, certezza e uniformità delle iscrizioni” (art. 1 comma 6 p) è aspirazione encomiabile, ma vana, tante sono le varianti nella pratica, non risolvibili con il “senno del poi”. La procedura di retrodatazione è destinata ad aprire conflittualità di cui non si sente il bisogno. Del tutto inopportuno, ancora una buona intenzione con effetti negativi, è l’ampliamento dei casi il cui il pm può mandare a giudizio con citazione diretta, senza passare dal Gip. L’eccesso di produttività dei pm affossa i giudicanti ed è sbagliato l’incentivo al pm di liberarsi del fascicolo mandandolo comunque a giudizio, piuttosto che richiedere l’archiviazione. Si tratta dei reati minori sui quali dovrebbe intervenire una drastica depenalizzazione.
Non condivido per nulla gli allarmi da più parti lanciati sul tema delle priorità sull’esercizio dell’azione penale dettate dal Parlamento. Prescrivendo l'obbligatorietà dell’azione il Costituente ha voluto “soltanto” fissare un principio: l’eguaglianza di tutti davanti alla legge sancita dall’art. 3 esige che nell’applicazione della legge penale il primo attore, il pm, sia sottratto a ogni influenza dell’esecutivo. La norma ora approvata prevede che “gli uffici del pubblico ministero, per garantire l’efficace e uniforme esercizio dell’azione penale, nell’ambito dei criteri generali indicati dal Parlamento con legge, individuino criteri di priorità trasparenti e predeterminati, da indicare nei progetti organizzativi delle procure della Repubblica, al fine di selezionare le notizie di reato da trattare con priorità rispetto alle altre”. Una formulazione infelice che induce equivoci, ma non giustifica allarmi. Più correttamente si dovrebbe fare riferimento non a “criteri di priorità” ma agli indirizzi di politica criminale adottati dal Parlamento su proposta del governo. Come mi è già capitato di osservare su questo giornale (8 giugno 2021), la politica criminale, più che in direttive di priorità, si concreta nelle scelte organizzative sull'impiego delle risorse materiali e tecnologiche e nella distribuzione del personale di magistratura e delle forze di polizia e infine nell'adeguamento della normativa penale processuale e sostanziale. Le eventuali priorità che fossero definite annualmente a livello nazionale devono essere calibrate a livello locale e costantemente monitorate. La attuazione pratica di questi indirizzi nella singola Procura si traduce nella dislocazione delle risorse materiali, tecnologiche e umane. Proviamo a fare un solo paradossale esempio: ove un malaccorto Parlamento, magari per “riguardo” ad un leader politico della maggioranza indagato, dimenticasse di indicare tra i reati prioritari la corruzione, la Procura competente, protetta dal principio costituzionale, doverosamente porrebbe tra le priorità quella indagine specifica.
Ed infine un accenno a due questioni che meriterebbero un più approfondito sviluppo. Il tema del diritto all’oblio, pare sotto l’impulso dell’infaticabile on. Enrico Costa, è stato inserito all’ultimo in un emendamento (art 1 comma 25) il quale prevede che “il decreto di archiviazione e la sentenza di non luogo a procedere o di assoluzione costituiscano titolo per l’emissione di un provvedimento di deindicizzazione che, nel rispetto della normativa dell’Unione europea in materia di dati personali, garantisca in modo effettivo il diritto all’oblio degli indagati e degli imputati”. Per fortuna si tratta di una legge delega e vi sarà tutto il tempo per fare giustizia di una formulazione particolarmente malaccorta di un problema molto serio. Il cosiddetto diritto all’oblio riguarda i condannati non meno che gli assolti quando si tratti di un caso che non presenti più (o anche non abbia mai presentato) un interesse pubblico al permanere della divulgazione della notizia. La valutazione dell’interesse pubblico, salvo casi di evidente strumentalizzazione, non può che essere rimessa alla libertà di espressione e di critica. Non dovremmo forse più parlare (ma lo ha fatto la stessa Corte di Cassazione) di un eventuale ruolo nella strage di Piazza Fontana di Franco Freda e Guido Ventura pur definitivamente assolti? Per converso il diritto all’oblio potrebbe essere invocato da un soggetto, condannato per grave reato che a suo tempo andò sulle cronache, quando dopo una lunga pena detentiva, rientrasse nella vita sociale da libero, magari in un luogo del tutto lontano da quello del fatto a suo tempo commesso.
Ancora il nostro infaticabile on. Costa, dopo avere meritoriamente sollecitato il nostro paese ad impegnarsi per l’attuazione della Direttiva (UE) 2016/343 del 9 marzo 2016 sulla presunzione di innocenza, sembra voler porre nel mirino le conferenze stampa dei Procuratori della Repubblica. Evidenti alcuni abusi, ma difficile porre delle regole.
Il problema, a mio avviso, non è se, ma come la Procura, deve comunicare nella fase coperta dal segreto investigativo. Naturalmente è compito del Procuratore, cui è affidata la responsabilità della gestione dell’ufficio e della comunicazione, governare le spinte al “protagonismo” dei magistrati dell’ufficio, ma dal “protagonismo” non sono esenti anche alcuni degli stessi Procuratori.
È un difficile esercizio di equilibrio, ma spesso la conferenza stampa ufficiale, attuata in urgenza (per rispetto ai tempi dei media e per evitare la diffusione di notizie parziali o distorte), è l’unico strumento per veicolare informazioni, garantendo parità di accesso a tutti i giornalisti. È difficile proporre una casistica per questo tipo di conferenze stampa, tanto disparate sono le situazioni: necessità di correggere informazioni errate, contributo ad una informazione puntuale su aspetti che non danneggiano il segreto investigativo, appelli a fornire notizie. Qualunque sia la normativa che il nostro legislatore adotterà rimane essenziale l’assunzione di responsabilità e la deontologia degli operatori di giustizia e degli operatori dell’informazione. Ciascun caso, ciascuna vicenda presenta aspetti particolari ma il concetto di rispetto della dignità della persona offre un orientamento chiaro.
L'editoriale del direttore