La trappola referendaria sulla giustizia
Sei quesiti eterogenei. Non un piano organico di riforma ma un’iniziativa frutto della convergenza tra due opposti populismi: quello della Lega e quello radicale. Che potrebbe avere qualche effetto paradossale
Dal 1° luglio è iniziata la raccolta delle firme per poter proporre sei referendum sulla giustizia promossi da Radicali e Lega. Si tratta di sei quesiti assai eterogenei e a tratti di faticosa decrittazione: come noto essi investono la definitiva e irreversibile separazione delle funzioni (e non delle carriere, attenzione) tra pm e giudici, la limitazione della custodia cautelare ai soli casi di pericolo di fuga e inquinamento probatorio e di reiterazione di reati di terrorismo e criminalità organizzata, la possibilità di poter citare direttamente il magistrato per i danni causati nell’esercizio delle funzioni, l’estensione agli avvocati del diritto di poter votare nei consigli giudiziari, l’abolizione dell’interdizione elettorale per i condannati e la modifica dei requisiti delle candidature dei magistrati al Csm.
Una premessa va fatta: si tratta non di un piano organico di riforma ma di un’iniziativa a sfondo e destinazione prettamente politici e, non ci si scandalizzi del termine, vagamente populisti: esiste, infatti, una pericolosa convergenza tra due “opposti populismi”: quello della Lega e quello radicale. Il fatto che i radicali trovino come espliciti alleati i leghisti della “legittima difesa sempre e comunque” non è un accidente della storia ma una logica conseguenza dell’impostazione della campagna incentrata sull’ondata di sdegno causata dai recenti e noti scandali che hanno investito la magistratura. Il populismo è caratterizzato dal desiderio di rivalsa della massa verso ciò che avverte come casta privilegiata e di cui scopre la similitudine con sé stessa e i propri vizi.
Il rischio di operazioni come queste è che causino guasti maggiori di quelli che si proporrebbero di riparare, ammesso che vogliano costruire e non solo divellere. Il populismo ancorché laico e radicale è malattia perniciosa quanto il qualunquismo anarcoide della destra. Sul punto, che “il sistema” abbia creato un diffuso senso di impunità e privilegio tra i ranghi delle toghe è dato acquisito e condiviso, così come avvenne dopo il dramma umano di Enzo Tortora.
Ma all’epoca i referendum dei Radicali per la responsabilità civile dei giudici come quelli a venire sulla separazione delle carriere trovavano giustificazione in una situazione stagnante politicamente. In quel clima l’iniziativa radicale scuoteva effettivamente un sistema consolidato e stagnante come quello che tutelava i magistrati. Oggi, invece, il termine di paragone non può essere più una “casta” squassata da una forte ondata di discredito che barcolla e fatica a trovare dentro di sé la spinta per cambiare, incapace di andare oltre bolsi “niet” come gli agonizzanti apparatniki sovietici, bensì un riformismo legislativo che sembra avere la capacità culturale e lo spazio di manovra per avviare seri e concreti cambiamenti.
Certamente l’esito della riforma Cartabia è stato frenato dal solito compromesso (speriamo che esso non costi caro) ma resta comunque come valore da tutelare una “teoria della giustizia” diversa da ciò che la ha preceduta. L’idea di fondo è il superamento del processo come “modello unico” di risoluzione delle controversie: esistono percorsi di giustizia alternativa oltre le aule di giustizia.
Se la polemica su prescrizione/improcedibilità assorbe quasi per intero il dibattito politico, la vera novità introdotta dal ddl è l’introduzione della “giustizia riparativa” nell’ordinamento penale. Si tratta di un circuito extra processuale e parallelo che tramite atti di concreta riparazione tende a promuovere ove sia possibile un dialogo tra la vittima e il colpevole. Un esperimento sociologico nato negli anni 70 in una cittadina degli Stati Uniti, Kitchener, per consentire il recupero di due minori autori di atti di vandalismo e poi diffusosi negli anni 80 anche in Europa.
In Italia qualche anno fa un professore di criminologia, Adolfo Ceretti, e un gesuita, Guido Bertagna, promossero una serie di incontri tra le vittime del terrorismo e i reduci di quella stagione condannati per i reati commessi come militanti. In un libro entrambi hanno raccontato quella esperienza e i momenti toccanti che hanno vissuto: non si tratta di retorica buonista ma di uno strumento tramite cui il dolore della sofferenza e quello del rimorso si incontrano.
Soprattutto, giustizia riparativa vuol dire rifiutare il concetto di giustizia racchiuso nel solo lato della repressione, nella violenza ripagata con la sola violenza, quella della brutalità carceraria di cui ipocritamente si finge di sdegnarsi e di cui sbagliando si ritengono colpevoli i soli agenti di custodia. È vero invece che è mancato il coraggio di completare la riforma ampliando il ricorso a riti alternativi o a forme alternative di definizione anticipata (la cosiddetta “archiviazione meritata”) e che il ricorso a una nuova causa di estinzione del processo (se appello e cassazione non vengono celebrati entro quattro anni e sei mesi complessivi e poi tre anni dal 2024, dopo l’impugnazione della sentenza di primo grado fatta eccezione per i reati più gravi) e non più del reato, com’era la prescrizione prima di Bonafede, può essere macchinoso e creare squilibri di sistema. Infatti, se non si riuscirà a garantire una minore quantità di processi con meccanismi di definizione anticipata delle vertenze giudiziarie anche questa riforma fallirà. E tuttavia lo spirito dell’iniziativa legislativa del governo che rifiuta l’ottusa logica giustizialista è da condividere e salutare con favore.
Non mancano invece critiche e distinguo e diverse freddezze cui fa da contraltare il successo che sta incontrando l’iniziativa referendaria dell’inedita alleanza radicali-estrema destra. Tranne che per quelli promossi da Berlusconi nel 2005 e Renzi nel 2016 sulla forma parlamentare, pare che sia vietato parlar male dei referendum. Essi hanno contrassegnato tra gli anni 70 fino ai primi anni 2000, stagioni importanti di cambiamento e partecipazione popolare.
Ma l’opinione pubblica di quei tempi si formava ancora tramite il dibattito politico e l’informazione dei media. Oggi quel mondo è sparito e l’informazione popolare è quella inquinata sui social da tesi complottiste e manipolazioni dei flussi di notizie. Dai social provengono i nuovi movimenti come i Cinque stelle o i nuovi leader di partiti che solo apparentemente mantengono legami con le vecchie forme di partito ma che in realtà trasmettono una comunicazione sostanzialmente ed esclusivamente plebiscitaria tramite le varie app. Tocca allora chiedersi cosa sia lo strumento referendario e di consultazione oggi: la parola al popolo sovrano è uno strumento riequilibratore o rischia di scardinare la fragile democrazia odierna verso una deriva peronista?
I referendum promossi dai radicali non sfuggono a questa contraddizione: alcuni di essi hanno un valore poco più che simbolico come quello improvvisamente definito “sulla separazione delle carriere”, che invece si limita a completare un semplice percorso di distinzione delle funzioni già in atto dal 2006. Sarebbe più utile che leghisti, Fratelli d’Italia e Lega accompagnassero in parlamento il ddl, anch’esso di iniziativa popolare, promosso dalle camere penali, che prevede un doppio Csm per pm e giudici, che effettivamente realizzerebbe lo scopo. Al grido di “chi sbaglia paghi” si chiede la citazione diretta in giudizio dei magistrati per i danni causati da decisione errate, ma spiace disilludere: tutti gli appartenenti all’Ordine giudiziario godono di coperture assicurative abbastanza confortevoli. Difficilmente pagherebbero di tasca loro. Già oggi peraltro in caso di dolo o colpa grave un magistrato può essere perseguito direttamente in sede penale per vere e proprie ipotesi di reato, salvo ovviamente l’onere della prova a carico di chi denuncia.
L’esempio delle molte incongruenze causate dall’alleanza populistico-referendaria proviene proprio dal quesito sulla custodia cautelare che in teoria dovrebbe essere quello più marcatamente garantista. Invece il quesito, assai macchinoso, sulla soppressione delle ultime righe dell’art. 274 cpp, se accolto avrebbe effetti paradossali: sarebbe più facile mantenere libero un borseggiatore seriale che non un incensurato ingiustamente accusato di essere un mafioso. Per il primo la nuova formulazione della legge renderebbe possibile l’arresto solo in caso di fuga o di inquinamento delle prove mentre nel caso del secondo indagato la semplice accusa di essere un colluso con un’associazione terrorista o di criminalità organizzata lo porterebbe in galera.
Paradossalmente il limite costituto dal populismo forcaiolo della estrema destra è invalicabile anche per i radicali che 40 anni fa si schierarono con Enzo Tortora e con Toni Negri. Oggi Tortora e Negri come ieri finirebbero in galera. Il vero garantista sa che non conta il reato ma il metodo dei processi. È l’idea del processo penale l’unità di misura del tasso di civiltà e rinnovamento di un sistema giudiziario, non serve un confuso ribellismo sposato e accompagnato da chi come la Lega vuole vendicarsi dei magistrati e contemporaneamente si schiera con i massacratori dei detenuti del carcere di Santa Maria Capua Vetere. Che senso ha scandalizzarsi per quei filmati come fa il buon Nello Trocchia su Domani e poi invocare che si tenga la gente di più in galera allungando i processi? Possibile non si colga la contraddizione?
Chi oggi firma i referendum è probabilmente lo stesso pubblico che si schiera con Gratteri, De Raho e tutti i paladini del carcere “infinito”. Da questa eterogeneo pubblico di No vax, antigarantisti senza un progetto e un’idea organica difficilmente può venire qualcosa di buono: lo scorpione giustizialista affogherà alla fine l’illusione garantista di chi se lo metterà sulle spalle.
L'editoriale del direttore