L'inquisitore solitario
Successi, accanimenti e fallimenti del pm Fabio De Pasquale
Dal suicidio di Gabriele Cagliari ai processi contro Craxi, Berlusconi e i cosiddetti poteri forti. Ora è indagato a Brescia. Avrebbe nascosto prove utili alla difesa dell’Eni
Estremamente riservato, ma sulle prime pagine dei giornali da trent’anni con le sue inchieste. Componente storico di una procura monolitica, quella milanese, ma solista da sempre. Autore di eccezionali successi giudiziari, ma anche di clamorosi fallimenti. Fabio De Pasquale, tra i protagonisti del terremoto che sta sconquassando la procura di Milano, è un magistrato dalle mille contraddizioni.
Sessantatré anni, messinese, in magistratura dal 1984, De Pasquale balza agli onori della cronaca durante la stagione di Mani pulite, quando esercita le funzioni di sostituto procuratore a Milano da soltanto un paio di anni. Non ama i riflettori dei media e non fa parte del famoso pool, istituito dal procuratore capo Francesco Saverio Borrelli e animato da colleghi poi divenuti simboli della magistratura milanese, e non solo: Antonio Di Pietro, Gherardo Colombo, Gerardo D’Ambrosio, Piercamillo Davigo, Francesco Greco, Ilda Boccassini. De Pasquale si muove da solista, da battitore libero. E infatti finisce in conflitto col pool in svariate occasioni.
Il primo scontro avviene nel 1993 e ha risvolti drammatici. Nell’ambito dell’inchiesta Eni-Sai, De Pasquale fa arrestare l’allora presidente della compagnia petrolifera, Gabriele Cagliari. Dopo quattro mesi di carcerazione preventiva, il 15 luglio 1993, Cagliari rilascia l’ennesimo interrogatorio e chiama in causa l’ex segretario del Psi Bettino Craxi, negando però di essere a conoscenza di una tangente per l’accordo fra Eni e Sai. Secondo quanto riferito dal legale di Cagliari, l’avvocato Vittorio D’Aiello, al termine dell’interrogatorio De Pasquale promette al numero uno di Eni che chiederà di scarcerarlo e di mandarlo ai domiciliari. Poche ore dopo, però, il pm cambia idea, dà parere negativo alla scarcerazione e parte per le vacanze estive. Quando la voce di un nuovo “no” alla scarcerazione da parte di De Pasquale comincia a girare, D’Aiello rilascia una dichiarazione: “Mi auguro che il pm mantenga l’intendimento di esprimere parere favorevole per la liberazione di Cagliari. Se non fosse così ci sarebbe da dubitare della coerenza dell’inquirente che, oltre tutto, non avrebbe calcolato le gravi ripercussioni psicologiche di chi si aspetta la libertà promessa e poi negata”. De Pasquale, però, mantiene il suo “no”, il giudice non scarcera Cagliari e la triste profezia di D’Aiello si avvera.
Il 20 luglio 1993 Gabriele Cagliari si uccide nel carcere di San Vittore, infilandosi un sacchetto di plastica in testa. Le ispezioni del ministero della Giustizia prima, e i procedimenti penali e disciplinari poi, escluderanno condotte illecite da parte di De Pasquale nei confronti di Cagliari. Quest’ultimo però, in una delle lettere d’addio scritte alla moglie prima di uccidersi, utilizza parole durissime nei confronti dell’operato della magistratura inquirente: “La convinzione che mi sono fatto è che i magistrati considerano il carcere nient’altro che uno strumento di lavoro, di tortura, psicologica, dove le pratiche possono venire a maturazione o ammuffire, indifferentemente, anche se si tratta della pelle della gente”. “Siamo cani in un canile – aggiunge il numero uno di Eni – dal quale ogni procuratore può prelevarci per fare la sua propria esercitazione e dimostrazione che è più bravo o più severo di quello che aveva fatto un’analoga esercitazione alcuni giorni prima, o alcune ore prima. Anche tra loro c’è la stessa competizione o sopraffazione che vige nel mercato, con la differenza che, in questo caso, il gioco è fatto sulla pelle della gente. Non è dunque possibile accettare il loro giudizio, qualunque esso sia. Stanno distruggendo le basi di fondo e la stessa cultura del diritto, stanno percorrendo irrevocabilmente la strada che porta al loro Stato autoritario, al loro regime della totale asocialità”.
La notizia della morte di Cagliari sconvolge il Palazzo di giustizia milanese. Antonio Di Pietro viene visto nei corridoi camminare lentamente, con lo sguardo perso, lasciandosi scappare alcune frasi: “È una sconfitta. Le parole date vanno rispettate, non si può giocare”. “Eh no, non si fa così. Cagliari noi l’avevamo scarcerato già un mese e mezzo fa. E su Enimont collaborava. Mi sembra che Greco l’avesse già sentito”. Su De Pasquale: “Lui è fatto così…”. Da quel momento in poi, i rapporti tra De Pasquale e Di Pietro diventano freddissimi, quasi inesistenti. Tre giorni dopo il suicidio di Cagliari, il 23 luglio 1993, si toglie la vita anche Raul Gardini, per il quale il pool aveva chiesto l’arresto nell’ambito dell’inchiesta sulla maxi-tangente Enimont.
Il secondo scontro tra De Pasquale e il pool di Di Pietro avviene nel novembre 1993. Nel corso delle indagini su Eni salta fuori il nome di un commercialista, Aldo Molino, al quale vengono contestate tangenti per svariati miliardi di euro in vari filoni di inchiesta. Conteso tra De Pasquale e Di Pietro, Molino resta per mesi latitante a New York fino a settembre, quando decide di costituirsi e di parlare. Si consegna nelle mani di Di Pietro, però. De Pasquale e i suoi finanzieri non vengono nemmeno avvertiti. A novembre l’ex moglie di Molino denuncia che durante un interrogatorio un ufficiale della Guardia di finanza (che indaga con De Pasquale sul filone Eni-Sai) le avrebbe rivolto alcune domande su Di Pietro. L’ufficiale voleva sapere in particolare se esistessero rapporti di conoscenza tra Molino e lo stesso Di Pietro. Scoppia il finimondo, in procura volano parole grosse. I “veleni” in procura finiscono sulle prime pagine dei giornali. Il procuratore capo Borrelli ordina a De Pasquale di sospendere momentaneamente tutta l’attività istruttoria. Qualche ora dopo la crisi rientra, tra facce imbarazzate e sorrisi tirati.
In precedenza, De Pasquale era stato protagonista di altri episodi discussi. Nel 1992 aveva avviato un’inchiesta su corsi di formazione professionale finanziati dalla regione Lombardia coi fondi della Comunità economica europea. Per il pm, un affare da 200 miliardi di lire, soldi pubblici elargiti senza che i corsi di formazione fossero effettivamente svolti. De Pasquale mette sotto inchiesta l’intera giunta lombarda, tra cui Michele Colucci, ex assessore ai servizi sociali e capogruppo del Psi alla regione Lombardia. Nei confronti di Colucci, il pm chiede e ottiene la misura dell’obbligo di dimora, cioè il confino. Poche settimane dopo, il 28 maggio 1992, De Pasquale chiede e ottiene per Colucci l’arresto in carcere, ritenendo che l’ex assessore stia comunque inquinando le prove. L’arresto si trasforma in uno spettacolo per giornalisti e cameraman, radunatisi nel cuore della notte davanti alla caserma della Guardia di Finanza in attesa degli arrestati. Colucci, stordito e pallido, viene introdotto in caserma dall’ingresso pedonale e fatto passare sotto le forche caudine dei flash dei riflettori. In caserma l’esponente socialista, cardiopatico grave, accusa i sintomi di un edema polmonare e collassa. Viene fatto uscire in barella, di nuovo ripreso da fotografi e giornalisti mentre viene caricato in ambulanza e trasferito presso l’infermeria del carcere di San Vittore.
Non è l’unico capitolo surreale della vicenda. Nel novembre 1992 De Pasquale estende l’indagine anche nei confronti di Giorgio Strehler, uno dei più grandi registi del Novecento, all’epoca direttore del Piccolo Teatro di Milano. Per il pm anche il teatro ha ricevuto una serie di finanziamenti dalla Cee e dal comune di Milano per corsi di formazione professionale poi non realizzati. De Pasquale accusa Strehler anche di essersi tenuto compensi non dovuti, per lezioni che non sarebbero state tali. L’accusa viene vissuta dal regista come un’onta infamante. “In questo momento io mi dimetto da ogni cosa di questa Italia che disconosco: vita civile, società, teatro, città e cultura”, tuona Strehler dalle pagine di Repubblica. “Tengo per me solo la mia poesia, il mio talento e la purezza del mio cuore, del mio modo di essere nel mondo”. “La Giustizia – aggiunge il regista – soprattutto nei tempi del disonore, ha aspetti spesso contraddittori. Da una parte c’è la sua faccia limpida e persino sacrificale che io ammiro e non temo. Dall’altra la sua faccia oscura, intrisa di troppi equivoci, persino di corruzione come tanti casi della nostra storia anche recente hanno dimostrato e che io aborro. Io confido solo che il caso mi faccia incontrare quell’aspetto luminoso ed umano della Giustizia, che l’altra resti nel buio e non altro”. Alla fine, dopo due anni e mezzo, a prevalere è la faccia luminosa della giustizia. Nel 1995 Strehler viene assolto da tutte le accuse insieme ai suoi collaboratori. Per lui De Pasquale aveva chiesto una condanna a due anni per truffa, falso e malversazione. Il regista morirà nel 1997.
Un flop per De Pasquale, che però esce comunque vincente dalla stagione di Mani pulite. E’ lui a ottenere, nel 1996, la prima condanna definitiva nei confronti di Craxi (cinque anni e sei mesi di carcere), per il caso Eni-Sai. Il successo giudiziario spiana la carriera al pm, che diventa un pilastro – silenzioso – della procura milanese. Cominciano poi gli anni Duemila, quelli dell’offensiva giudiziaria milanese nei confronti di Silvio Berlusconi. Ci provano in tanti, a condannare il Cav., ma alla fine l’unico a riuscirci è proprio lui, De Pasquale, con l’indagine sulla frode fiscale compiuta da Mediaset nelle operazioni di compravendita di diritti televisivi e cinematografici all’estero.
Dopo dieci anni di inchieste e processi, nel 2012 il pm ottiene la condanna di Berlusconi, poi confermata l’anno successivo in appello e resa definitiva in Cassazione (quattro anni di reclusione). La condanna costa al fondatore di Forza Italia la decadenza dalla carica di senatore e vale a De Pasquale un altro posto nell’olimpo della magistratura.
Esaltato dal successo (ma senza autocelebrazioni), De Pasquale torna a concentrarsi sul suo vecchio pallino, Eni, stavolta accusando la compagnia petrolifera di aver pagato tangenti multimilionarie in giro per il mondo. Nel 2012 il pm coordina un’indagine contro i vertici Eni per una presunta corruzione compiuta da Saipem in Algeria per ottenere commesse petrolifere del valore complessivo di otto miliardi di euro. Due anni dopo, con il suo collega Sergio Spadaro, De Pasquale avvia l’indagine sulla presunta tangente più grande della storia: quella da un miliardo e 92 milioni di dollari che Eni e Shell avrebbero pagato in Nigeria per ottenere i diritti di esplorazione del blocco petrolifero Opl 245.
Le inchieste e i processi vanno avanti per dieci anni, nel clamore mediatico internazionale. L’esito però, in entrambi i casi, è fallimentare. Nel dicembre 2020 il processo Eni-Algeria si conclude con l’assoluzione definitiva degli imputati. Il 17 marzo 2021 il tribunale di Milano demolisce l’inchiesta di De Pasquale (nel frattempo promosso a procuratore aggiunto) e Spadaro sulla maxi-corruzione in Nigeria, assolvendo tutti gli imputati. Nelle motivazioni della sentenza, il collegio giudicante – presieduto da Marco Tremolada – non solo sottolinea la mancanza di prove a sostegno delle accuse, ma critica duramente anche alcune decisioni “irrituali” e “incomprensibili” degli inquirenti. In particolare, i pm non avrebbero depositato tra gli atti del processo una videoregistrazione favorevole agli imputati, che mostrerebbe l’intento ricattatorio contro Eni di Vincenzo Armanna, il grande accusatore della compagnia petrolifera, fortemente valorizzato dai pm. “Risulta incomprensibile – scrivono i giudici – la scelta del pubblico ministero di non depositare fra gli atti del procedimento un documento che, portando alla luce l’uso strumentale che Vincenzo Armanna intendeva fare delle proprie dichiarazioni e della auspicata conseguente attivazione dell’autorità inquirente, reca straordinari elementi a favore degli imputati”.
Secondo i giudici sorprende ancora di più, tanto da essere definita “irrituale”, la richiesta avanzata da De Pasquale e Spadaro nel febbraio 2020, cioè dopo oltre due anni di processo, di ascoltare in aula l’avvocato Piero Amara, affinché questi riferisse su presunte “interferenze da parte della difesa Eni” nei confronti dello stesso giudice Tremolada. Una richiesta, evidenziano i giudici, che avrebbe imposto “valutazioni che non competono a questo tribunale”. Le dichiarazioni di Amara, peraltro, erano state trasmesse dai vertici della procura milanese (il capo Francesco Greco e l’aggiunto Laura Pedio) ai colleghi di Brescia, i quali apriranno un’inchiesta, poi archiviata in virtù dell’inattendibilità di Amara.
Da qui si arriva ai giorni nostri. I duri rilievi mossi dai giudici sull’operato dei pm hanno indotto la procura di Brescia, competente sui magistrati milanesi, ad aprire un’indagine nei confronti di De Pasquale e Spadaro con l’ipotesi di rifiuto di atti d’ufficio, tutt’ora in corso. Parallelamente, il procuratore generale della Cassazione, Giovanni Salvi, ha avviato accertamenti sul piano disciplinare. Tutto ciò mentre la procura di Milano viene travolta dal caso dei verbali di Amara sulla presunta “loggia Ungheria”, consegnati dal sostituto Paolo Storari al consigliere del Csm Piercamillo Davigo nonostante fossero ancora secretati. De Pasquale si ritrova di nuovo nella bufera, ma stavolta rischia grosso. Anche di dover abbandonare la procura di cui ha contribuito a scrivere la storia. Da solista silenzioso.