Il Foglio del weekend
Le ali dell'Antimafia
Quelli della Direzione nazionale non hanno catturato Matteo Messina Denaro. In compenso, da Grasso a Roberti, hanno spiccato il volo in politica
Cadrà simbolicamente nel trentesimo anniversario della nascita della Direzione nazionale antimafia (Dna) la nomina del prossimo procuratore nazionale antimafia (dal 2015 anche antiterrorismo) da parte del Consiglio superiore della magistratura. Le candidature alla successione di Federico Cafiero de Raho, che andrà in pensione a febbraio, non sono ancora state ufficializzate, ma la scelta del nuovo capo della Dna si prospetta come un vero e proprio punto di svolta nella storia dell’organismo concepito da Giovanni Falcone e istituito nel novembre 1991 per volere dell’allora ministro della Giustizia Claudio Martelli (la procura nazionale antimafia entrò in funzione l’anno seguente, sotto la guida di Bruno Siclari).
Le redini della Dna potrebbero infatti finire nelle mani di uno dei magistrati simbolo della lotta alla mafia, autore di inchieste di grande rilievo pubblico (ma con risultati non sempre in linea con il clamore mediatico iniziale): Nicola Gratteri, oggi procuratore capo a Catanzaro. Nelle scorse settimane, Gratteri ha rinunciato a fare domanda per la guida della procura di Milano, dove il capo Francesco Greco sta per andare in pensione, e tutti gli indizi sembrano ora far pensare a una sua partecipazione alla corsa per la poltrona di procuratore nazionale antimafia (Pna). In quel caso rischierebbe di abbandonare in pieno dibattimento il maxi-processo scaturito dalla celebre operazione “Rinascita Scott” contro la ‘ndrangheta vibonese, con circa 400 imputati tra rito ordinario e abbreviato. Proprio l’inchiesta che lo stesso Gratteri a suo tempo definì, in maniera molto modesta, “la più grande operazione dopo il maxi processo di Palermo”, paragonandosi di fatto agli eroi antimafia Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Non si tratterebbe, comunque, di una nomina scontata. Gratteri infatti potrebbe vedersela con Francesco Lo Voi, procuratore di Palermo, anche lui in scadenza e dal curriculum, almeno sulla carta, più prestigioso: componente della procura palermitana fin dai tempi di Falcone, poi sostituto procuratore generale, consigliere del Csm dal 2002 al 2006, poi membro di Eurojust e infine dirigente dell’ufficio requirente a Palermo. Insomma, potrebbe profilarsi uno scontro tra “titani”, con prevedibili contrasti destinati a infiammare il già caldissimo clima interno alla magistratura.
A rendere la nomina del successore di De Raho particolarmente delicata è soprattutto la particolare visibilità acquisita negli ultimi anni dal procuratore nazionale antimafia e antiterrorismo sul piano pubblico e politico. Per averne una conferma, basta guardare a cosa è accaduto con gli ultimi dirigenti della Dna, Pietro Grasso e Franco Roberti. Grasso, nominato procuratore nazionale antimafia nel 2005 e confermato nel 2010, si è dimesso nel 2012 nel pieno del suo secondo mandato per avviare una brillante carriera politica. È stato eletto per due volte consecutive al Senato (di cui è stato anche presidente d’aula), nelle fila prima del Pd e poi di Liberi e Uguali. Una svolta a sinistra per un magistrato che non è mai stato “toga rossa”. La sua nomina al vertice della Direzione nazionale antimafia fu anche segnata da una dura polemica politica. Secondo la versione dei fatti più comune (ma erronea), l’investitura di Grasso fu resa possibile dall’approvazione da parte dell’allora maggioranza di centrodestra di una norma (poi dichiarata incostituzionale) che impedì la candidatura alla stessa carica di Gian Carlo Caselli, storico esponente di Magistratura democratica. In realtà, la stragrande maggioranza dei consiglieri del Csm era a favore della nomina di Grasso: Caselli non avrebbe mai avuto i voti per essere eletto. Di fronte a questa situazione, però, i consiglieri di Md impedirono la nomina di Grasso prima dell’entrata in vigore della discussa norma anti-Caselli, accreditando così l’idea che senza l’intervento della maggioranza berlusconiana il Csm avrebbe scelto Caselli.
Roberti, procuratore nazionale antimafia dal 2013 al 2017, ha seguito le orme del suo predecessore, scendendo in politica al termine del suo mandato. Prima è diventato assessore alla sicurezza nella giunta regionale campana di Vincenzo De Luca e poi, nel 2019, è stato eletto parlamentare europeo per il Pd. Non è chiaro se anche il capo della Dna uscente, De Raho, sfrutterà la visibilità ottenuta negli ultimi anni per fare il salto in politica. Per il momento c’è chi si limita a notare il tenore propagandistico di alcune sue affermazioni, come quando nel gennaio 2019 annunciò entro la fine dell’anno la cattura del superboss di Cosa Nostra, Matteo Messina Denaro. Lo scorso aprile ha invece fatto discutere l’annuncio della partecipazione di De Raho a un convegno organizzato dal Pd di Napoli, insieme proprio a Franco Roberti. In seguito alle polemiche, il procuratore nazionale antimafia ha poi deciso di non partecipare all’evento.
La nomina del successore di De Raho è dunque, in primo luogo, un’occasione per riflettere sul ruolo effettivamente rivestito nel sistema giudiziario italiano dal procuratore nazionale antimafia. Un’istituzione che sembra soffrire di un peccato originale, rappresentato da un insieme di poteri fortemente limitati nella gestione delle indagini antimafia. La legge, infatti, attribuisce alla Pna (composta da un procuratore nazionale e da venti sostituti procuratori) l’esercizio di funzioni di “impulso e coordinamento” delle attività di indagine in materia di criminalità organizzata, per esempio con la destinazione temporanea di magistrati alle direzioni distrettuali antimafia, l’emanazione di direttive e la promozione di riunioni tra i procuratori distrettuali in caso di contrasti. La Pna svolge inoltre funzioni di acquisizione ed elaborazione di notizie, informazioni e dati attinenti alla criminalità organizzata ai fini del coordinamento investigativo e della repressione dei reati. La procura nazionale antimafia, tuttavia, non può avviare o svolgere autonomamente indagini, se si esclude il potere (peraltro mai utilizzato) di avocare le indagini di fronte a contrasti irrisolti o a una perdurante e ingiustificata inerzia nell’attività di indagine da parte delle Dda. In altre parole, la procura nazionale antimafia sembra avere ben poco della “Superprocura” immaginata in origine da Falcone. Per comprendere a pieno questo passaggio occorre riannodare un po’ i fili della storia.
Lo facciamo con Giuseppe Di Federico, professore emerito dell’Università di Bologna, il più grande studioso italiano di sistemi giudiziari. Nel 1991, quando la Dna venne istituita, Di Federico era consulente del ministro della Giustizia Claudio Martelli. Fu lui a suggerire a Martelli di chiamare Falcone alla Direzione generale degli affari penali. “Martelli volle che fossi io a consultare preventivamente Falcone – ricorda Di Federico – Gli telefonai e prima di darmi la sua disponibilità Falcone mi chiese se ritenevo che Martelli avrebbe assecondato quelle iniziative riformatrici in materia di coordinamento delle attività del pubblico ministero e di innovazione tecnologica delle quali lui e io avevamo spesso parlato. Gli dissi di sì. Tornai quindi dal ministro per dargli la disponibilità di Falcone. Ne fu molto contento e gli telefonò subito. Il giorno dopo Falcone venne a Roma e accettò l’offerta di Martelli”.
Dopo aver assunto le sue funzioni al ministero della Giustizia, nel marzo 1991, Falcone cominciò a lavorare per la creazione di una “Superprocura” antimafia, cioè – spiega Di Federico – di “una struttura che avesse un potere di supervisione gerarchica sulle procure e che quindi, di fronte all’incapacità o alla mancata collaborazione degli uffici requirenti, potesse intervenire direttamente nelle indagini o avocarle”. La struttura immaginata da Falcone avrebbe dovuto anche “recepire le linee elaborate dal governo e approvate dal parlamento circa il potenziamento dell’attività di prevenzione e investigazione in materia di criminalità organizzata. La Dna avrebbe poi dovuto riferire periodicamente al Consiglio superiore della magistratura e al ministro della Giustizia perché ne tenesse informato il Parlamento”.
La “Superprocura” antimafia avrebbe quindi avuto sulle procure poteri di supervisione effettivi, ma non assoluti. Nell’idea di Falcone occorreva realizzare un sistema caratterizzato, sì, da un organo di vertice capace di coordinare e intervenire in prima persona nelle indagini, ma anche da forme di connessione intermedie, attraverso una rivalutazione del ruolo esercitato dai procuratori generali. “Le racconto una cosa che non ho mai detto – dichiara Di Federico – Nel maggio 1991, cioè due mesi dopo l’arrivo al ministero, Falcone decise di convocare tutti i procuratori generali distrettuali per verificare se e in che misura avessero il polso della situazione di ciò che accadeva nelle procure. La sensazione di Falcone era infatti che ogni procura potesse muoversi per conto suo, con effetti disfunzionali sul sistema. Ebbene, dalla riunione venne fuori che, salvo un paio di eccezioni, nessun procuratore generale aveva alcun ruolo nella gestione delle attività delle procure del distretto a cui era a capo”.
Il 25 ottobre 1991 il Consiglio dei ministri approvò un primo decreto legislativo che istituiva la “Superprocura” antimafia secondo il modello concepito da Falcone, quindi prevedendo una struttura dotata di un potere di supervisione gerarchica sulle procure e un potere di indagine diretta in materia antimafia, un collegamento tra la Dna e gli indirizzi espressi da governo e parlamento, e un potenziamento del ruolo dei procuratori generali. Nelle ore seguenti, però, il provvedimento venne duramente criticato dalla magistratura. L’Associazione nazionale magistrati accusò il governo di voler sottoporre il pubblico ministero al potere politico e ci fu chi, come l’ex presidente dell’Anm Raffaele Bertoni, si spinse addirittura ad affermare che la superprocura antimafia sarebbe stata in magistratura “quello che la cupola è nella mafia”.
“Tutti i pezzi grossi dell’Anm protestarono contro il decreto legislativo – ricorda Di Federico – Fu un vero e proprio fuoco di fila. Anche Pier Luigi Vigna, di cui ero amico, era molto contrario, seppur in maniera cauta. Quando poi nel 1997 Vigna divenne procuratore nazionale antimafia si ricredette e ammise che il suo lavoro sarebbe stato molto più proficuo se quei poteri previsti da Falcone e approvati dal ministro fossero stati introdotti”. Di fronte alle feroci proteste della magistratura, infatti, il ministro Martelli cambiò il testo del decreto, eliminando i poteri gerarchici del procuratore nazionale antimafia, il potere di condurre direttamente indagini in materia di criminalità organizzata e anche il collegamento con il Parlamento e il governo. “Martelli era disposto a mantenere quanto era stato previsto nel decreto. Falcone, invece, si rendeva conto che la sua prospettiva di poter diventare procuratore nazionale antimafia, di fronte a una reazione così violenta, veniva a perdere consistenza. Quindi si disse disposto a escludere i poteri gerarchici del procuratore nazionale antimafia perché riteneva che un corpo centrale che raccogliesse sistematicamente le informazioni e avesse capacità di comunicazione poteva comunque ottenere risultati utili nella lotta alla mafia”, afferma Di Federico.
La procura nazionale antimafia, così, venne istituita secondo un modello certamente innovativo, ma depotenziato rispetto alle premesse iniziali. Sebbene i poteri gerarchici del nuovo organismo fossero stati eliminati, la magistratura associata continuò a lungo a criticare fortemente la creazione della Dna, considerandola un tentativo di gerarchizzare l’ufficio del pubblico ministero e assoggettarlo all’esecutivo. Proprio queste preoccupazioni legate a una limitazione dell’indipendenza della magistratura, spinsero la commissione incarichi direttivi del Csm a respingere la nomina a superprocuratore di Falcone, ritenuto troppo vicino al governo, e a preferirgli Agostino Cordova. In seguito, la procedura di nomina non si concluse a causa dell’uccisione di Falcone nella strage di Capaci. La travagliata nomina del primo procuratore nazionale antimafia si concluse solo nell’ottobre 1992, con la nomina di Bruno Siclari, all’epoca procuratore generale a Palermo.
Per un lungo periodo tuttavia, come ricorda Di Federico, la Dna venne vista di cattivo occhio dalle direzioni distrettuali antimafia: “Nei primi anni l’azione della Dna fu certamente limitata, come del resto testimoniato dagli stessi procuratori nazionali antimafia, come Vigna. I magistrati inviati dalla Dna presso le Dda per collaborare alle indagini venivano trattati come sorvegliati speciali. Successivamente si è sviluppata una maggiore tolleranza da parte delle procure. La situazione si è in qualche modo stabilizzata e quella non accettazione del ruolo della Dna si è venuta affievolendo”.
Lo studioso non si dice particolarmente colpito dal salto in politica degli ultimi due procuratori nazionale antimafia: “Ritengo che faccia parte di quel fenomeno di collegamento tra magistratura e classe politica che si è manifestato da tanto tempo e in tanti modi. Basti pensare che alle elezioni politiche del 1996 furono circa 50 i magistrati candidati e in 27 furono eletti. Persino Berlusconi ha mandato in Parlamento dei giudici”. “Questo fenomeno – prosegue Di Federico – appartiene alla nostra tradizione ed è la conseguenza del fatto che, essendo le promozioni basate soltanto sull’anzianità, i magistrati non devono preoccuparsi, come una volta, di scrivere sentenze per essere promossi. In questo modo seguitano ad avere tutti i vantaggi di essere magistrati anche quando per moltissimi anni non svolgono le funzioni. Oggi è previsto un limite di dieci anni per il collocamento fuori ruolo, ma per anni abbiamo avuto magistrati che hanno svolto la loro carriera, dalla base fino al vertice, senza aver mai esercitato funzioni giudiziarie, se non nei primi anni”.
Ad ogni modo, per Di Federico il vero problema della giustizia italiana non è rappresentato tanto dalla sovraesposizione pubblica e politica del procuratore nazionale antimafia, quanto dallo strapotere dei pubblici ministeri, in grado – a differenza della Dna – di esercitare un potere di iniziativa penale, per di più con la massima discrezionalità: “Il problema di fondo è che i procuratori singolarmente decidono quali sono le linee di politica criminale del paese. In altre parole, le politiche pubbliche nel settore della criminalità sono prevalentemente nelle mani di soggetti politicamente irresponsabili. Negli altri paesi questi poteri di indirizzo sono nelle mani dei politici, che possono essere chiamati a risponderne. Da noi questo viene considerato come qualcosa contrario allo stato di diritto. Ma in tutti i paesi del mondo il pubblico ministero è una struttura unitaria e gerarchica”. “Se non si interviene su questo aspetto – conclude Di Federico – lo strapotere dei pm è limitato soltanto dal loro autocontrollo, con i risultati che vediamo”.