Basta pm giustizialisti

Edmondo Bruti Liberati*

No. Il rispetto della dignità della persona non può più essere un principio negoziabile nelle procure. Come costruire una svolta non retorica partendo da un formidabile assist che arriva dall’Europa

Nei prossimi giorni alla ripresa dell’attività le Camere prenderanno in esame lo “Schema di decreto legislativo” del Governo per l’attuazione (con un ritardo di cinque anni) della Direttiva Ue del 2016 sulla presunzione di innocenza, un testo che presenta non pochi aspetti problematici. 
La presunzione di innocenza trova la sua prima tutela nelle norme del processo (diritto al silenzio, onere della prova); le previsioni della Direttiva su questi aspetti non richiedono disposizioni attuative poiché il nostro ordinamento è già rispettoso di tali principi e diritti. 

 
Sulla questione della presentazione in pubblico di imputati in manette o con altri mezzi di coercizione fisica, affrontata nella Direttiva Ue, basterebbe nel nostro Paese dare attuazione alle disposizioni e alle direttive già vigenti.  Rimane aperto il problema delle gabbie presenti in molte aule di udienza; le più vecchie sono vere e proprie gabbie con sbarre metalliche, le più recenti sono in vetro, soltanto meno appariscenti. In taluni casi l’utilizzo delle gabbie si rende necessario soprattutto quando vi siano più detenuti. Ma non è infrequente che gli imputati siano posti in queste gabbie, senza che vi siano stringenti esigenze di sicurezza, ma solo perché ciò consente di utilizzare un numero più ridotto di personale di polizia penitenziaria per la scorta. In altri casi la sistemazione logistica dell’aula è tale che per gli imputati non vi è altro posto se non quello nelle gabbie. Su questo tema non occorrono norme, ma impegno per l’adeguamento logistico delle aule di udienza e delle regole per le scorte.

 

La presunzione di innocenza è un dato acquisito ma  delicato è il tema delle misure per assicurarne la tutela

  
Nonostante le norme esistenti (ribadite negli ultimi anni da precise direttive di diversi Procuratori della Repubblica come Milano e Napoli) sono ancora frequenti i casi in cui le autorità di polizia consentono la ripresa di arresti o di persone in manette, ma occorre anche ricordare che molto  spesso questo tipo di riprese è attuato a dispetto delle precauzioni adottate e che comunque la responsabilità della diffusione sui media è degli operatori della comunicazione.  La presunzione di innocenza è un dato acquisito a livello europeo e nel nostro sistema processuale, ma molto delicato è il tema delle misure da adottare per assicurarne la tutela, individuando un punto di equilibrio rispetto ad altri valori come, da un lato, il dovere di comunicare e di rendere conto accountability da parte del sistema di giustizia e, dall’altro, il diritto di informazione, di cronaca e di critica La Direttiva Ue, nella premessa si limita alla sbrigativa formuletta “fatto salvo il diritto nazionale a tutela della libertà di stampa e dei media” e all’art. 4 adotta formulazioni molto restrittive, limitando la possibilità da parte delle autorità pubbliche di “divulgare informazioni sui procedimenti penali”, ai soli casi in cui “ciò sia strettamente necessario per motivi connessi all’indagine penale o per l’interesse pubblico”.

 
L’esemplificazione di queste ipotesi “come nel caso in cui venga diffuso materiale video e si inviti il pubblico a collaborare nell’individuazione del presunto autore del reato, o per l’interesse pubblico, come nel caso in cui, per motivi di sicurezza, agli abitanti di una zona interessata da un presunto reato ambientale siano fornite informazioni o la pubblica accusa o un’altra autorità competente fornisca informazioni oggettive sullo stato del procedimento penale al fine di prevenire turbative dell’ordine pubblico” è  riduttiva, anche se poi viene sostanzialmente vanificata con il riferimento  all’“interesse pubblico” come criterio per la divulgazione di informazioni su procedimenti penali.  Senza questa cautela sarebbe stato precluso a ministri o funzionari governativi, oltre che alla magistratura, di fornire notizie, ad esempio in occasione di attentati terroristici o di gravi fatti di criminalità organizzata o mafiosa.

 

Tutti i danni che provocano alla  credibilità della giustizia le esternazioni lesive del principio di innocenza dei pm

  
Sul tema “caldo” delle dichiarazioni rese dalle Procure della Repubblica, si ripropongono le ambiguità della Direttiva. Stabilire che “i rapporti con gli organi di informazione” del Procuratore della Repubblica possano attuarsi  “esclusivamente tramite comunicati ufficiali, oppure, nei casi di particolare rilevanza pubblica dei fatti, tramite conferenze stampa”,  alla lettera escluderebbe tutti gli altri mezzi di comunicazione compresi quelli che propongono una informazione più articolata come interventi a convegni, articoli su quotidiani o riviste o addirittura il modello Bilancio di Responsabilità Sociale, che invece è stato incoraggiato. 

 
Una importante innovazione si nota nella proposta del governo su un tema non affrontato espressamente nella Direttiva con la prescrizione che le informazioni siano fornite “in modo da chiarire la fase in cui il procedimento pende”. Ove non si riduca al mero testuale riferimento all’autorità giudiziaria che ha emesso il provvedimento (Pubblico Ministero, Giudice delle indagini preliminari, Giudice dell’Udienza Preliminare, Tribunale, Corte di Appello), può contribuire a formare nella pubblica opinione la comprensione del reale valore della presunzione di innocenza. Si introduce poi il divieto “di assegnare ai procedimenti pendenti denominazioni lesive della presunzione di innocenza” nei comunicati e nelle conferenze stampa, formula aperta e inutile a fronte di una questione, quella di assegnare nomi roboanti a partire da “Mani pulite” alle inchieste, che va risolta a livello di costume e di buon gusto.  Per di più queste denominazioni in non pochi casi non sono assegnate dal pubblico ministero, ma autonomamente dai media.

 
La questione più delicata è la disciplina del divieto di “riferimenti in pubblico alla colpevolezza”. Si direbbe una mission impossible poiché sul punto le buone intenzioni della Direttiva scontano una impostazione burocratica e unilaterale. Forse si tratta di questione che sarebbe stato più opportuno riservare agli strumenti di soft law (come Raccomandazioni e Pareri), più idonei a fornire orientamenti nell’individuazione del delicato equilibrio tra i diversi valori in gioco, piuttosto che l’hard law della Direttiva. La presunzione di innocenza, lo si è già sottolineato, trova la sua essenziale tutela nelle norme del processo sulle garanzie del diritto di difesa. La pretesa di intervenire sul terreno della comunicazione con normative apparentemente stringenti si rivela insieme problematica e potenzialmente lesiva degli altrettanto rilevanti valori dell’informazione, della cronaca e della critica. 
Qualunque normativa il nostro legislatore adotterà, rimane essenziale l’assunzione di responsabilità e la deontologia degli operatori di giustizia e degli operatori dell’informazione. Per quanto riguarda i magistrati non saranno mai abbastanza sottolineati i danni che provocano alla complessiva credibilità della giustizia le esternazioni lesive del principio di innocenza e in contrasto con i criteri dell’equilibrio e della misura di alcuni magistrati, soprattutto pubblici ministeri. La questione di fondo rimane quella efficacemente indicata da Giovanni Melillo, un magistrato particolarmente impegnato sul tema: ”Si tratta allora di trovare la formula quasi alchemica, in grado di assicurare il perfetto equilibrio fra efficacia e correttezza della informazione, ciò che per un giurista, e a maggior ragione per un magistrato come tale soggetto solo alla legge, vuol dire una comunicazione efficace nei limiti nei quali può rendersi rispettando le regole, non solo prettamente processuali, ma anche della cultura e della deontologia del processo penale di una società liberale”.

 

Una buona mediazione sui nuovi confini del garantismo del futuro la offre  Giovanni Melillo,  oggi a Napoli

   
Il principio di innocenza deve essere affrontato con attenzione a livello di informazione ad evitare l’ipocrisia che lo riduca a mero formalismo a fronte di “casi risolti”, ove la colpevolezza si presenti come dato storicamente acquisito, che il processo dovrà solo “attestare” e verterà essenzialmente sulla individuazione della pena da infliggere o, in taluni casi, sulla capacità di intendere e di volere. Anche nei confronti del più feroce degli assassini, colto in flagranza o comunque apparentemente raggiunto da inoppugnabili elementi di accusa, il richiamo al principio della presunzione di innocenza fino alla sentenza irrevocabile non è ipocrita formalismo, perché rimanda alle regole del “giusto processo” e alle garanzie di difesa, contribuisce a formare l’acquisizione della distinzione tra Verità storica e verità processuale. 

 
La verità processuale, con la “v” minuscola, è quella che si costruisce attraverso la verifica della impostazione accusatoria davanti al giudice, con pronunzie che possono essere riviste nel sistema delle impugnazioni; è quella che deve ignorare prove illegittimamente acquisite; è quella che la cui “definitività” è persino revocabile, attraverso il procedimento di revisione, quando emergano nuove prove a favore del condannato. Al contrario la “definitività” non può essere scalfita ove successivamente emergano prove a carico dell’assolto, in base al principio che in tutti gli ordinamenti continua ad essere definito con la formula latina del “ne bis in idem”, il quale preclude in modo assoluto la possibilità di sottoporre nuovamente a processo per lo stesso fatto chi è stato assolto Lo Stato, negli ordinamenti liberaldemocratici, si riserva il monopolio della potestà punitiva, ma ne detta i limiti, con le regole e le garanzie del processo. Ma oltre le norme processuali vi è il principio del rispetto della persona, nei diritti e nella dignità. Non è un caso che nella nostra Costituzione e nella Dichiarazione Universale dei diritti dell’uomo, sin dai primi articoli, dignità e diritti della persona si presentino come inscindibili. La Carta dei diritti dell’Unione Europea si apre con “Art.1 Dignità umana. La dignità umana è inviolabile. Essa deve essere rispettata e tutelata”.

 
Lo scarso respiro dell’approccio adottato nella Direttiva Ue emerge anche da questo dato lessicale molto significativo: nelle undici pagine che il documento occupa nella Gazzetta Ufficiale dell’Unione Europea non compare neppure una volta la parola “dignità”. Eppure, appena l’orizzonte si allarghi oltre le norme del processo, è fondamentale il riferimento al rispetto della dignità della persona sottoposta ad indagini e processo ed anche definitivamente condannata, quale che sia la colpa di cui si è macchiata. Anche l’esecuzione delle pene detentive nei confronti dei condannati definitivi la nostra Costituzione vuole sia attuata nel rispetto della persona e miri al reinserimento nella società.

 
Questo profilo non è sfuggito alle Linee Guida  2018 del Consiglio Superiore della Magistratura del 2018 con riferimento alla comunicazione da parte delle Procure: “E’ assicurato il rispetto della presunzione di non colpevolezza; va dunque evitata, tanto più quando i fatti sono di particolare complessità o la loro ricostruzione è affidata ad un ragionamento indiziario, ogni rappresentazione delle indagini idonea a determinare nel pubblico la convinzione della colpevolezza delle persone indagate; particolare tutela va dedicata alle vittime e alle persone offese; vanno adottate tutte le misure utili ad evitare l’ingiustificata diffusione di notizie ed immagini potenzialmente lesive della loro dignità e riservatezza”.

  

La pretesa di intervenire sul terreno della comunicazione  si rivela  problematica. Una soluzione però esiste

 
Come ricordano Marta Cartabia e Alfonso Ceretti nel denso volumetto “Un’altra storia inizia qui”, il cardinale Carlo Maria Martini “inizia la sua attività pastorale come arcivescovo di Milano scegliendo come luogo di elezione proprio il carcere di San Vittore” e nella sua successiva riflessione ritorna più volte sulla dignità della persona: ”L’errore e il crimine […] indeboliscono e deturpano la personalità dell’individuo, ma non la negano, non la distruggono, non la declassano al regno animale, inferiore all’umano. Perciò le leggi […] hanno senso se operano in funzione dell’affermazione, dello sviluppo e del recupero della dignità di ogni persona”. Queste parole del cardinale Martini richiamano quelle di Giovanni XXIII: “Non si dovrà però mai confondere l’errore con l’errante, anche quando si tratta di errore o di conoscenza inadeguata della verità in campo morale religioso. L’errante è sempre ed anzitutto un essere umano e conserva, in ogni caso, la sua dignità di persona; e va sempre considerato e trattato come si conviene a tanta dignità. (1963 Pacem in terris n.83)”.

 
Ciascun caso, ciascuna vicenda presenta aspetti particolari ma il rispetto della dignità della persona offre un orientamento indefettibile.


* L’autore è stato procuratore capo di Milano dal 2010 al 2015

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