Francesco Greco e il “bilancio sociale” della procura di Milano
La “rivoluzione dei pm” è finita: ora è iniziata quella che passa dalla Consulta
Non è una bega personale. E non vede contrapposti l’attuale (per poco) capo della procura di Milano Francesco Greco e l’ex componente del Csm Piercamillo Davigo, e nessun altro: dalla lunga intervista rilasciata domenica da Greco al Corriere della Sera, i contrasti riguardano costui e il suo ufficio, visti i 54 pm su 64 firmatari del documento pro Storari; coinvolgono il Csm e si estendono, seppure per altre ragioni, alla procura generale del capoluogo lombardo. Se erano, e sono, censurabili le liti fra istituzioni – fra autorità giudiziaria e governo, fra procure e Parlamento –, qui il tutti contro tutti si realizza nello stretto recinto della magistratura, e provoca tristezza e smarrimento.
C’è però qualcosa che nelle esternazioni di Greco supera il piano delle pur inammissibili baruffe. E’ quando il procuratore di Milano, rivendicando le iniziative adottate dal suo ufficio negli ultimi 30 anni, lo definisce un simbolo, soprattutto nel contrasto alla corruzione internazionale; denuncia che tale simbolo oggi è sotto attacco e che l’attacco proviene dall’interno dell’ordine giudiziario, sempre più autoreferenziale; paventa che se l’aggressione avesse successo terminerebbe definitivamente un’èra, quella avviata con Mani pulite.
C’è del vero in quello che dice. Non c’è dubbio che negli ultimi anni la magistratura italiana sia cambiata culturalmente, accentuando l’autoreferenzialità, e che il contraltare di ciò è, fra l’altro, il peso assunto per l’ordinamento giudiziario dalle circolari del Csm. E’ vero che larga parte della stessa magistratura è meno suggestionabile rispetto al passato dalla interpretazione di ruoli salvifici, per cui parlare della procura milanese come di una “anomalia” che sta per essere ricondotta a “normalità” ha un suono nostalgico: sembra salutare con rimpianto la lunga stagione di una funzione vissuta quale missione elitaria di purificazione sociale. La “rivoluzione dei pm” è finita: lo sancisce con amarezza uno dei pubblici ministeri più importanti degli ultimi decenni. Quel che Francesco Greco non dice è che però non è finita la “rivoluzione giudiziaria”: viene portata avanti da altri soggetti della giurisdizione, in primo luogo dalla Corte costituzionale.
In un recente saggio pubblicato da Questione Giustizia (n. 4/2020) il presidente emerito della Consulta, Gaetano Silvestri, sulla scia di quanto da tempo teorizzato dai suoi predecessori, a cominciare da Gustavo Zagrebelsky, ribadisce come scelta di necessità la prevalenza della giurisdizione, in primis di quella costituzionale, sulle altre istituzioni, il ruolo creativo delle norme che essa si è data, e prima ancora l’autoinvestitura al vertice dell’ordinamento: “L’esperienza di tanti ordinamenti positivi – e di altrettanti sistemi politici a ognuno collegati – ci dimostra che le polemiche su vere o presunte esorbitanze del potere giudiziario si fanno più aspre dove e quando si creano condizioni favorevoli alle denunciate invadenze dei giudici, costituzionali in primo luogo. Queste condizioni vengono identificate, in genere, nella debolezza dei partiti politici e nella fragilità delle coalizioni di governo, che portano la politica a situazioni di stallo, con conseguente delega di fatto alla magistratura di decidere”. Scrive ancora Silvestri: “Non potendosi negare che il legislatore (la politica) mostri serie difficoltà a colmare vuoti di tutela di diritti costituzionalmente protetti, che acquistano evidenza maggiore con l’evoluzione culturale imposta dai tempi, si torna ad affermare, con geometrica coerenza, che, se vuoti ci sono, dev’essere la stessa politica a colmarli, senza che si ricorra a scorciatoie ‘giuristocratiche’. In altri termini, meglio che un diritto sia meno tutelato, anziché lo sia dal potere sbagliato”. Rinvio alla interessante lettura dell’intero saggio, ma il suo senso è che i giudici sono oggi i sensori sociali: se colgono dall’osservazione della realtà diritti da salvaguardare e da promuovere, hanno il dovere di farlo colmando i vuoti dell’ordinamento, a prescindere dal Parlamento e dalla politica. Altrettanto interessante sarebbe comprendere, al di là di ogni ineludibile domanda sulla tenuta della democrazia e della rappresentatività popolare, dove e sulla base di quali parametri vengono tarati gli strumenti culturali che permettono a chi indossa una toga di enucleare dalla vita sociale i nuovi diritti, e conferire a essi veste giuridica.
Nel “bilancio sociale” della procura di Milano, sintetizzato al termine dell’intervista a Francesco Greco, vi è il “referendum sull’eutanasia”, che “origina dall’incostituzionalità della legge sollevata dalla procura (…) sul caso Cappato”. Origina, per l’appunto; su questa come su altre voci ha operato la Consulta. Un ruolo analogo, su temi come il diritto di famiglia e dei minori, ma non solo, lo hanno svolto talune pronunce della Corte di Cassazione. Altri giudicanti intervengono sulle scelte di governo in tema di immigrazione e di sicurezza. La “rivoluzione” va avanti, ma non più attraverso le procure.