I guai della giustizia passano da un numero: 2 per cento di sanzioni
Una regola non scritta ci dice che quando sono sottoposti ad un giudizio (sull’attività svolta, disciplinare o civile) solo il 2 per cento dei magistrati non ne esce bene. Una percentuale che fa dormire sonni tranquilli alle toghe
A proposito dell’emergenza giustizia di cui ha parlato ieri su questo giornale il direttore del Foglio, c’è un numerino rilassante e ricorrente nella carriera dei magistrati che può aiutarci a fotografare al meglio quali sono le patologie del sistema. Quel numero è questo: il 2%. Una regola non scritta ci dice che quando sono sottoposti ad un giudizio (sull’attività svolta, disciplinare o civile) solo il 2% non ne esce bene.
Una percentuale che fa dormire sonni tranquilli alle toghe: sia che affrontino la periodica valutazione di professionalità (per il 98% l’esito è positivo, non positivo meno del 2%) o una causa di responsabilità civile (dal 2010 ad oggi su 544 cause, solo 8 condanne, precisamente l’1,4%) o, ancora, un’azione disciplinare (le condanne sono l’1,4% delle denunce), la regola del 2% non sgarra mai. Ma se sono tutti bravi-bravissimi come si scelgono i vertici di Tribunali o Procure? Questo appiattimento è il carburante che alimenta le correnti. Se non c’è differenza tra chi è attivo e chi è disimpegnato, tra chi è corretto e chi sbaglia, se tutti sono ugualmente capaci, decidono, o, meglio, spartiscono, le correnti. Pochi giorni fa dal congresso dell’Anm è giunto un fermo invito al governo a procedere celermente alla riforma del Csm, per sradicare il correntismo che penalizza le nomine dei più meritevoli. Peccato che quando si prova a mettere in discussione valutazioni di professionalità, responsabilità civile e disciplinare scatti un fuoco di sbarramento.
Basta scorrere il sito internet di una nota corrente delle toghe: si spiega che “quella che riguarda i magistrati è una giustizia particolarmente severa” e “dire che essi sono gli unici cittadini che non pagano per gli errori commessi significa dire cosa non vera che il dato statistico è pronto a smentire”. Sul sito di un’altra corrente, con riferimento proprio alle statistiche, si parla di “cifre che dimostrano un rigore che non si era mai visto e che non ha paragone con nessun altro ordine o categoria professionale”, concludendo come “siano immeritate le accuse di giustizia “domestica” e di “corporativismo”. Non so a quali statistiche si riferiscano, perché i numeri sono impietosi.
Esaminiamo quelli sulla responsabilità disciplinare. La sezione disciplinare del Csm nell’anno 2020 ha concluso 114 giudizi: le condanne sono state 25 (il 21,9%), mentre tutti gli altri esiti (78,1%) sono stati di assoluzione, non doversi procedere, non luogo a procedere. Un risultato analogo si evince esaminando le annate precedenti. Nel 2019 le condanne sono state 25, il 22,6%. Questo però è un dato parziale. Vale per i pochi fascicoli che finiscono al CSM. La stragrande maggioranza delle denunce è archiviata “de plano”. Infatti il Procuratore Generale della Cassazione riceve quasi 2000 segnalazioni disciplinari l’anno (1898 nel 2019, 1775 nel 2020), le analizza, le filtra e ne archivia oltre il 90%. Solo per il 5% dei casi promuove l’azione disciplinare (quella che finisce al CSM), ed il 21-22% di queste sfocia in condanna. Anno 2019, 1898 denunce 24 condanne (1,26%), anno 2020, 1775 denunce 25 condanne (1,4%). La regola del 2% è rispettata.
Perchè il PG archivia senza neanche un giudizio? Nessuno lo può sapere, visto che è impossibile avere gli atti di quel 90% di archiviazioni. Perché – salvo il Ministro della Giustizia – nessuno, né il segnalante, né un’istituzione, né chiunque altro può avere copia degli atti e leggere le motivazioni dei proscioglimenti. E vi è una costante e granitica difesa della gelosa riservatezza di tali documenti, della loro non sostenibilità: chi presenta denuncia e chiede le ragioni dell’archiviazione trova un muro. Ai richiedenti viene risposto che non hanno interesse, visto che il procedimento disciplinare non è finalizzato a tutelare l’interesse di chi ha denunciato, ma quello dell’amministrazione della giustizia. Un segreto istruttorio a prova di bomba, mica quello che la legge riserva ai comuni mortali.
Archiviare o assolvere non deve comunque essere un esercizio impegnativo, perché la legge del 2006 che disciplina la responsabilità disciplinare offre un’ampia gamma di strumenti. Mi torna alla mente un episodio colorito che mostra alla perfezione quanto sia flessibile (e soggettivo) il confine tra sanzione e perdono. Qualche anno fa un giudice del Tribunale di Locri, nel corso di un’udienza, si alzò d’un tratto in piedi e con fare alterato si abbandonò alla pronuncia di frasi offensive per le parti presenti: “non mi rompete il c…, mi avete rotto i co…, fatevi i c… vostri, vaffa..…”. Un caso di scuola. Inevitabilmente finì davanti alla sezione disciplinare del Csm, e venne assolto perché il fatto fu giudicato “di scarsa rilevanza”. Un caso emblematico di applicazione di una clausola “di salvezza”, quella della “scarsa rilevanza” dei fatti addebitati, contenuta nella legge proprio per garantire vie di fuga a situazioni indifendibili. Si è di fronte ad comportamento sanzionabile, ma se il fatto è di “scarsa rilevanza” scatta l’assoluzione. La varietà di applicazioni perdoniste della “scarsa rilevanza” è notevole: dal caso di inerzia di un Pm che indugia per 7 anni su un fascicolo, alle offese su social network riprese dalla stampa, al travisamento dei fatti di causa, fino alle nomine non consentite ecc. Una buona penna può motivare ovunque sulla “scarsa rilevanza”.
Ma la legge offre anche altre generose scappatoie. Il ritardo nel compimento di atti rileva solo se reiterato, grave e ingiustificato (la legge chiarisce che “si presume non grave il ritardo che non eccede il triplo dei termini previsti dalla legge per il compimento dell’atto”). E’ stato ritenuta causa di giustificazione dell’inerzia di un magistrato la contestuale conflittuale separazione personale dal coniuge; la sanzione non scatta per comportamento scorretti nei confronti delle parti, dei testimoni, di altri magistrati, se non sono gravi o abituali; la violazione di legge rileva solo se grave e determinata da ignoranza o negligenza inescusabile; il travisamento del fatto è punito solo se determinato da negligenza inescusabile; l’adozione di provvedimenti in casi non consentiti dalla legge è rilevante solo se frutto di negligenza grave e solo se abbia leso diritti personali o, in modo rilevante, diritti patrimoniali; ; il sottrarsi all’attività di servizio ha rilievo solo se abituale e ingiustificato; la violazione del dovere di riservatezza sugli affari in corso di trattazione solo quando è idonea a ledere indebitamente diritti altrui; e così via.
E, infine, occhio alla forma! Un sinistro avvertimento sul sito della Cassazione sottolinea che “le segnalazioni di fatti aventi eventuale rilevanza disciplinare provenienti da privati a mezzo posta elettronica non certificata, così come le istanze ad esse relative, non determinano nessun obbligo di provvedere e, conseguentemente, alle stesse non sarà dato riscontro”. Quindi il fatto può anche avere “eventuale rilevanza disciplinare”, ma se la denuncia non è fatta tramite Pec può tranquillamente finire nel cestino? Un numero così esiguo di condanne disciplinari può intendersi come indice di una magistratura sana e corretta, ma all’esterno appare più come l’arrocco di un sistema che si chiude a riccio, salvo scaricarsi di tanto in tanto su qualche caso per offrire l’apparenza del pugno di ferro. Un concorso di responsabilità tra Parlamento e Governo – inerti e ciechi da anni – ed il Csm, che abilmente coglie gli spazi offerti dal legislatore. Legislatore che ha finalmente l’occasione per rimediare, attraverso la riforma del CSM: trovi il coraggio di intervenire drasticamente. Cambiare la legge elettorale dell’organo di autogoverno è certo importante, ma non servirà a nulla se non si scioglieranno i nodi da cui le correnti traggono forza, vitalità e ragione d’essere.
*Enrico Costa è deputato di Azione