Il dramma della giustizia politicizzata
Il rapporto perverso tra magistratura, politica e opinione pubblica spiegato attraverso i comizi di Scarpinato contro Consulta e Cedu e le parole di Magistratura democratica su Domenico Lucano
C’è qualcosa di perverso nel rapporto tra magistrati, politica e opinione pubblica. E il fatto che la credibilità dei giudici sia a livelli minimi, travolta dagli scandali e dal crollo di grandi teoremi giudiziari (dalla Trattativa a Palermo al processo Eni a Milano), ne è la conseguenza. Due casi minori, fuori dalle aule giudiziarie, mostrano che il problema è soprattutto culturale e riguarda il senso che i magistrati hanno della loro funzione.
Giovedì scorso, la commissione Giustizia ha audito diversi giudici nell’ambito della revisione della legge sui benefici penitenziari per i reati cosiddetti ostativi. Contesto: dopo le sentenze della Corte europea dei diritti dell’uomo e della Corte costituzionale che hanno dichiarato illegittimo l’ergastolo ostativo per violazione della dignità umana, il Parlamento ha un anno di tempo per legiferare sul tema tenendo conto del nuovo equilibrio tra diritti umani e lotta alle mafie. Ebbene, tra gli auditi, la Camera ha convocato lo storico procuratore generale di Palermo Roberto Scarpinato che, anziché fornire suggerimenti tecnici, si è messo a contestare le sentenze. Prima dicendo che l’abrogazione dell’ergastolo ostativo era una richiesta di Riina e l’oggetto di una “lunga trattativa” tra stato e mafia (e te pareva) e poi che le decisioni della Corte Edu (che Scarpinato confonde con la Corte di giustizia Ue) e della Corte costituzionale secondo lui “non sono culturalmente ed eticamente condivisibili”. Scarpinato ha aggiunto che le sentenze delle Corti sono un caso di “decisionismo politico” frutto di una “omologazione al pensiero unico neoliberista oggi dominante”. A parte il merito della ricostruzione di Scarpinato, che è un pochino ridicola (in Italia chi si è battuto contro le storture dell’ergastolo è la cultura garantista di sinistra, altro che neoliberismo), ciò che sorprende è il metodo. Tanti si sono scandalizzati per la vicequestore Schilirò che si è scagliata contro il green pass, ma non è molto differente il comportamento di un magistrato che va a comiziare alla Camera contro le sentenze della Corte Edu e della Consulta, usando banali argomenti veteromarxisti alla stregua di un Fusaro minore. Destano scandalo i politici che parlano di “toghe rosse”, ma evidentemente è normale che un magistrato dica che le Corti supreme sono asservite al “neoliberismo”.
La lettura ideologica delle sentenze è emersa, un paio di giorni dopo, il 2 ottobre, in un convegno in cui il segretario di Magistratura democratica Stefano Musolino ha, di fatto, contestato la condanna di Mimmo Lucano: la pena è troppo elevata, come dimostrano le “reazioni dell’opinione pubblica” alla sentenza e “finisce per condannare un modello di accoglienza”. E la difesa dei giudici da parte dell’Anm, secondo Musolino, mostra una magistratura “che non si interroga sugli inevitabili effetti sociali dei suoi provvedimenti e, perciò, non ne tollera le critiche”. Ferma restando la presunzione d’innocenza per Lucano, ciò che sconcerta è quest’idea dei giudici che quando analizzano un caso debbano perseguire generici “effetti sociali” e preoccuparsi delle “reazioni” dell’opinione pubblica. E’ l’anticamera di una giustizia politicizzata che subordina le garanzie individuali e il diritto a un giusto processo, anche per Mimmo Lucano, alle “reazioni” dell’opinione pubblica e al perseguimento di generici “effetti sociali”.