La strategia dello sputtanamento
L'infinita caccia della giustizia a Berlusconi
La procura di Firenze cerca (ancora) il legame tra il Cav. e la stagione degli attentati
Ci ha provato Ilda Boccassini, Ilda la Rossa, dalla sua stanza numero trenta, nel cuore avvampato della procura di Milano. Ci hanno provato i coraggiosi magistrati di Palermo: da Gian Carlo Caselli ad Antonio Ingroia, fino a Nino Di Matteo, l’eroe della Trattativa. Ci ha provato per quattro volte la procura di Caltanissetta, titolare delle indagini sulle stragi del 1992, quella di Capaci e quella di via D’Amelio, dove furono trucidati i giudici Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Per identificare mandanti ed esecutori di quegli attentati sono stati anche celebrati otto processi in primo grado e otto davanti alle corti d’appello. Ma le falangi di procuratori, investigatori e inquisitori hanno dovuto arrendersi all’evidenza e passare, malgré tout, alla conseguente archiviazione. Ci hanno provato, eccome. Alla fine però Silvio Berlusconi ne è uscito pulito, incontaminato, libero e potente come prima, più di prima. Lui, con le stragi di mafia, non ha avuto nulla a che vedere e nulla a che spartire.
La strategia dello sputtanamento – una mascariata non si nega a nessuno – ha tenuto banco per oltre vent’anni e ha accompagnato ossessivamente Berlusconi durante tutta la sua parabola politica. Per averne una conferma basta gettare uno sguardo sulle carte degli uffici giudiziari ma anche e soprattutto sulle pagine dei giornali e sui talk-show, soprattutto quelli imbastiti negli anni in cui il “Caimano”, così lo chiamavano, ha vinto le elezioni e si è legittimamente insediato al governo del paese. Ma ieri, quando la persecuzione sembrava una robaccia già ammuffita e dimenticata, ecco che il libro nero dei sospetti è stato improvvisamente riaperto dalla procura di Firenze, che dal 1993 indaga sulla strage dei Georgofili e, per estensione, anche sugli attentati di quell’anno a Roma e Milano; attentati che i boss di Cosa nostra avrebbero ordinato per ricattare lo stato, per spingere le istituzioni a un patto scellerato e piegare il governo e alle loro richieste, ai loro loschi affari.
Per dodici anni attorno a questa ipotesi ci ha girato quella “boiata pazzesca” della Trattativa tra lo stato e la mafia; un processo mastodontico nel quale, manco a dirlo, figurava tra gli imputati di spicco Marcello Dell’Utri, che fu mente e spalla del Cavaliere nella fondazione di Forza Italia. Magistrati di spiccata fantasia e di forte impegno politico – volevano riscrivere la storia d’Italia – hanno esplorato tutti i sentieri sotterranei: dalle trame oscure alle regie occulte, dai servizi deviati alle indicibili complicità. Hanno scandagliato i sottoscala di Palazzo Chigi e anche quelli del Quirinale. Non c’è stata stanza del potere dove non abbiano messo una cimice e non c’è stata utenza telefonica che non sia stata intercettata, persino quella di Giorgio Napolitano, presidente della Repubblica. Ma alla fine della lunga e interminabile giostra, una Corte d’assise d’appello e anche una sezione della Suprema Corte di cassazione hanno sentenziato che la Trattativa inventata da Antonio Ingroia e sostenuta in aula con zelante ardore da Nino Di Matteo era semplicemente un teorema. Un’ipotesi campata in aria. Una boiata pazzesca, appunto.
Chiunque si sarebbe arreso. Ma non la procura di Firenze che, in tema di mafia e antimafia, si avvale dell’esperienza dell’“aggiunto” Luca Tescaroli; un magistrato che, manco a dirlo, si è formato a Caltanissetta, ha avuto tra le mani i dossier sulle stragi di Palermo ed è arrivato nel capoluogo toscano con convinzioni che non si discostano molto da quelle che hanno guidato i pubblici ministeri della Trattativa: lo dimostrano i suoi tanti articoli pubblicati sul Fatto quotidiano, il giornale diretto da Marco Travaglio.
La procura fiorentina, che fa capo a Giuseppe Creazzo, ha ordinato ieri una fitta serie di perquisizioni a Palermo, Roma e Rovigo nei confronti di famigliari e presunti fiancheggiatori dei fratelli Giuseppe e Filippo Graviano, i boss del quartiere palermitano di Brancaccio, già all’ergastolo per le stragi del 1992 a Palermo, che Firenze ora vorrebbe mandare di nuovo a processo per gli attentati del ’93, a cominciare, appunto, dalle bombe ai Georgofili. L’obiettivo è quello di trovare prove e riscontri alle dichiarazioni rese due anni fa da Giuseppe Graviano durante il processo alla “’ndrangheta stragista”, celebrato davanti alla Corte di assise di Reggio Calabria. In una delle udienze, il capo mandamento di Brancaccio lasciò intravedere la possibilità di un suo pentimento. Con la sublime arte dei mafiosi – quella del dire e del non dire – accennò vagamente a tradimenti e a promesse non mantenute; e subito dopo accusò Silvio Berlusconi di avere concluso affari con suo nonno, ricco costruttore palermitano, il quale avrebbe consegnato all’ex premier venti miliardi di lire, tutti cash, per investirli nel campo immobiliare. Il boss avrebbe anche rivelato che di quelle transazioni esisterebbe una scrittura privata, rimasta nelle mani di un suo cugino. Ma l’avvocato Niccolò Ghedini, legale del Cavaliere, ha più volte definito le dichiarazioni di Graviano “prive di fondamento”. Riusciranno i coraggiosi magistrati di Firenze a trovare un filo che colleghi Arcore con Brancaccio e poi un elemento di congiunzione tra gli affari di Berlusconi e la sanguinaria stagione degli attentati? La strada sembra in salita. E anche scivolosa: chiunque, tra quelli sotto tiro, avrebbe avuto tutto il tempo – il presunto affare risalirebbe a una cinquantina di anni fa – di distruggere prove, indizi e documenti. E allora?
Il Cavaliere e Marcello Dell’Utri, assolto il mese scorso a Palermo dov’era imputato, come si è detto, per la Trattativa, hanno ricevuto mesi fa da Firenze un avviso di garanzia per le stragi: altra accusa, altro giro, altra corsa. Ma non si sono preoccupati più di tanto: sanno che il barile dei sospetti è stato raschiato fino in fondo. Sono ormai immunizzati: hanno scoperto sulla propria pelle che c’è una giustizia giusta e una giustizia ingiusta, che ci sono le toghe indipendenti e le toghe politicizzate, che ci sono le perquisizioni necessarie e quelle a orologeria. Più che una giustizia sembra una roulette russa. Che a volte colpisce e uccide, ma spesso spara a salve.