Il momento più buio
Leggere Sciascia in procura. Un atto di autocoscienza per la giustizia in crisi
Le diagnosi profetiche dello scrittore siciliano, il confronto con Kafka. Un libro tra letteratura e diritto e un impegno per i futuri magistrati
Che tra letteratura e diritto vi sia parentela o contiguità, è risaputo. Ne costituisce ennesima conferma – tra l’altro – l’interesse che il mondo dei giuristi (latamente intesi) ha rivolto alle opere di Leonardo Sciascia in occasione delle ancora recenti celebrazioni per il centenario della nascita dello scrittore di Racalmuto. Alludo al ciclo di conferenze promosse dall’Unione Camere penali in diverse città italiane, nonché alla pubblicazione di articoli e persino di qualche libro su diritto e giustizia in Sciascia ad opera o a cura di appartenenti a vario titolo all’universo delle professioni legali. Questa rilettura nell’ottica dei professionisti del diritto, che certo si spiega con la centralità che il tema della giustizia (nel senso sia di giustizia sociale, sia di amministrazione della giustizia nei tribunali) occupa nella produzione sciasciana, mi sembra interessante e opportuna per un motivo aggiuntivo forse intuibile: inclino cioè a interpretarla come sintomo di un bisogno di fare autocoscienza, di un’esigenza di autoanalisi e riflessione sollecitati dalla accresciuta consapevolezza della condizione di crisi in cui non da ora versa il pianeta-giustizia. Crisi, più di recente, aggravata dalla perdita di credibilità e dalla forte delegittimazione dell’intero ordine giudiziario prodotte dalla scandalosa vicenda Palamara, spia di un più generale fenomeno di ulteriore degenerazione correntizia e di poco trasparenti liaisons dangereuses tra potere giudiziario e potere politico.
Invero già alcuni decenni fa Sciascia era riuscito a diagnosticare, come emerge dagli interventi giornalistici degli anni 1979-1988 poi raccolti nel libro A futura memoria (se la memoria ha un futuro) riedito di recente da Adelphi, non poche delle gravi patologie che affliggono l’amministrazione della giustizia nel nostro paese. Ma, al di là di questa anticipata diagnosi di mali che si sarebbero cronicizzati o aggravati nel corso degli anni, dobbiamo allo scrittore siciliano lucide e tormentate riflessioni-provocazioni sulla funzione stessa del giudicare, e su alcuni suoi possibili risvolti insidiosi e inquietanti (per il rischio incombente che la macchina giudiziaria degradi a terrificante meccanismo repressivo che stritola i malcapitati che cadono nei suoi ingranaggi o per la tentazione storicamente ricorrente di piegarla a strumento di potere asservito a scopi politici) che almeno in parte prescindono dalle forme specifiche e dai contesti concreti in cui l’attività giudiziaria si manifesta, e che non a caso troviamo sparse nella maggior parte delle sue opere letterarie o di taglio letterario-saggistico. Appunto a queste riflessioni-provocazioni a carattere – per così dire – più universale rivolgono l’attenzione critica i tre (ex) magistrati di Cassazione e i cinque professori di diritto autori dei i saggi contenuti nel libro Diritto Verità Giustizia (Cacucci Editore, 2021),concepito come omaggio a Leonardo Sciascia e ispirato – come scrivono i curatori Luigi Cavallaro e Roberto Conti nell’introduzione – al seguente ambizioso proposito: promuovere “una riflessione a più voci che provi finalmente a prendere sul serio gli interrogativi sul diritto, sulla verità e sulla giustizia che attraversano l’opera tutta di Leonardo Sciascia”.
Non potendo per ragioni di spazio dare dettagliatamente conto del contenuto di ciascun saggio, mi limito a segnalare i contributi e gli spunti di analisi che considero più rilevanti o suggestivi (scusandomi in anticipo per l’inevitabile soggettività e parzialità della mia angolazione visuale). L’intervento di più ampio respiro, anche per la ricchezza di suggestioni che contiene, è quello di Nicolò Lipari, il quale premette alcune considerazioni generali sull’affinità epistemologica tra letteratura e diritto derivante – a suo giudizio – innanzitutto dal fatto che l’una e l’altro si affidano al linguaggio per strutturare una realtà amorfa e non verbale. Dopo aver sottolineato che il fenomeno giuridico non si esaurisce in un panorama legislativo e giurisprudenziale, affondando esso le radici in un complessivo ambiente culturale, l’autore giunge a sostenere che le opere di letteratura “non si limitano a raccontare il diritto, ma semmai concorrono a formarlo”, specie se di quest’ultimo si abbia una concezione non strettamente formalistica bensì aperta alla realtà degli interessi, alla sfera dei valori e al mondo dell’esperienza. Specificando poi il discorso con riferimento alle opere di Sciascia (in particolare, il romanzo Todo modo, ma con richiami anche di altre opere narrative), Lipari propone una complessa linea interpretativa del seguente tenore. Cioè Sciascia, diagnosticando pessimisticamente l’impossibilità per le strutture giuridiche tradizionali (subalterne ai dettami del potere politico di turno) di soddisfare le aspettative di giustizia emergenti dal basso, è come se avesse in certo senso avuto l’intuizione precorritrice di un modo di concepire il diritto più conforme alla sensibilità culturale odierna: vale a dire, una concezione basata sulla convinzione che il diritto, così come interpretato e applicato alla luce del costituzionalismo contemporaneo, possa anche trasformarsi “da strumento del potere a mezzo per il conseguimento di un risultato di giustizia”. Si tratta di una interpretazione forzata del pensiero sciasciano? Forse sì. Una cosa mi sembra fuori discussione, comunque: il tendenziale pessimismo di Sciascia sulla possibilità concreta di ricongiungere diritto e giustizia con la “g” maiuscola non esclude, bensì (ossimoricamente!) sollecita una continua tensione etico-politica in vista dell’obiettivo di tentare di ravvicinare il più possibile l’uno e l’altra.
Considerazioni anche di ordine letterario, non prive di originalità, sono altresì sviluppate da Giovanni Mammone nel porre a inconsueto confronto Sciascia e Kafka (assumendo a oggetto di analisi, soprattutto, Il contesto, opera “parodistica” nella quale si legge il celeberrimo dialogo – paradossale quanto inquietante – tra il presidente della Corte suprema Riches e l’ispettore Rogas). Dal canto suo, Mammone spiega che la tentazione di questo confronto deriva – tra l’altro – dall’atteggiamento critico che i due scrittori assumono nei confronti della giustizia-istituzione, per cui l’analisi delle rispettive connessioni narrative tende a “verificare in che limiti le loro inquietudini e paure siano condizionate sul piano esistenziale dall’immagine che di sé dà la giustizia”. Ciò premesso, la conclusione cui l’ex alto magistrato di cassazione perviene sembra riassumibile all’incirca così: mentre Kafka rappresenta la dinamica giudiziaria come “un incomprensibile formalismo autoreferenziale” e vive la legge “dentro un orizzonte di interiorizzata e trasognata realtà”, Sciascia “verifica nel concreto fino a che punto quella ‘legge’ effettivamente costituisce la guida delle istituzioni, non nascondendo di fronte a questa osservazione il proprio ostentato scetticismo”.
Che dire di questo esito del tentato confronto tra lo scrittore racalmutese e lo scrittore praghese? Considerato l’alone di ambiguità e di (più o meno voluta) oscurità che non di rado connota la grande letteratura, distinguere con nettezza tra letture plausibili e letture improbabili è sforzo vano. Raffinata e persuasiva è l’analisi del Giorno della civetta compiuta da Natalino Irti, in cui si mette bene in evidenza come in questo testo affiori un “politeismo giuridico” che rende plurima e frammentata la stessa nozione di “legge”: per cui essa varia nelle diverse prospettive personali del capitano Bellodi, del mafioso Don Mariano, del confidente di polizia e della vedova. E mi sembra, inoltre, azzeccatissima questa notazione finale: “A Sciascia non bisogna chiedere (e non era ufficio suo di grande narratore) una concezione del diritto; ci bastano le inquietudini del suo spirito”.
In altri tre saggi – rispettivamente di Massimo Donini, Davide Galliani e Gabriella Luccioli (aventi ciascuno in particolare ad oggetto Il Consiglio d’Egitto, Morte dell’inquisitore e La strega e il capitano) – l’attenzione viene rivolta alla duplice mostruosità di una pena di morte inflitta con crudeltà e di un processo piegato a una verità precostituita in vista di scopi del tutto incompatibili con l’ideale e il sentimento di giustizia. In proposito, mi piace riportare queste parole conclusive di Massimo Donini: “Nel delitto ci può essere la verità che consentirà di superare la legge. Almeno finché non cambieranno le leggi, e fors’anche dopo, solo il mondo della letteratura e dell’arte ci consente di vedere la luce”.
Qualche accenno, infine, al commento di Porte aperte a firma di Ernesto Lupo, di cui mi preme richiamare la parte in cui si problematizza il rapporto tra processo e legge, sottolineando l’autonomia (quantomeno relativa) – nella scia del pensiero giuridico di Salvatore Satta, richiamato invero dallo stesso Sciascia come epigrafe al romanzo – del primo rispetto alla seconda: autonomia avvertita dal “piccolo giudice” protagonista, che con piena consapevolezza, e dunque con tormento di coscienza, ha ben chiaro che la previsione legislativa della pena capitale (reintrodotta dal regime fascista) non ne comporta una applicazione automatica in sede di giudizio, costituendo la scelta di applicarla pur sempre il risultato di una decisione concreta che chiama in causa la responsabilità anche morale del giudice.
Sottoposti a uno sguardo d’insieme, i contributi contenuti nel libro qui in discussione convergono – ritengo – nel confermare la complessità e le ambiguità del sofferto e inquieto pensiero sciasciano su diritto, verità e giustizia. Complessità e ambiguità che, pur riflettendo un orientamento di fondo pessimistico, non sembrano tuttavia precludere qualche apertura verso prospettive di possibile avvicinamento tra diritto concretamente applicato e diritto “giusto”. E’ per questo che ho avuto occasione, in precedenti interventi, di arrischiare una definizione di Sciascia fondamentalmente analoga a quella che diede di sé stesso Norberto Bobbio, il maggiore giusfilosofo italiano del secondo Novecento: un “illuminista pessimista”.
Si tratti o meno di una assimilazione giustificata, sono a questo punto tentato di concludere con questo interrogativo: non sarebbe il caso di introdurre nei corsi di formazione professionale per giovani magistrati, come possibile antidoto alla ricorrente illusione di una giustizia penale “salvifica”, lo studio obbligatorio di opere (letterarie e scientifiche) che pongono in risalto le difficoltà, i dubbi, i dilemmi, i conflitti, i complessi bilanciamenti, i tormenti di coscienza e i rischi di errore connessi alla funzione di indagare e giudicare persone in carne e ossa?