L'ex infermiera Daniela Poggiali esce dal carcere della Dozza di Bologna dopo l'assoluzione (Photo LaPresse - Massimo Paolone)

Il Foglio weekend

I danni del populismo penale. Casellario dei veleni che hanno intossicato la giustizia

Luciano Violante

Politica, magistrati, giornali: nessuno può dire di non avere colpe o peccati. Così quella italiana è diventata una  società punitiva in cui il diritto ha soppiantato l’etica pubblica

Può accadere di passare 1290 giorni chiusa in una cella con l’accusa di due omicidi, essere condannata prima all’ergastolo, a 30 anni, e poi essere assolta con formula piena. È accaduto a Daniela Poggiali, per i giornali l’infermiera killer. Lorenzo Necci precipitato dal vertice delle ferrovie al carcere di La Spezia, fu sottoposto a più di 40 diverse inchieste e venne sempre assolto; l’ultima volta dopo la sua morte. Antonio Bassolino ha trascorso come imputato circa venti anni della sua vita; poi è stato assolto da tutto. Calogero Mannino ha passato nove mesi in carcere e tredici agli arresti domiciliari con l’accusa di aver gestito la trattativa tra lo stato e la mafia. Assolto definitivamente anche lui con formula piena. Giuseppe Gullotta confessò sotto tortura di essere l’assassino di due carabinieri. Ha passato in carcere 22 anni della sua vita. È stato pienamente assolto nel processo per revisione. La giustizia penale non è solo questo, ma è anche questo. Prendeteli, impiccateli e tutto andrà al suo posto.

 

Una strofa di Eustache Des Champes, poeta medioevale francese, suona così: “Larrons a Dieu, qui faignez divers maux / Trainez soyez a queues de chevaux / Et puis apres panduz a un gibet/Advisez Y, baillis et senechuaux/prenez, pandez et ce sera bien fait” (Mascalzoni sacrileghi che commettete svariati delitti / siate trascinati legati alle code dei cavalli / e dopo appesi ad una forca/ siano avvertiti i balivi e i siniscalchi / prendeteli, impiccateli e tutto andrà al suo posto). La nobiltà difendeva ferocemente la struttura sociale che la privilegiava e perseguitava i miserabili che vivevano di espedienti e di piccoli furti. Alcuni letterati dell’epoca, Des Champs era tra loro, si fecero portatori della paura e della emarginazione nella quale vivevano i più poveri.

Dopo sette secoli, nelle nostre società, sottoposte a un processo di modernizzazione sempre più impetuoso, tutto ciò permane. Resta dominante un diritto penale di origine arcaica fondato sulla minaccia di sofferenze come reazione al delitto e come strategia per l’ordine nella società. L’invasività del diritto penale nella vita collettiva genera autoritarismo e ribellismo. Tutte le indagini penali, anche quelle meno rilevanti, hanno un carattere totalizzante per la loro gravità simbolica: la superiorità infinita del giudicante rispetto al giudicato, un nucleo etico, risalente all’antica confusione tra reato e peccato, il potere di stabilire il confine tra libertà e prigionia, la sacralizzazione delle vittime, che chiedono, a volte in modo spettacolare, una giustizia modellata sulle proprie aspettative. Questa condizione è favorita da alcuni fattori oggettivi e da alcuni processi politici.

 

Primo fattore oggettivo. Le grandi visioni storiche del mondo, quella marxista e quella liberale, non riescono a leggere la complessità contemporanea e la secolarizzazione ha ridotto il peso delle religioni nella individuazione dei valori guida della società. Il giuridico resta, in base alle sue specificità regolatrici, il criterio dominante per la regolazione nella società e nel giuridico è destinato a prevalere il penale che costituisce da sempre la cintura di sicurezza di ogni branca del diritto.

Un secondo fattore oggettivo riguarda la debolezza delle politiche sociali. Nel disegno costituzionale l’ordine nella comunità dovrebbe essere garantito dalle politiche sociali. Le difficoltà di queste politiche, che purtroppo hanno costi immediati e benefici visibili ritardati, fanno crescere il ruolo della minaccia penale nella società. Valga il caso del contrasto alle organizzazioni mafiose. È finito il tempo della impunità per quelle organizzazioni. Esse tuttavia si dimostrano capaci di riprodurre i propri gruppi dirigenti con una rapidità superiore a quella impiegata dalle organizzazioni legali. Evidentemente permangono nella società le condizioni economiche ed educative che permettono il riprodursi di quelle affiliazioni.

Il terzo fattore oggettivo sta nell’abdicazione della politica. La politica è allo stesso tempo soggetto regolante e soggetto regolato. Pone i confini dell’azione della magistratura e assoggetta sé stessa all’azione della magistratura. Nelle democrazie contemporanee ordinamento giuridico e ordinamento politico sono confinanti; pertanto a ogni arretramento dell’uno corrisponde un avanzamento dell’altro. È espressione della sovranità della politica la definizione del confine tra i due ordinamenti. Il Parlamento ha il potere di indicare i confini del giuridico attraverso la definizione delle regole per il funzionamento del paese. I magistrati, applicando quelle regole, limitano il potere politico, dal quale sono indipendenti. La determinazione del confine è un esercizio proprio della sovranità della politica.  Quando la politica non esercita questa funzione, come accade in Italia, con alterne vicende, a partire dai processi di Mani Pulite, il confine scompare, diritto e politica si confondono, il diritto si scioglie in un contenitore di opzioni sostanzialmente politiche tutte egualmente praticabili. Se la politica non riesce a svolgere le proprie funzioni ordinatrici, la legge penale declina perché perde la capacità di esprimere una regola; spesso sancisce solo la vittoria di una ideologia su quella contrapposta.

 

L’abuso del diritto penale rischia di soffocare la vita sociale e di ingessare la società tra sospetti e minacce di una società iperpenalizzata dove scompare la fiducia e regna il sospetto e tutti sono solo potenziali trasgressori. La minaccia del processo inoltre cerca di guadagnare attraverso l’intimidazione quello che la politica dovrebbe acquisire attraverso la capacità di orientare i comportamenti. L’abuso del penale segna, per esprimersi in termini gramsciani, una crisi di egemonia.

Il problema non è solo italiano. La Republique penalisée è il titolo di un libro pubblicato in Francia nel 1996; di abuso della giustizia penale si occupano gli studiosi di lingua tedesca che parlano di Juristenstaat e quelli anglosassoni che ricorrono alla espressione Juristocracy. Ma Italia sono presenti alcune specificità di natura politica. Innanzitutto la quantità delle norme incriminatrici; non siamo in grado di sapere con esattezza quante sono e molte delle quali, comunque approvate con formulazioni vaghe e indeterminate. Sembrano sciatterie ma forse non sempre lo sono. Nei campi più sensibili per l’opinione pubblica, come la corruzione, a esempio, l’ansia di rappresentare le istanze punitive dei cittadini induce le maggioranze parlamentari alla costruzione di ipotesi fortemente indeterminate non per punire, ma per permettere di investigare. Le norme sostanziali indeterminate, intrecciate a quelle processuali, funzionano come “mandati a conoscere”, come autorizzazione a introdursi nella vita dei cittadini e delle imprese, meglio se appartenenti alle élites, che a volte sembrano diventate le nuove “classi pericolose”, come gli oziosi e i vagabondi dei codici dell’Ottocento. I “mandati a conoscere” in un sistema fondato sull’obbligatorietà dell’azione penale diventano strumenti di investigazione illimitata, servono per controllare occhiutamente quelle attività lecite sulle quali grava il permanente sospetto di illecito, dai contratti pubblici alle attività dei partiti.

L’intreccio tra procure della Repubblica e mezzi di comunicazione chiude il cerchio perché attiva i professionisti della “pubblica riprovazione sociale”, sulla carta stampata e sui social, sino al dileggio delle persone coinvolte, anche se del tutto estranee. Si ricordi il caso, vergognoso, di una ministra dello Sviluppo economico, del tutto estranea a un’indagine penale in corso, costretta alle dimissioni per effetto di una clamorosa campagna di stampa fondata sulle intercettazioni di conversazioni con il suo compagno assolutamente private ed estranee alle indagini.

Il “mandato a conoscere” è frutto dell’ideologia del punizionismo. In un primo tempo, a partire dai primissimi anni Novanta, mentre si svolgevano i processi per corruzione, Tangentopoli, si manifestò un entusiasmo punitivo di massa, sollecitato dagli spiriti animali dell’antipolitica: demagogie, populismi, sfiducia pregiudiziale in tutto ciò che è pubblico, beatificazione delle Procure, il processo e la pena come lavacri per l’intera società. La comunicazione tivù, specie quella delle reti commerciali, attivava l’entusiasmo punitivo mostrando gabbie, manette e cortei plaudenti ai pm e alla giustizia penale. La parte colpita da quelle indagini, successivamente, individuò il malessere, ne intravide le conseguenze per l’equilibrio democratico, ma lo combatté con una pratica della propria impunità e della delegittimazione della magistratura che tolse credibilità ai suoi tentativi. Un blocco mediatico, sociale e politico ha eletto la giurisdizione penale come terreno prioritario per il governo del paese. Si è costituita così una “società punitiva” che si avvale di criteri basati essenzialmente sulla centralità della investigazione penale nella vita della nazione. Della società punitiva fanno parte cittadini comuni, mezzi di comunicazione, forze sociali, settori del mondo politico. La società punitiva adora il vitello d’oro del codice penale e pratica il culto del populismo penale.

Il tema è stato affrontato dall’attuale Pontefice in maniera diretta e in diversi incontri con studiosi del diritto penale, in particolare nel 2014 e nel 2019. Parlando della “degenerazione della giustizia penale” nel 2014, il Papa colse il rapporto tra deformazioni della giustizia penale e il populismo. Disse: “La questione è rilevante perché attiene alle radici delle attuali deformazioni della giustizia criminale, tanto nelle aule di giustizia quanto in quelle parlamentari, e riguarda la riflessione sul populismo penale, che investe la società, la politica, i mezzi di comunicazione e l’amministrazione della giustizia”. Il populismo penale è stato favorito dalla sostituzione delle categorie dell’etica pubblica con quelle del diritto penale: ciò che non è penalmente rilevante diventa non rimproverabile. Quando e perché il diritto penale ha soppiantato l’etica pubblica? Nei primi decenni di vita della Repubblica hanno dominato alcune grandi etiche pubbliche collettive, cattolica, comunista, repubblicana, liberale. Si sono scontrate in particolare le prime due: quella comunista, indurita dai principi del centralismo democratico e dalla concezione eroica dell’impegno politico, quella cattolica ammorbidita dalle contingenti esigenze del governo e da una visione tollerante delle umane debolezze. Tuttavia le diverse etiche, pur avverse l’una all’altra, avevano alcuni comuni denominatori: una visione del futuro, la dignità delle istituzioni, la necessità del dialogo tra avversari, l’opportunità del compromesso, il primato del partito e della politica. Ne derivava il primato della Costituzione e il valore delle istituzioni rappresentative. La vitalità dei partiti si proiettava nella sfera dei cittadini e dava sostanza all’etica pubblica. Non mancarono eccezioni, anche rilevanti, a questi principi, ma si trattava appunto di eccezioni, che, proprio per il loro carattere derogatorio, indirettamente confermavano il primato dei principi etici che regolavano la sfera pubblica.

 

Dopo l’assassinio di Aldo Moro comincia la statalizzazione dei partiti; il conseguente allontanamento dai cittadini svuota le comunità politiche che erano il fondamento dei gruppi politici dirigenti. Il partito-comunità, che viveva attraverso la discussione è stato sostituito dal partito-piedistallo che vive di un codice binario. Si dice Sì o si dice No, attraverso una catena caporalizzata di comandi, imitazioni, ripetizioni, obbedienze che partono dall’alto verso il basso. Non è prevista l’analisi. In queste condizioni l’etica non può essere quella della comunità, che si è dissolta, e non può essere quella del leader, perché l’etica di un collettivo non può essere determinata da una sola persona. Nel vuoto delle formazioni produttive di etica pubblica emerge il codice penale come unico depositario dei parametri generali del giusto e dell’ingiusto. La legislazione penale, faticosamente emancipatasi dai condizionamenti etici, diventa paradossalmente essa stessa sostitutiva dei precetti morali, dando un fondamento apparentemente autorevole alla iperpenalizzazione. Alla crescita smodata della giustizia penale ha corrisposto il progressivo spostamento della magistratura dalla periferia al centro del sistema politico costituzionale.

La magistratura ordinaria è il potere che più si è più trasformato nei sessant’anni di vita repubblicana. All’interno della magistratura ordinaria, il pubblico ministero è la figura che si è potenziata oltre ogni possibile previsione dell’Assemblea Costituente. Non è stato solo uno spostamento tecnico. I 21 magistrati uccisi da terrorismo e mafia, le conseguenze politiche delle inchieste sulle corruzioni nei primi anni Novanta, l’interesse nel mondo politico a utilizzare le inchieste penali per la lotta politica e del mondo giornalistico a utilizzarle per finalità scandalistiche hanno consegnato a una parte della magistratura il convincimento di potersi costituire come protettrice permanente della Repubblica e di dover conseguentemente svolgere una missione di pulizia morale del paese. Questo convincimento ha fatto ritenere al magistrato che non dovesse limitarsi ad accertare le eventuali responsabilità, ma dovesse essere titolare di un controllo diffuso di legalità, inteso come verifica preventiva che la legalità non sia stata per caso violata. Ma attribuire al magistrato il controllo di legalità significa trasferire al potere giudiziario la sovranità propria del potere politico. Il controllo della legalità è, secondo i casi, compito della politica, della pubblica amministrazione e della polizia; compito del magistrato invece è l’accertamento delle responsabilità.

In un saggio di qualche anno fa, Problemi attuali della giustizia penale (Jovene editore) due autorevoli processualisti quali Rigano e Grevi fecero l’esempio di un pm che, passando per una strada avverta odori sgradevoli, scorga fumi densi e ricordi di aver letto che proprio in quella zona c’è una diffusione anomala di rumori disturbanti. In questo caso, sostengono i due studiosi, il pm dovrebbe attivarsi personalmente per la ricerca di “eventuali notizie di reato”. Ma la notizia di reato che consente al pm di avviare indagini preliminari a norma degli artt. 330 ss, cpp può essere eventuale o dev’essere necessariamente certa? Se compito dei magistrati fosse il controllo di legalità, l’ipotesi dei due studiosi sarebbe condivisibile. Ma non è così. L’ordinamento assegna al pm incisivi poteri di intervento nei confronti di diritti fondamentali dei cittadini solo in presenza della notizia non palesemente infondata che un reato è stato commesso. Solo un presupposto ben definito, la effettiva, e non eventuale, notizia di reato, può infatti rendere legittimo l’ampio esercizio di poteri restrittivi delle libertà della persona. La Pa, compresa la polizia di sicurezza, potendo effettuare i propri accertamenti anche casualmente, o in presenza di semplici sospetti, ha poteri di intervento assai limitati nei confronti dei diritti fondamentali. L’art. 330 cpp dovrebbe quindi essere interpretato alla luce del principio costituzionale della separazione dei poteri. Alla Pa spetta indagare se le leggi siano state violate. Al pm spetta, dopo aver acquisito la notizia affidabile che una legge penale è stata violata, compiere le indagini necessarie per accertare se la notizia sia fondata e, in caso di risposta positiva, per individuane i responsabili.

Il problema è stato chiarito non per la magistratura ordinaria, ma per la Corte dei Conti dall’art. 17 della legge 102/2009 che con riferimento all’azione per responsabilità esercitabile dalle Procure presso le sezioni regionali della Corte dei Conti, ha precisato che “l’azione è esercitabile dal pubblico ministero contabile, a fronte di una specifica e precisa notizia di danno”. Le caratteristiche richieste alla notizia di danno “specifica e precisa” valgono ad evitare che l’azione di controllo si svolga un modo generico e incontrollato. Se si è sentita l’esigenza di precisare i presupposti per la notitia relativa ai poteri della Procura presso la Corte dei Conti, a maggior ragione questa esigenza dovrebbe essere presente per la magistratura ordinaria.

 

È al complesso della giustizia penale che dobbiamo guardare, e non al diritto penale, perché il cono d’ombra della giustizia penale si proietta su gran parte delle attività nel nostro paese. Ed è la giustizia penale che, in un mondo caratterizzato dal dovere della visibilità, costituisce l’attività pubblica più visibile nel suo svolgimento. L’avviso di garanzia, l’arresto, la conferenza stampa paludata, le foto dei protagonisti, i talk show sul delitto, la pubblicizzazione di documenti e conversazioni private, le lacrime delle vittime, la lettura della sentenza segnano nel loro inesorabile succedersi quotidiano la vittoria della concretezza sull’astrazione, dell’emozione sulla ragione, della stigmatizzazione sul rispetto, di ciò che diventa vicino su ciò che resta irrimediabilmente lontano.

La Costituzione tesse la tela dei diritti fondamentali attorno al rispetto della dignità di “tutti” senza eccezioni, non del solo cittadino. Invece questo sistema, per come si è configurato in via di fatto, non rispetta le persone, non rispetta la loro dignità, non le rispetta quando pubblica loro conversazioni private, quando le fa partorire in carcere, quando i processi si prolungano per 5,7,8 anni per giungere poi all’assoluzione, quando chiude nei Cpr persone che non hanno commesso alcun reato. Questa giustizia penale che considera sospetto l’avvisato, colpevole l’imputato, spregevole il condannato travolge i valori propri della nostra Repubblica.

Magistratura, politica, mezzi di comunicazione sono responsabili, ciascuno per la propria parte. Ci sono stati da parte di singoli magistrati abusi ed errori, C’è certamente la responsabilità dei gruppi di potere nella magistratura che scambiano carriere contro consenso. La magistratura deve emanciparsi dai nemici evidenti e dagli amici apparenti, dagli avversari esterni e dai pericoli interni ed è necessaria quella rigenerazione morale di cui ha parlato il Capo dello Stato. Ma questa istituzione non può diventare il capro espiatorio. Sarebbe sbagliato e distruttivo per l’intero sistema democratico, che non può vivere senza una magistratura, indipendente, capace, autorevole. La magistratura, autonomamente, senza imposizioni esterne, dovrebbe adeguare i propri comportamenti all’art.54 della Costituzione, troppo spesso dimenticato nelle rituali rivendicazioni di indipendenza: “I cittadini cui siano affidate funzioni pubbliche – quindi anche i magistrati –  hanno il dovere di adempierle con disciplina e onore”. Oltre ai diritti, ci sono i doveri, per tutti. Anche per i magistrati.

Anche la demonizzazione della politica può avere effetti distruttivi della democrazia. In assenza della politica resta solo il governo delle armi.  Ma chi svolge funzioni politiche diventi consapevole del carattere fondamentale del suo lavoro, che non consiste nel correre per vincere, ma nel correre per governare. Dal 2000 al 2020 abbiamo avuto undici crisi di governo, 25 elezioni, regionali, politiche ed europee, sei referendum abrogativi e quattro referendum costituzionali. Le forze politiche hanno dovuto scontrarsi per ben trentacinque volte, in media ogni cinque mesi. E’ mancato il tempo umano per riflettere e ricostruire per pensare e persino per governare. Il presidente Draghi ha detto il 6 ottobre scorso: “Il governo non segue il calendario elettorale”. E’ vero; il suo governo può farlo. I governi politici invece non possono prescindere dal calendario elettorale. Forse occorre proporsi il tema dell’accorpamento delle scadenze elettorali, perché la politica possa guadagnare il tempo dello studio e della riflessione. Non meno essenziale per la democrazia è la libertà di comunicazione. I punti deboli di politica, magistratura e mezzi di comunicazione sono gli stessi: nessuno dei tre rispetta pienamente la dignità delle persone.  Questo è il tema da cui bisogna partire.

Il Parlamento e il governo sembrano oggi aprire nuove strade. La legge delega per la riforma del processo penale e il decreto legislativo sulla presunzione di innocenza contengono molti principi ispirati al rispetto delle persone. Non mancano i problemi che potranno porsi nell’applicazione concreta di queste norme, anche per il mutamento professionale che le nuove norme comportano tanto per i magistrati quanto per gli avvocati i giornalisti. Potrebbero poi verificarsi alcun i paradossi: una persona coinvolta in un processo, ma non indagata né imputata, potrebbe avere una tutela minore rispetto a chi sia stato condannato in primo e secondo grado. C’è ancora tutta la possibilità di evitare contraddizioni imbarazzanti. Negli ultimi 3 anni ci sono state ogni anno 125 mila assoluzioni in primo grado e circa 14 mila in secondo grado, su una media di 440 mila processi. Ci aggiriamo intorno al 35 per cento di assoluzioni. Queste cifre indicano da un lato l’esistenza di un sistema fatto di garanzie che permette agli innocenti di essere assolti, dall’altro lato dimostrano anche che troppe volte, in alcuni uffici più di altri, si esercita l’azione penale senza un vaglio critico dell’effettiva possibilità di trovare riscontri nel dibattimento.

La riforma spinge a superare il criterio della utilità solo eventuale del dibattimento e a legittimarne l’instaurazione solo quando gli elementi raccolti nel corso delle indagini preliminari consentono una ragionevole previsione di condanna. È prevista, inoltre, la non punibilità per tenuità del fatto e per esito positivo della messa alla prova, istituti questi mutuati dalla giustizia penale minorile. È ampliato l’ambito di applicazione delle sanzioni sostitutive di pene detentive brevi (sino a 4 anni di pena inflitta), irrogate direttamente dal giudice di cognizione, senza la necessità del passaggio in carcere. La riforma include anche disposizioni per il rafforzamento degli istituti di tutela della vittima del reato e per l’introduzione di una disciplina organica sulla giustizia riparativa. Il governo, inoltre, ha presentato uno schema di decreto legislativo per l’adeguamento della normativa nazionale alla direttiva Ue  2016/343 sul rafforzamento di alcuni aspetti della presunzione di innocenza. Tre principi interessano particolarmente in questa sede.

È vietato alle autorità pubbliche di indicare pubblicamente come colpevole la persona sottoposta a indagini o l’imputato fino a quando la colpevolezza non sia stata accertata con sentenza o decreto penale di condanna irrevocabili. La diffusione di informazioni sui procedimenti penali è consentita solo quando è strettamente necessaria per la prosecuzione delle indagini o ricorrono altre rilevanti ragioni di interesse pubblico. La persona sottoposta a indagini e l’imputato hanno diritto a non essere indicati come colpevoli fino a quando la colpevolezza non sia stata definitivamente accertata. Nei comunicati e nelle conferenze stampa è fatto divieto di assegnare ai procedimenti pendenti denominazioni lesive della presunzione di innocenza.

 

Anche i giuristi devono interrogarsi sulle proprie responsabilità. Sono quelli che, mutuando uno studio di Massimo Donini, possono definirsi “giuristi che non decidono”, diversi dai magistrati o dagli avvocati stretti nel viluppo delle decisioni e delle scadenze. I giuristi che non decidono alimentano la scienza giuridica e svolgono la propria funzione  insegnando, spiegando, studiando, ricostruendo. Non possono ridursi a spettatori critici delle acrobazie della legge. E tuttavia non è semplice per la ragion giuridica dialogare con la ragion politica. Dagli anni Ottanta del secolo scorso tutto quanto è accaduto ha contribuito a far sì che il processo di produzione delle regole, nazionale, regionale europeo, parlamentare, costituzionale, giurisprudenziale, diventasse sempre più veloce e sommario all’inseguimento della realtà senza pause di riflessione. Ciò che appariva urgente ha spesso prevalso su ciò che era necessario. Non raramente hanno predominato pensieri privi di idee.

Proprio questa aporia deve spingere i “giuristi che non decidono” a svolgere un ruolo. La scienza giuridica non può ridursi a esegesi. Piuttosto deve costruire il sistema, ricomporre i frammenti e uscire dai labirinti. Può farlo solo lei. Il diritto penale della Costituzione prevede il rispetto della persona che entra nel processo, l’attenzione per il principio di ragionevolezza, la garanzia della prevedibilità delle conseguenze giuridiche del proprio operato, la disintossicazione dell’ordinamento dall’eccesso di sanzioni. Sono i cardini di un sistema penale costituzionalmente corretto e fondano la legittimazione dell’ordinamento. La irrinunciabilità di questi principi chiama la cultura giuridica a esercitare un proprio ruolo nel dibattito pubblico, contribuendo al consolidamento dei valori costituzionali come regole di civiltà.

Forse oggi uno dei compiti della scienza giuridica è favorire il passaggio dalla giustizia penale del nemico alla giustizia penale del cittadino. È quello che alla fin dei conti ci chiede la Costituzione.

 

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