L'Italia tra miseria e nobiltà
Stato debole, società litigiosa, governi effimeri: segni di una nazione mancata, dice l’Antitaliano. Una lunga storia di divisioni, eppure il paese appare più unito di tanti altri, ribatte l’Italiano. Un dialogo
Lo Stato italiano è debole perché la società è divisa, litigiosa, incapace di selezionare una classe dirigente, oppure i due fenomeni, quello di una statalità poco sviluppata e quello di una società debole, sono indipendenti l’uno dall’altro? Fabio Cusin, uno storico triestino, in un libro poco conosciuto, scritto nel 1943-1944 e pubblicato nel 1948 (Antistoria d’Italia. Una demistificazione della storia ufficiale. Un’Italia sotto luce diversa, ora Milano, Mondadori, 2001), metteva il dito sul deficit politico e democratico nella storia italiana, imputato principalmente al fascismo. Per Cusin bisognava indagare la mentalità italiana, la struttura oligarchica della società, la forma di Stato giacobino-monarchico di tipo bonapartista, la società chiusa e antiriformistica. Più tardi, nel 2001, in un libro scritto per il pubblico francese e tradotto in italiano per i tipi di Laterza, intitolato Ritratto dell’Italia attuale (Roma - Bari, Laterza, 2001), gli “imputati” erano uno Stato onnipotente e introvabile, ampio e immobile; una tradizione statalista, ma con uno Stato debole; corpi intermedi fragili; ritardo nella formazione nazionale; un posto secondario riservato ai cittadini; governi effimeri; un’amministrazione porosa e catturata dall’economia, l’“insigne faiblesse” di Fernand Braudel. Nel corso della storia, si sono opposti due punti di vista, di cui ora registreremo gli argomenti, quello dell’italiano e quello dell’antitaliano.
Antitaliano. Ascoltiamo la voce di due storici della scuola napoletana sulla debolezza dello Stato. “Nata da un’invenzione estemporanea e da uno spirito ammirevole ma velleitario […] piuttosto che da una lunga, ponderata e corale gestazione, l’Italia è arrivata all’età (presuntivamente) di ragione sapendo appena reggersi in piedi. Quella che chiamiamo con troppa disinvoltura società italiana – in realtà non ancora una società nel senso pieno, quanto piuttosto un’agglomerazione comunitaria – nel suo complesso continua a mostrare atteggiamenti infantili e primitivi” (Sonia Scognamiglio, “I veri sogni bisogna realizzarli”. Raffaele Aiello e le origini storiche e psicosociali della mentalità antistatuale italiana, in F. Di Donato (a cura di), Il diritto utile. Teorie e storiografie del dissenso in una vita per la critica, Napoli, Editoriale scientifica, 2019, p. 514-516). Nello stesso senso, si è espresso un altro storico, Francesco Di Donato, il quale ha scritto: “Se lo Stato non ha forza è proprio perché alla base vi è un agglomerato sociale che, non essendo mai stato plasmato dall’entità statuale, non è mai divenuto una vera e propria società; in altri termini, è l’assenza di una vera e propria socialitas […] a determinare l’assenza dello Stato (F. Di Donato, 1789 9871. Statualità civiltà libertà. Scritti di storia costituzionale, Napoli, Editoriale scientifica, 2021, p. 25, nota 30).
Italiano. La critica dell’atteggiamento critico sul mancato sviluppo del nostro paese era già contenuta in poche righe ironiche scritte da Gilles Ceron nel quotidiano francese Le Monde del 6 maggio 1978 che, tradotte in italiano, suonavano così: “Roma, fine aprile 2021. A causa dei tragici avvenimenti che si succedono, il settantacinquesimo anniversario della Repubblica italiana è stato celebrato in maniera molto sobria. Si ricorda che gli italiani non hanno mai avuto il senso dello Stato, a causa dello loro lunga storia di invasioni e di frammentazioni e che in questo clima di fatiscenza delle istituzioni i giorni della Repubblica italiana sono contati. In questa occasione, il presidente della Repubblica italiana ha ricevuto numerosi messaggi di simpatia, in particolare quelli del primo ministro della XVII Repubblica francese, dei presidenti della California e del Wyoming e di 40 altre repubbliche dell’America del nord, dei re di Murcia e di Galles e del granduca di Schleswig-Holstein”.
Antitaliano. Le tare dello Stato italiano non riguardano soltanto la mancata componente vocazionale, l’assenza di senso dello Stato, riguardano anche altri aspetti e risalgono all’inizio, addirittura all’artefice dell’unità. L’architetto è mancato quando si erano appena poste le fondamenta dello Stato. Cavour è morto l’anno stesso dell’unità d’Italia. Per fare paragoni, bisogna considerare che i tre grandi costruttori di unità statali in Europa, Gladstone, Cavour e Bismarck erano nati negli stessi anni, il primo nel 1809, il secondo nel 1810, il terzo nel 1815. Ora, mentre Cavour è morto cinquantunenne nel 1861, gli altri due sono morti quasi quarant’anni dopo. In questi quarant’anni Gladstone è stato ancora per alcuni anni cancelliere dello scacchiere e primo ministro per 14 anni, anche se non continuativi, tra il 1868 e il 1894, mentre Bismarck tra il 1861 e il 1871 è stato primo ministro prussiano e, a partire dall’unità germanica, nel 1871, è stato fino al 1890 cancelliere imperiale. Sparito l’artefice, l’Italia ha avuto un quadro di comando precario. Basta ricordare il numero dei governi nel Regno d’Italia, prima del fascismo, e nella Repubblica italiana, dopo la Seconda guerra mondiale. Dal 1861 al 1922, per 61 anni, vi sono stati 58 diversi governi. Dal 1948 al 2021, per 73 anni, vi sono stati 67 diversi governi (se si prendono gli anni dalla caduta del fascismo, dal 1943 al 2021, in 78 anni vi sono stati 73 diversi governi). All’Italia si può applicare la diagnosi di Giuseppe di Palma, che scrisse nel 1977 un libro, pubblicato dalla California University Press intitolato Surviving without governing.
Italiano. È vero che l’unità d’Italia è arrivata in ritardo, ma è vero anche che l’aspirazione all’unità ha avuto una lunga storia. Basta ricordare l’espressione dantesca nel sesto canto del Purgatorio “Ahi serva Italia di dolore ostello”.
Antitaliano. L’Italia non nasce solo senza un artefice, ma anche senza una capitale. Si è mai visto un fenomeno simile, di una nazione che nasca con capitali provvisorie, prima Torino, poi Firenze? Le nazioni sono costruzioni nate intorno a città, come Parigi o Londra, o si sono presto date, sul proprio territorio, una città capitale, come Washington e Ottawa. In un bel libro del 1974, intitolato Géographie de l’administration. L’impact du pouvoir exécutif dans les capitales nationales (Paris, Librairies techniques), Michel - Jean Bertrand spiegava che le città capitali si sono costituite intorno agli organi fondamentali dello Stato, la città proibita a Pechino, il Cremlino a Mosca, l’asse Palais Royal-Arc de Triomphe a Parigi, Westminster a Londra. Roma è diventata la capitale italiana solo dopo dieci anni dall’unità, dopo la conquista di un territorio straniero, quello dello Stato pontificio, ed è una città statale senza statalità. Quintino Sella progettò la capitale come una città organizzata per servire la nazione, Giolitti come una città per servire gli impiegati. Questo è il segno di una flessione importante: non gli impiegati in funzione degli utenti, ma la nazione al servizio degli impiegati.
Italiano. Questa critica relativa alla capitale sottovaluta il fatto che Torino, per lungo tempo prima dell’unità, rappresentò un punto di riferimento per tutta la nazione: basta pensare al numero degli immigrati meridionali. E sottovaluta il fatto che Roma rappresentò un centro ideale per secoli.
Antitaliano. All’assenza di capitale va aggiunta la difficoltà di governare un paese di circa un quarto o un terzo più lungo di Francia, Regno Unito e Germania. Ricordo quello che scriveva Corrado Alvaro nel volume Il nostro tempo e la speranza. Saggi di vita contemporanea, Milano, Bompiani, 1952 p. 166: “Il nostro è veramente un paese troppo lungo, in cui i fatti storici si manifestano in modi diversi e spesso opposti”. L’argomento verrà ripreso da Giorgio Ruffolo in un libro del 2009 intitolato Un paese troppo lungo. L’unità nazionale in pericolo (Torino, Einaudi). In questo paese troppo lungo si sono sviluppati e sono stati tollerati diversi divari: ad esempio, il Sud è stato tiepido rispetto al fascismo, nel Sud non vi fu guerra civile, il Sud è rimasto sempre indietro nello sviluppo economico.
Italiano. Ma alcune assenze sono stati fattori positivi nella storia d’Italia. In molti paesi europei ciò che ha funzionato da catalizzatore dell’unità sono state lunghe contrapposizioni, come quella che ha visto su fronti opposti Francia e Inghilterra; oppure processi interni di allargamento del potere, come quello che si è realizzato in Francia intorno alla casata di Parigi, che ha assunto le caratteristiche di re della nazione; oppure fattori di unificazione culturale come quello notato da Ernest Renan, secondo cui una nazione è un’anima, un principio spirituale. L’assenza di guerre, l’assenza di centralizzazione, la presenza di pluralismo culturale sono stati benèfici in Italia.
Antitaliano. L’Italia ha sempre nutrito al proprio interno il malcontento, un malessere che però non si è mai trasformato in azione collettiva. Subito dopo l’unità c’è stato il brigantaggio. Subito dopo la Seconda guerra mondiale, c’è stato il separatismo. Per non parlare del ribellismo endemico di cui l’ultima manifestazione sono i diversi populismi. A questo si aggiungono i tanti dualismi della storia italiana. Persino nell’esercito e nelle forze dell’ordine non è stato chiaro chi comandasse: abbiamo avuto un esercito regolare, un esercito di volontari e la guardia nazionale; l’esercito è stato presto utilizzato per funzioni di ordine pubblico. Più tardi, durante il fascismo, abbiamo avuto la Milizia volontaria per la sicurezza nazionale. Quasi sempre si è fatto ricorso a emergenze, stati di eccezione. Questi sono i segni di una nazione mancata (riprendo l’espressione di Paolo Bagnoli, La nazione mancata. Un profilo storico-politico: fatti, uomini, idee. 1861-1899, Milano, Biblion, 2021). Sono anche queste divisioni interne che hanno fatto scrivere il 26 giugno 1920 a Turati il famoso discorso Rifare l’Italia (un programma che non abbiamo mai realizzato) e più tardi, il 15 maggio 1977, in un articolo per La Stampa, a Norberto Bobbio che “il pessimismo oggi è […] un dovere civico”, perché “soltanto un pessimismo radicale della ragione può destare qualche fremito in coloro che […] mostrano di non accorgersi che il sonno della ragione genera mostri”.
Italiano. Nonostante tutta questa storia di divisioni, l’Italia appare più unita di tanti altri paesi, salvo brevi parentesi, quali il separatismo siciliano e le tentazioni separatiste del primo movimento federalista. Invece, la Spagna è divisa dalla Catalogna e dai Paesi Bassi, nel Regno unito vi sono tendenze separatiste di Irlanda, Scozia e Galles.
Antitaliano. Riprendo il tema della classe dirigente: l’Italia non è mai riuscita ad avere un vivaio per la formazione di una vera e propria classe dirigente, corrispondente all’“establishment” britannico e al ruolo svolto dalle due grandi università inglesi, Oxford e Cambridge, né ha avuto la tradizione francese, che comincia nel ’600 e arriva fino al 1946, con De Gaulle, delle “grandes écoles et grands corps”. Il personale al vertice, sia politico sia amministrativo, è arrivato senza vere e proprie selezioni, talora per familismo, talaltra per clientelismo.
Italiano. Questa assenza di classe dirigente ha però avuto i suoi aspetti positivi: vi è stata una maggiore permeabilità; ha consentito l’accesso al vertice di “homines novi”.
Antitaliano. Anche le forme e i tempi della storia statale italiana sono stati singolari. Vi è stata incapacità nell’invenzione di forme nuove. Basta pensare che, nonostante l’introduzione di nuove fonti di energia, vige ancora il testo unico sulle acque e gli impianti elettrici del 1933, che sopravvive alla nazionalizzazione elettrica, alla privatizzazione e alla regionalizzazione. In secondo luogo, l’Italia è il paese dove l’eccezione diventa la regola. In terzo luogo, come osservava Machiavelli nei “Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio”, le istituzioni “hanno il moto tardo”. Infine, la cultura organizzativa diffusa non si è giovata della cultura militare e di quella industriale, con le loro idee di piano, di strategia, di organizzazione, di gerarchia, di sequenza, di calcolo dei tempi. Tutto questo si è potuto toccare con mano quando il paese è stato messo alla prova, per esempio durante la pandemia. Il Servizio sanitario si è dimostrato nazionale solo sulla carta, per assenza degli anelli di congiunzione tra centro e periferia. Il fatto che un generale dell’esercito sia stato chiamato a fare da collante del Servizio sanitario nazionale per la vaccinazione è un voto pessimo per il Servizio stesso. I terminali operativi, collocati nelle regioni, si sono rivelati impreparati. Si è notato il danno che la politica ha fatto inserendosi nell’amministrazione della sanità. Si è fatto ricorso alla disciplina della protezione civile, invece che a quella delle epidemie.
Italiano. Ma questo non ha impedito all’Italia di reagire meglio di altri paesi.
Antitaliano. Se successi vi sono stati, è stato per merito della capacità di improvvisare. Al fondo, rimane il distacco tra società civile e Stato, come dimostrato dalla partecipazione politica declinante, sia in termini di elettori, sia in termini di iscritti ai partiti; dalla incertezza sulla formula elettorale (abbiamo avuto quattro leggi dal 1994: la legge Mattarella; quella Calderoli del 2005; la legge Renzi del 2016 mai applicata; nel 2017 la vigente legge Rosato); dal multipartitismo con partiti in declino (non sono più organizzazioni di massa, non operano come tramite tra il paese reale e il paese legale, non sono più finanziati dallo Stato e godono di modesti finanziamenti privati attraverso il “due per mille,” fanno politica gladiatoria, mentre dietro le quinte agiscono gli interessi particolari).
Italiano. Queste carenze sono compensate da una società civile e da un’opinione pubblica vivaci. Delle circa 10 mila “lobbies” presenti nel Parlamento europeo, 700 hanno la sede in Italia. I registri dei gruppi di interesse comprendono diverse centinaia di “lobbies”. Bisogna aggiungere circa 200 organizzazioni non governative e le onlus non lucrative che sono molto numerose. Non ultimo aspetto importante della forza del sistema politico-sociale è quello costituito dal fatto che l’Italia è uno dei pochi paesi che periodicamente fa ricorso a persone estranee alle forze politiche, come Ciampi, Dini, Monti, Conte, Draghi. Infine, c’è la riserva della Corte costituzionale, organo di correzione, che ha operato, sia pure lentamente, la cesura rispetto all’ordinamento fascista e ha avuto il coraggio di prendere decisioni che la classe politica non era preparata a prendere.
Antitaliano. Le debolezze dello Stato si riscontrano anche nel Parlamento. La qualità dei parlamentari è andata diminuendo. Il numero delle leggi è anch’esso andato diminuendo. Le norme sono ai limiti della comprensibilità. La politica parlamentare è diventata di tipo gladiatorio, come su un palcoscenico. La presidenzializzazione delle regioni ha creato un’evidente asimmetria con il carattere parlamentare del governo nazionale. Il potere è andato verticalizzandosi. L’amministrazione, una volta a struttura compatta, è diventata a struttura disaggregata.
Italiano. Per capire le varie componenti bisogna vedere anche come interagiscono e come rispondono a modelli di società e alla loro storia. Per esempio, è importante capire che da un’organizzazione statale di tipo piramidale si è passati a un’organizzazione pubblica di tipo reticolare, per ora muoverci verso un ordinamento a isole, ad arcipelago. E’ importante comprendere che la politica è sempre più vincolata, in modo endogeno con il cosiddetto vincolo esterno, e in modo esogeno con il giudizio dei mercati e delle agenzie di rating. Questo limita l’autonomia dello Stato e la sua sovranità, mentre rafforza il vertice del governo.
Antitaliano. Rimangono molti punti critici. La fragilità dei governi, che non sono né centralisti alla francese, né federalisti alla tedesca. L’assenza del carattere “deliberativo” (cioè dibattimentale) degli organi. La carenza di riserve di competenze. Il deficit di capacità amministrativa.
Italiano. Per una volta, invece di lamentarci di questa fragilità dei governi, della difficoltà di programmare, della distanza tra promessa e realizzazioni, chiediamoci se gli italiani non vogliano proprio questo stato di cose e se esso produca benefici che compensano i costi. Aggiungiamo che altrove non sono in condizioni molto migliori. Un giornalista sul periodico tedesco Die Zeit ha scritto il 22 marzo 2021 un articolo intitolato alla “nuova incompetenza tedesca”.
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