Mani pulite, coscienza sporca: analisi della rivoluzione per via giudiziaria
La presunzione di potere rivoluzionare un paese intero per via giudiziaria si è rivelata uno zibaldone di errori e giudizi sommari. Il gran libro di Goffredo Buccini, entusiasta della prima ora convertito al realismo
È ancora diffusa una narrazione, alimentata non a caso da alcuni esponenti della magistratura, noti anche per la loro esposizione mediatica, che somiglia a una favola e che può essere sintetizzata così. Ci sono stati negli ultimi decenni, e ci sono tuttora nel nostro paese, pubblici ministeri coraggiosi che hanno tentato e tentano di esercitare un controllo di legalità esteso al potere politico-amministrativo e a quello economico-finanziario. Ma gli appartenenti agli ambienti che temono questo controllo, simili ai cattivi delle favole che si coalizzano contro i buoni, fanno di tutto per bloccare le indagini giudiziarie, in combutta con criminali di varia specie e con la collaborazione di settori istituzionali “deviati” (a riprova della persistente attualità di questa vulgata si veda, ad esempio, l’intervista rilasciata da Nino Di Matteo al Fatto del 1° novembre scorso).
Che le cose possono essere abbastanza più complicate di quanto vorrebbero far credere i narratori della favoletta moralisticamente semplificatrice di cui sopra ce lo dicono però la storia e la stessa esperienza umana, da cui traiamo l’insegnamento che quasi mai il bene sta tutto da una parte e il male dall’altra. Di questa vecchia verità fornisce significative conferme il recente libro “Il tempo delle Mani Pulite”, scritto da Goffredo Buccini ed edito da Laterza (ne ha già parlato su questo giornale, definendolo bellissimo e prezioso, Salvatore Merlo in un articolo del 2 novembre). In effetti, si tratta di un libro ben fatto e la cui lettura risulta utile sotto più angolazioni. Non solo cioè in chiave di importante testimonianza, essendo stato Buccini trent’anni fa un componente di primo piano del pool di “giornalisti ragazzini” addetti a seguire le indagini su Tangentopoli della procura milanese, capeggiata allora da Saverio Borrelli e simbolicamente rappresentata soprattutto da Antonio Di Pietro. Il maggiore valore del libro risiede, anche a mio avviso, nell’avere Buccini sottoposto a revisione critica, con lucidità e onestà intellettuale, un’esperienza giovanile di lavoro giornalistico che lo aveva entusiasmato e profondamente coinvolto, anche in termini di piena condivisione ideale di una “rivoluzione giudiziaria” che appariva – almeno nei primi tempi – davvero volta e idonea a promuovere quel rinnovamento politico e quella rigenerazione morale di cui un’Italia percepita come sempre più marcia e corrotta avrebbe avuto bisogno. Solo che, riconsiderando a tre decenni di distanza quella straordinaria stagione di grandi aspettative (destinate però a rivelarsi in gran parte illusorie), Buccini prende realisticamente atto che tentare di “raddrizzare per via giudiziaria il legno storto dell’umanità è sempre una pratica che rischia di sfuggire al controllo di chi la applica”. Ma vi è di più. Anche se nel libro lo si adombra o accenna più di quanto non lo si riconosca espressamente, l’analisi che vi è sviluppata finisce anche col suffragare la fondatezza della tesi che fa risalire all’esperienza di Mani Pulite la genesi o l’aggravamento di alcune delle principali patologie di cui il sistema giudiziario e, più in generale, il nostro complessivo sistema democratico continuano a soffrire. Di quali patologie si tratti è facilmente intuibile, ma forse non è superfluo esplicitarle ancora una volta.
Come primo fenomeno patologico consideriamo i danni o pericoli prodotti dal circuito mediatico-giudiziario, che la lettura del libro qui in discussione pone in evidenza in maniera difficilmente eguagliabile. La lucida e onesta narrazione di Buccini fornisce, infatti, un’emblematica riprova di come la cosiddetta rivoluzione giudiziaria di Mani Pulite non si sarebbe potuta realizzare senza il complice sostegno sistematico di un gruppo di giovani giornalisti: per lo più, e non a caso, con formazione politica di sinistra, in qualche modo pregiudizialmente convinti che l’inchiesta milanese potesse confermare diffusi sospetti preesistenti su malaffari e malefatte – per dirla con le parole del libro – di certi socialisti traditori della causa, di certi andreottiani maleolenti e di certi imprenditori tentacolari (un pregiudizio, questo, che – come oggi Buccini riconosce – rischiava di inficiare l’obiettività del lavoro giornalistico nei suoi successivi sviluppi). Ma Mani Pulite ha anche fortemente contribuito a quella mediatizzazione del processo penale, soprattutto per via televisiva, che ha determinato il duplice effetto, da un lato, di proiettare fuori dall’aula di tribunale lo scenario giudiziario e, dall’altro, di rendere i magistrati d’accusa personaggi sempre più simili a tribuni del popolo che impersonano ruoli politico-mediatici che si sovrappongono confusivamente ai ruoli giuridico-istituzionali. In particolare poi la trasmissione televisiva del processo Cusani, riletta in una prospettiva sociologica e semiologica, ha dato esemplare dimostrazione dell’attitudine di un processo mediatizzato gestito con abilità scenica a fungere da “rituale di degradazione” in grado di discreditare agli occhi del pubblico, al di là dei singoli imputati coinvolti, un’intera classe politica simbolicamente additata come corrotta e imbelle (come notato nel libro di Pier Paolo Giglioli e altri, “Rituali di degradazione. Anatomia del processo Cusani”, il Mulino, 1997).
Un secondo fenomeno sotto diversi aspetti patologico, strettamente connesso al primo, è costituito dalla tendenza a concepire e utilizzare il processo penale non solo come mezzo di lotta contro fenomeni di criminalità sistemica, ma al tempo stesso come strumento di rinnovamento politico e moralizzazione collettiva (anche di questa tendenza o tentazione, il libro di Buccini offre numerosi riscontri concreti, sia espliciti sia impliciti o per facta concludentia). Sappiamo che in proposito, specie sul versante magistratuale, si suole ricorrere a un ben noto argomento autodifensivo: è lo stesso potere politico a delegare di fatto ai giudici la gestione dei mali sociali che esso non riesce ad affrontare e i problemi che non riesce a risolvere; per cui non è la magistratura a compiere invasioni di campo, bensì una politica debole e inetta a non avere la capacità di assolvere i propri compiti, e meno ancora di rinnovarsi e recuperare credibilità anche morale. E, quanto alla lamentata ispirazione politica di alcune inchieste, si obietta che le ripercussioni politiche rappresentano un inevitabile effetto oggettivo delle indagini che vertono sull’operato dei politici indagati, mentre i magistrati inquirenti non perseguirebbero intenzionalmente alcuno scopo politico trascendente il doveroso controllo di legalità spettante al potere giudiziario. Ora, a parte l’indeterminatezza e l’ambiguità del concetto di controllo di legalità (vuol dire che le procure dovrebbero attivarsi pure in via preventiva, per andare alla ricerca di eventuali ipotesi di reato, e non già soltanto quando se ne siano in concreto profilati i possibili presupposti, così trasformando l’attività giurisdizionale in attività amministrativa di polizia?), anche queste autogiustificazioni, a ben vedere, rischiano di somigliare a favole. Non perché non sia vero che vi è stata e continua a esserci una certa tendenza della politica a scaricare sui magistrati responsabilità che non riesce ad assumersi o compiti che non è in grado di svolgere. Ma perché è un’ipocrita bugia che non vi sia stata e non vi sia, a maggior ragione nei settori più militanti della magistratura, la volontà soggettiva di orientare anche politicamente l’azione giudiziaria: intendendo per orientazione politica sia l’obiettivo (in teoria censurabile) di influire su dinamiche e scelte politico-partitiche contingenti, sia una mirata valorizzazione (in teoria ammissibile o comunque meno censurabile) delle accresciute dimensioni di politicità intrinseche a un’attività giurisdizionale esplicata nell’orizzonte della democrazia costituzionale contemporanea.
Riportando il discorso su Mani Pulite, sarebbe da ingenui o da sprovveduti interpretare lo stile operativo di un pm come Di Pietro e dei colleghi al suo fianco come del tutto circoscritto nei limiti di una rigorosa e asettica ortodossia tecnico-giuridica, riluttante a farsi carico di valutazioni e preoccupazioni politiche in realtà anche esterne rispetto al momento investigativo-processuale in sé considerato: riferite cioè alla concreta incidenza che lo sviluppo e la direzione delle indagini giudiziarie avrebbero potuto esercitare allora sui partiti politici in profonda crisi e sul loro possibile destino. In realtà, funge da spia abbastanza sintomatica del fatto che Mani Pulite perseguiva obiettivi di rinnovamento politico (trascendenti, appunto, la funzione istituzionale di perseguire reati e condannarne gli autori) lo stesso linguaggio usato dai magistrati protagonisti, come emerge ad esempio persino dalle parole di un gip come Italo Ghitti, che Buccini riporta come emblematiche altresì di un ruolo di giudice vissuto in rapporto più di stretta contiguità che non di distanza critica rispetto ai colleghi pubblici ministeri: “(…) il nostro obiettivo non è rappresentato da singole persone, ma da un sistema che cerchiamo di ripulire”. Affermazione, questa, che in bocca a un giudice avrebbe in teoria dovuto sollevare reazioni pubbliche (in realtà mancate) ancora più vivaci di quelle che si sarebbero dovute levare contro il proposito, ancora più esplicito e drastico, di “rivoltare l’Italia come un calzino”, più volte com’è noto enunciato dal pubblico accusatore Piercamillo Davigo.
Considerato nell’insieme, il libro di Buccini potrebbe costituire una fonte preziosa di riferimenti, dati, informazioni e spunti di analisi potenzialmente valorizzabili anche in vista delle più volte auspicate (ma finora compiute soltanto in piccola parte) indagini scientifiche a carattere multidisciplinare (giuridico, economico, politologico, sociologico e psicologico) su Mani Pulite come terreno privilegiato di osservazione e studio dei rapporti di scambio e delle relazioni ambigue tra – per dirla con Pierre Bourdieu – il campo della giustizia penale e gli altri campi con esso interagenti. Infatti, Buccini ben ricostruisce le situazioni e occasioni in cui i diversi componenti del pool milanese, agendo in gruppo o come singoli, hanno in formale veste giudiziaria svolto funzioni e realizzato condotte (anche extrafunzionali) dotate di una sostanziale valenza politica in vari sensi e in varie direzioni. Si considerino – oltre alle performance investigative o processuali con le quali in particolare Tonino Di Pietro si atteggiava a tribuno del popolo o a eroico vendicatore delle ingiustizie e dei soprusi compiuti dai politici corrotti, assurgendo così a simbolo di una sperata palingenesi – le spettacolari reazioni pubbliche o alle forme meno eclatanti di intervento di cui lo stesso Di Pietro da solo, o più spesso insieme ad altri colleghi, si è reso protagonista per bloccare riforme governative considerate inaccettabili o per promuovere invece riforme gradite allo stesso pool milanese: si allude al comunicato stampa contro il pacchetto di modifiche abbozzato dal neo guardasigilli Conso per depenalizzare il finanziamento illecito ai partiti; al successivo pronunciamento televisivo contro il decreto Biondi volto a ridurre la possibilità di ricorrere alla custodia cautelare in carcere; e, in forma questa volta propositiva, alla presentazione da parte di Di Pietro all’annuale forum di Cernobbio di una proposta (destinata in realtà a rimanere tale) di un disegno di legge di riforma dei reati di concussione e corruzione, recante altresì innovazioni in materia di benefici premiali per la collaborazione giudiziaria, elaborato dalla procura milanese insieme a un gruppo di professori universitari e avvocati e finalizzato ad agevolare la chiusura dei conti con gli episodi corruttivi del passato. A ben vedere, non è difficile individuare in queste prese di posizione del pool di Mani Pulite, miranti a interdire riforme avversate oppure a sollecitare riforme auspicate, significativi precedenti di una tendenza, successivamente consolidatasi nel potere giudiziario, a pretendere di sindacare in via preventiva il merito delle scelte politiche in materia penale, in teoria di esclusiva competenza del Parlamento e del governo, con conseguente (ma di fatto prevalentemente tollerata!) violazione del principio costituzionale della divisione dei poteri.
Ma, come bene emerge anche dal libro di Buccini, una confusa sovrapposizione di ruoli giudiziari e ruoli sostanzialmente politici dipendeva anche dal fatto che in particolare Di Pietro e Davigo mantenevano rapporti sotterranei di vicinanza, non esenti da inevitabile ambiguità, con settori e personaggi del mondo politico di allora, perché in qualche modo e in qualche misura tentati di lasciare la toga per transitare in politica, cedendo alle offerte (a loro volta tutt’altro che disinteressate) di parti politiche desiderose di sfruttare a proprio vantaggio l’ampio consenso popolare acquisito dai due pubblici ministeri grazie alla guerra contro Tangentopoli. Così stando le cose, non solo si incrementava la sostanziale valenza politica dell’azione del pool, ma finivano con l’esserne corresponsabili anche quei settori politici che cercavano di attrarre nelle loro file i magistrati più in vista e più idolatrati. Com’è comprensibile, rispetto alla tentatrice scesa in politica hanno giocato un ruolo ancora più determinante le diverse caratteristiche psico-antropologiche dei singoli componenti del pool, e ciò è comprovato dalla scelta di lasciare la toga infine compiuta dall’eroe molisano e dal successivo andamento della sua non certo luminosa e gloriosa carriera politica.
Quanto alla funzione di moralizzazione pubblica (complementare a quella di presunto rinnovamento politico), che non pochi magistrati specie dopo Mani Pulite ritengono rientrare nel loro ambito di competenze, tanto più se impegnati nel contrasto della corruzione o delle mafie, merita di essere ricordato un libretto di Alessandro Pizzorno dal titolo emblematico: “Il potere dei giudici. Stato democratico e controllo della virtù”, edito da Laterza nel 1998. Da sociologo, Pizzorno non affronta il problema giuridico-costituzionale relativo al senso e ai limiti di una moralizzazione collettiva da perseguire con gli strumenti della giustizia penale, perché ciò che più gli interessa non è il piano deontologico: quel che più lo intriga è indagare il crescente spazio che i giudici sono di fatto andati conquistando nella sfera pubblica esterna alle aule giudiziarie, e nella comunicazione mediatica, quali autorità beneficiarie di consenso da parte della pubblica opinione anche nel ruolo di custodi o controllori delle virtù morali degli uomini politici e, più in generale, degli esponenti del ceto dirigente. Senonché, a Pizzorno è facile rivolgere – a maggior ragione oggi – più di una obiezione. Sullo stesso piano sociologico, è pressoché scontato obiettare che è quantomeno dubbio che il ceto giudiziario visto nel suo insieme si distingua per un livello di moralità superiore rispetto a quello della media dei cittadini (sembrerebbero confermarlo proprio certi comportamenti moralmente discutibili o deontologicamente scorretti dello stesso magistrato-simbolo della rivoluzione giudiziaria milanese, di cui ben riferisce Buccini), per cui non è detto neppure che un magistrato abbia sempre una capacità di giudizio morale comparativamente più elevata (e ciò va rilevato anche a prescindere da recenti fenomeni di grave decadimento culturale e degrado morale registratisi in seno alla nostra magistratura). Premesso questo, rimane l’ulteriore problema – di natura appunto giuridico-costituzionale – di capire e specificare cosa significhi “virtù morale” di un politico nella prospettiva di un magistrato: vuol dire semplicemente che il politico deve essere onesto, non deve rubare e non deve corrompere e farsi corrompere, o significa qualcosa di più impegnativo? Se la risposta dovesse essere nel secondo senso, dubito che un giudice possegga una speciale legittimazione e una speciale competenza per formulare nuove regole morali nell’ambito di una società pluralistica come la nostra.
Come sappiamo, tra i rilievi critici mossi all’esperienza di Mani Pulite ve ne sono alcuni che attengono più direttamente alle modalità di utilizzazione degli strumenti penalistici, sul duplice terreno sostanziale e processuale: ci si riferisce a una certa tendenza a forzare o manipolare l’interpretazione-applicazione di classiche figure di reato come la concussione e la corruzione, a un uso spregiudicato o ricattatorio a fini confessori della custodia cautelare in carcere, a un’insufficiente attenzione alle reazioni psicologiche e al conseguente rischio suicidiario di alcuni indagati e imputati (come sarebbe dimostrato dai non pochi suicidi effettivamente verificatisi). Anche di tutto questo troviamo più di una eco nella rivisitazione critica di Buccini, il quale fa – tra l’altro – questa osservazione che vale la pena riportare: a Di Pietro interessava “non tanto processare i singoli politici quanto sputtanare il sistema dei partiti”. Quale riprova migliore di questa si potrebbe ottenere di un possibile tradimento degli scopi fisiologici del diritto e del processo penale consumato in nome di eteronome finalità lato sensu politiche? Sempre a proposito di questo uso non canonico della giustizia penale, è il caso di richiamare un passo contenuto in una drammatica e commovente lettera scritta prima di togliersi la vita dal deputato socialista Sergio Moroni (indagato per avere raccolto mazzette non per sé ma per il partito) e indirizzata a Giorgio Napolitano, a quel tempo presidente della Camera: riferendosi all’esigenza da lui stesso condivisa di un diverso modo di operare dei partiti, Moroni rilevava che “non è giusto che ciò avvenga attraverso un processo sommario e violento, per cui la ruota della fortuna assegna a singoli il compito delle ‘decimazioni’ in uso presso alcuni eserciti”. Mi ha colpito, e continua a colpirmi questa idea di una sorta di decimazione realizzata per via di processi sommari e poco individualizzati: vi rinvengo una curiosa e inquietante coincidenza con l’impiego dello stesso termine da parte del presidente della Corte suprema Riches nel celebre dialogo con l’ispettore Rogas inscenato nel romanzo sciasciano “Il contesto”, in cui appunto il presidente della corte azzarda la pessimistica e paradossale previsione che nel futuro “la sola forma di possibile giustizia, di amministrazione della giustizia, potrebbe essere, e sarà, quella che nella guerra si chiama decimazione”. Per fortuna, questa tragica previsione non si è avverata, ma resta il fatto che non è soltanto la pur sempre eccezionale stagione di Tangentopoli ad avere evidenziato in forma macroscopica un approccio molto sommario e affrettato alla questione del come punire. Come ho rilevato in un precedente articolo su questo giornale (il Foglio del 25 ottobre 2021), a tutt’oggi la determinazione concreta della pena da parte degli stessi magistrati giudicanti non è per lo più fatta oggetto di quella scrupolosa ponderazione che sarebbe in teoria auspicabile.
In un precedente articolo su Mani Pulite, a venticinque anni di distanza (sul Foglio del 30 marzo 2017), avevo provato a stilare un bilancio complessivo degli esiti pratici anche di lunga scadenza di una rivoluzione politica tentata per via giudiziaria, che specie all’inizio tante speranze aveva acceso a dispetto della paradossale contraddittorietà insita nel considerare “rivoluzionaria” un’attività repressiva di fatti criminosi, sia pure ritenuti sistemici. Da allora a oggi, quel bilancio mi sembra ulteriormente avvalorato dalle conclusioni che Buccini trae nel suo libro. In sintesi, ribadirei che quella cosiddetta rivoluzione ha prodotto conseguenze fallimentari, o comunque negative su più versanti. E infatti non ha certo eliminato il fenomeno della corruzione, ma ha forse contribuito a determinare un mutamento delle sue modalità di manifestazione (per condivisibili rilievi sulla attuale fisionomia della corruzione in Italia si veda il recente intervento di Giuseppe Pignatone su Repubblica del 30 ottobre scorso); in luogo di promuovere un rinnovamento politico degno di questo nome, ha finito col (con)causare effetti politicamente regressivi, definiti persino “disastrosi”, ad esempio da Sergio Romano (sul Corriere della sera del 19 settembre 2016), alimentando una rozza e velleitaria antipolitica di ispirazione populista; ha inoltre, sul terreno dell’amministrazione della giustizia, fomentato il fenomeno del populismo giudiziario, inducendo parte dei magistrati a ricercare il consenso popolare come fonte di vera legittimazione di un’azione giudiziaria che si vorrebbe pur sempre, e nonostante ogni contraria indicazione, orientata al cambiamento e alla moralizzazione (da qui l’emersione di nuove figure di magistrati d’accusa, imitatori più o meno credibili di Tonino Di Pietro, nell’ambiguo ruolo di ircocervi metà attori giudiziari e metà attori politico-mediatici).
Certo, di questa eredità complessivamente fallimentare la causa unica non può essere ravvisata in un tentativo, invero di problematica idoneità in partenza, di fare la rivoluzione con procure e tribunali. I fattori causali coinvolti nelle complesse dinamiche politiche successive a Mani Pulite sono indubbiamente molteplici e chiamano in causa la responsabilità di diversi attori, non solo politico-istituzionali. Verosimilmente, ha ragione Goffredo Buccini nel rilevare nell’ultimo capitolo del suo libro: “Nessun problema appare risolto trent’anni dopo, perché il problema non erano i partiti, il problema siamo noi”.