Il contro scandalo Eni

Luciano Capone

Nel caso Eni-Nigeria il "burattinaio" Descalzi è vittima delle calunnie dei "super testimoni" Armanna e Amara: chat false e accuse farlocche. I veri imputati del “processo del secolo” sono procure e media che si fanno portare a spasso dai pataccari

La presunta corruzione dell’Eni per il caso Opl 245 in Nigeria, la più grande tangente mai pagata da un’azienda italiana (per fare un paragone, almeno il quadruplo della maxi tangente Enimont a valori attualizzati), doveva essere il “Processo del secolo”. E invece, dopo la completa assoluzione “perché il fatto non sussiste” di tutti gli imputati, a partire dall’amministratore delegato dell’Eni Claudio Descalzi e del suo predecessore Paolo Scaroni, il processo Eni-Nigeria si sta rivelando lo “Scandalo giudiziario del secolo”.  Non solo, appunto, per l’esito di assoluzione ma soprattutto per i metodi utilizzati. A uscirne a pezzi da questa vicenda non è solo la credibilità della magistratura inquirente, accusata di aver occultato le prove utili alla difesa, ma anche quella del giornalismo che ha supportato acriticamente le tesi della procura e dei suoi “supertestimoni” pataccari.

 

L’ultimo atto di questa tragedia giudiziaria è la chiusura dell’indagine sul falso complotto in cui l’ad Descalzi, che inizialmente era accusato di essere il burattinaio dei depistatori Vincenzo Armanna e Piero Amara, ora si scopre essere la vittima delle loro calunnie. Un ribaltamento di ruolo che è il frutto del capovolgimento delle solide convinzioni dei pm. Secondo i pm di Milano Laura Pedio, Stefano Civardi e Monia Di Marco il depistaggio per inquinare i processi e screditare i consiglieri dell’Eni Luigi Zingales e Karina Litvack architettati da Armanna e Amara non era stato commissionato da Descalzi e dal suo braccio destro Claudio Granata, ma da altri dirigenti infedeli Eni (Antonio Vella e Massimo Mantovani) da qualche tempo allontanati dall’azienda.

 

Non solo i mandanti erano diversi, ma Descalzi e Granata erano vittime delle calunnie di questi personaggi a lungo ritenuti credibili e affidabili dalla stessa procura. Armanna e Amara, scrivono ora i pm milanesi, accusavano Descalzi e Granata, “pur sapendoli innocenti”, di aver corrotto Armanna – promettendogli la riassunzione in Eni più altre utilità per circa 1,5 milioni l’anno – affinché egli, super testimone nel processo Eni-Nigeria, ritrattasse o non confermasse le accuse a carico di Descalzi sulla presunta mega tangente. Si tratta del famigerato “Patto della Rinascente”, che è stato uno dei pilastri dell’accusa del pm Fabio De Pasquale nei confronti del Ceo dell’Eni. Come dimostra una perizia, le chat sul telefono di Armanna che avrebbero dovuto provare quell’accordo sono false. Proprio come aveva a lungo sostenuto il pm Paolo Storari quando proponeva l’arresto di Amara e Armanna, mentre i suoi colleghi, a partire dal procuratore Francesco Greco, li ritenevano credibili non solo per le accuse rivolte agli imputati Eni-Nigeria ma anche per quelle, gravissime e anch’esse false, a carico del presidente del collegio giudicante Marco Tremolada.

 

Un comportamento a dir poco scorretto da parte dei pm, che si aggiunge al mancato deposito di altre prove favorevoli agli imputati, trovate e segnalate da Storari. Su questo c’è un’inchiesta a Brescia che coinvolge De Pasquale e anche la Pedio, che con la giravolta sul “patto della Rinascente” azzoppa il ricorso in appello già sghembo di De Pasquale ma alleggerisce la propria posizione visto che si accoda, seppure tardivamente, alle tesi alla base delle denunce di Storari.

 

L’immagine della magistratura che si innamora delle proprie tesi e si fa portare a spasso da calunniatori è preoccupante e deprimente, ma non ne esce meglio il giornalismo. O meglio, quegli organi di stampa che secondo la procura di Milano, proprio come la procura, si sono fatti strumentalizzare da Armanna e Amara che veicolavano soffiate “al fine di dare risalto mediatico alle false accuse formulate”. Sono quei media, cartacei e televisivi, che, esattamente come certi pm, si innamorano talmente delle tesi d’accusa da farsi megafono dei pataccari. Lo scandalo mediatico giudiziario Eni-Nigeria, come altri ma più di altri, ci sta mostrando quanto grandi e purulenti siano questi due bubboni.

 

  • Luciano Capone
  • Cresciuto in Irpinia, a Savignano. Studi a Milano, Università Cattolica. Liberista per formazione, giornalista per deformazione. Al Foglio prima come lettore, poi collaboratore, infine redattore. Mi occupo principalmente di economia, ma anche di politica, inchieste, cultura, varie ed eventuali