la richiesta d'archiviazione
Perché la procura di Benevento ha archiviato un uomo denunciato per stupro
Il caso ha fatto scalpore. Una donna ha accusato il marito di violenza sessuale. La pm (sì, anche lei donna) ha espresso una considerazione infelice, ma le motivazioni sono più complesse delle polemiche che ne sono scaturite
Si prenda una frase lessicalmente infelice da un provvedimento giudiziario, si aggiungano articoli di giornali specializzati nel taglia e cuci a favore dell’indignazione popolare, si mescoli il tutto con un clima di fanatismo femminista, ed ecco servita l’ennesima polemica gratuita. Stavolta riguarda la motivazione con la quale un magistrato della procura di Benevento ha chiesto l'archiviazione della denuncia di una donna per violenza sessuale da parte del marito. Al centro dello sdegno collettivo è finita una considerazione espressa dalla pm (sì, è una donna, si chiama Flavia Felaco), certamente infelice dal punto di vista lessicale. La riportiamo ora, in modo da tagliare subito la testa al toro: è comune negli uomini dover “vincere quel minimo di resistenza che ogni donna, nel corso di una relazione stabile e duratura, nella stanchezza delle incombenze quotidiane, tende a esercitare quando un marito tenta un approccio sessuale”. Prima di condannare a morte la povera magistrata per questa frase dall’indubbio sapore ottocentesco sarebbe opportuno che giornalisti, politici e lettori leggessero almeno per intero il provvedimento dal quale è stata estratta.
Leggendo il documento si scopre infatti, come spesso accade, una realtà decisamente diversa. Non è questo il motivo per il quale la magistrata ha chiesto l’archiviazione dell’accusa di violenza sessuale dell’uomo nei confronti della moglie. Il motivo è che non sarebbero emersi elementi che dimostrerebbero la non consensualità del rapporto sessuale. Nella richiesta di archiviazione la pm (che, per la cronaca, di recente ha chiesto e ottenuto la condanna a sei anni di carcere per un operatore sanitario accusato di aver violentato una paziente disabile) ricorda ovviamente che “anche nel rapporto di coppia può verificarsi la perpetrazione del reato di cui all’art. 609 bis c.p.” (violenza sessuale). La violenza, però, si verifica quando vi è “consapevolezza nell’agente dell’altrui rifiuto anche non espresso ma chiaramente percepibile”. Nel caso in questione, sottolinea la pm, è la stessa donna a non aver descritto “espressioni di minaccia o di costrizione fisica, né di abuso di autorità” da parte del marito.
Gli atti sessuali descritti come violenti, afferma la pm, sono stati compiuti in una fase del rapporto coniugale in cui la donna aveva “messo seriamente in discussione la relazione, meditando la separazione” (poi proposta al marito). Da questa situazione sarebbe derivata una minore inclinazione della donna a congiungersi col marito e una maggiore insistenza di quest’ultimo per avere rapporti sessuali. Appare “arduo” – sottolinea la pm – sostenere che sia provata la consapevolezza” dell’uomo della “non consensualità al rapporto sessuale”. Ciò del resto sarebbe confermato dal fatto che, quando la donna ha esplicitamente rifiutato di avere un rapporto sessuale col marito, “questi si è allontanato e ha dormito per i successivi 8 giorni sul divano”.
In mezzo a questa motivazione si inserisce la frase incriminata, citata in avvio. Una frase certamente infelice dal punto di vista lessicale, ma che mira ad affermare un dato piuttosto banale: non è che un rapporto sessuale consensuale, ma nato dall’insistenza di una parte (in questo caso l’uomo), è uno stupro.