Il caso Burzi e la giustizia randomica di Rimborsopoli
Incertezza del diritto, antipolitica e inchieste all'ombra degli anni Zero, seguendo lo stesso canovaccio usato vent'anni prima con Mani pulite. Così le scontrinopoli hanno avvelenato il paese.e lanciato "la moda dell'onestà"
Le varie “Scontrinopoli” o “Rimborsopoli” che hanno avvelenato e – ora è il caso di dirlo, dopo il suicidio di Angelo Burzi – anche insanguinato la politica italiana sono state il riflesso della cattiva coscienza della giustizia e della politica.
L’ex capogruppo e assessore di Forza Italia alla regione Piemonte era un personaggio particolare: un liberale conservatore intriso di suggestioni libertarie, ideologicamente anticomunista e sentimentalmente filoradicale e dunque lontanissimo dal bigottismo conformista della destra “Dio, Patria e Famiglia”. Berlusconiano della prima ora, fondatore di FI in Piemonte e consigliere in regione dal 1995 al 2015, eppure, malgrado l’inclinazione dichiaratamente partigiana, sempre ostentatamente disorganico e dissidente. E’ stato un assessore regionale al bilancio decisamente rigorista (e presto sacrificato al quieto vivere consociativo), poi un predicatore abbastanza inascoltato dell’alternativa al “sistema Torino”, che fino all’elezione di Chiara Appendino aveva visto per un quarto di secolo la sinistra governare il capoluogo piemontese e il centro-destra cercare rapporti di convivenza e di mutua utilità. Era finito con altre decine di eletti delle varie consiliature trascorse a Palazzo Lascaris nelle inchieste della procura contabile e penale di Torino sull’utilizzo dei fondi dei gruppi consiliari regionali e lì era iniziata la sua – e non solo sua – disgrazia.
Di che inchieste si parla? Anche qui, senza contestualizzazione storica, la cronaca sembra quella anodina e burocratica di un mattinale di questura. Vediamo dunque il contesto. Per decenni le dotazioni finanziarie dei gruppi consiliari regionali sono state, alla pari di quelle dei gruppi parlamentari, affidate alla piena discrezionalità degli eletti. Ogni spesa direttamente o indirettamente connessa all’esercizio del mandato elettivo era considerata insindacabile, alla stregua degli atti politici propriamente intesi, che spesso anche in quelle spese trovavano espressione concreta. L’autonomia politica, anche in ordine all’utilizzo dei fondi, era considerata – ripeto: pacificamente – un presupposto imprescindibile della libertà dell’eletto. Questo non configurava alcuna immunità rispetto a forme di controllo contabile o amministrativo, né, tantomeno, rispetto all’esercizio dell’azione penale, ma definiva un quadro, politicamente opinabile, ma giuridicamente esplicito di massima e indiscutibile libertà di spesa e utilizzo dei fondi assegnati ai gruppi consiliari.
Un consigliere regionale che avesse pagato dai fondi del gruppo un “fuori busta” a un dipendente avrebbe dovuto essere condannato a risarcire la spesa illegittima alla regione. E se avesse usato i medesimi fondi per acquistare un’abitazione o un’automobile privata, camuffando la transazione da consulenza, si sarebbe certamente meritato la condanna, se l’accusa fosse stata provata, per peculato e truffa. Ma non c’era modo di distinguere né di discriminare – tanto meno penalisticamente – la qualità politica delle condotte relative all’utilizzo dei fondi dei gruppi e alle tipologie di spese ammissibili, essendovi tutte ricomprese – da quelle di rappresentanza a quelle di viaggio, vitto e alloggio, a quelle per convegni, iniziative e consulenze – purché attinenti all’esercizio del mandato elettivo, in un quadro nel quale l’attinenza era, nella sostanza, autocertificata e quindi sempre censurabile. C’è una evidente differenza tra (esempi di fantasia) ospitare, rifocillare e far viaggiare a spese di un gruppo consiliare i relatori di un convegno sul contenimento della spesa sanitaria e usare gli stessi riguardi per una rete di collaboratori impegnati a promuovere sul territorio le iniziative politiche degli eletti. Ma non esisteva alcuna norma che consentisse di considerare l’una spesa illecita e l’altra lecita, né che prevedesse – come sarebbe stato prudente – un contingentamento dei limiti massimi ammissibili delle spese meno controllabili, tipicamente quelle di cosiddetta “rappresentanza”. A lungo, non si sentì neppure il bisogno di offrire un quadro di riferimento, se non costrittivo, almeno più preciso e quindi anche più tutelante per gli eletti. Il massimo della discrezionalità politica esponeva comunque ad attacchi e abusi, favoriti proprio dal “silenzio” e dunque dall’incertezza del diritto.
Fino a che sono continuati i tempi di pace alla politica andava, ovviamente, benissimo così e alla magistratura contabile e penale altrettanto, poiché la cosiddetta “onestà” non era ancora diventata la gallina dalle uova d’oro e il rifugio delle canaglie dell’antipolitica e quindi non era né un fucile da imbracciare, né un palcoscenico da calcare. Gli scontrini e i rimborsi – a differenza degli appalti e delle tangenti – non erano ancora di moda. Lo sarebbero diventati, anticipando il trionfo del M5S che non a caso sulla “trasparenza”, intesa nel senso della tracciabilità contabile delle spese individuali, hanno guadagnato prima una patente di nobiltà e poi edificato un sistema para-totalitario di controllo e intimidazione degli eletti.
Come Tangentopoli fu annunciata e innescata dalla crisi finanziaria del 1992, così la strada a Scontrinopoli e Rimborsopoli venne aperta dal quasi default della fine degli anni zero. A un paese impoverito e atterrito fu fatto, per la seconda volta, credere che poteva trovare ragione di tutte le indignazioni e soddisfazione di tutte le pretese direttamente nelle tasche dei politici. Lì si è aperto – come era avvenuto vent’anni prima – un vaso di Pandora di inchieste (spesso in azioni a tenaglia con procure contabili) e non c’è praticamente eletto regionale di quegli anni che non si sia visto chiedere conto di qualunque cosa, a misura dell’interpretazione – più o meno ragionevole, arbitraria o inquisitoria – che i singoli magistrati contabili e penali davano all’attinenza delle spese documentate con il mandato elettivo, anche post-determinandone i criteri di ammissibilità.
Nel mazzo degli indagati e dei condannati in Italia in questi anni non mancano certamente casi quasi ridicoli di latrocinio, ma la grande maggioranza dei casi ha riguardato spese la cui natura privata, presupposto dal peculato, discendeva da una interpretazione assai discutibile e “buonsensistica” dell’interesse pubblico. Così il risultato è stato – e non poteva che essere così – quello di una giurisprudenza randomica e contraddittoria, con sentenze di assoluzione (“perché il fatto non costituisce reato”, come in primo grado è avvenuto a Burzi) e di condanna (come gli è successo in secondo grado) ugualmente perentorie. Una macchina infernale, dove a fare la differenza tra i sommersi e i salvati bastava il pregiudizio o la fatalità e nessuna pronuncia poteva più ambire a un requisito minimo di credibilità.
Come ha scritto in una sentenza di assoluzione uno dei giudici chiamati a decidere su alcuni di questi casi, l’utilizzo dei fondi da parte di un consigliere per iniziative manifestamente autopromozionali – ad esempio: pagare cene agli elettori, organizzare attività di pura propaganda – dovrebbe, in assenza di precise norme penali, trovare sanzione fuori dalle aule di giustizia. In ogni caso, “l’amara constatazione che ciò normalmente non accade non può però indurre a una impropria sostituzione della responsabilità penale a quella politica; su ciò di cui il giudice penale non può parlare, occorre tacere” (Letizio Magliaro, Gip del Tribunale di Bologna, sentenza 2191/15). Parole d’oro e quindi rare.
Non potendosi auspicare che, dietro lo schermo della obbligatorietà dell’azione penale, ci fosse nella magistratura italiana complessivamente intesa sufficiente rigore per attenersi a questo esempio, sarebbe spettato alla politica intervenire, ma la politica ovviamente era, in tutte le sue parti, impegnata a lavorare perché i salvati fossero “loro” e i sommersi “gli altri”. Di ristabilire in mezzo a tutta questa buriana un principio di diritto, neanche a parlarne.
Ora il timore, per chi lo ha conosciuto, è che Burzi non si sia salvato proprio per non essersi voluto intruppare tra i potenziali salvati, per avere trasformato la sua difesa in una denuncia e per avere continuato orgogliosamente a fare politica, senza dichiarare una incondizionata e preventiva fiducia nella roulette russa delle sentenze, non fondate sulla legge ma su una casistica morale, che non dovrebbe essere mai posta a fondamento dell’azione penale.