Il pm Fabio De Pasquale ha condotto con il collega Sergio Spadaro l’inchiesta Eni-Nigeria (foto Ansa) 

Il caso Eni-Nigeria, la Trattativa stato-gogna

Luciano Capone

La presunzione di colpevolezza e la maxi tangente che non c’era. Perché l’inchiesta che avrebbe potuto stroncare una delle più grandi aziende italiane ha finito invece per far esplodere la procura di Milano e il Csm. Storia vera di uno scandalo giudiziario e mediatico

[Aggiornamento del 19 luglio 2022]: Il sostituto pg di Milano Celestina Gravina ha rinunciato ai motivi d'appello nel processo di secondo grado sul caso Eni/Shell Nigeria. Tra gli imputati assolti figuravano anche l'amministratore delegato Claudio Descalzi e il suo predecessore Paolo Scaroni. Con la rinuncia alla richiesta di appello le assoluzioni di primo grado diventano definitive.


 

"Sapete voi perché Enzo Tortora è in questo processo? Perché più cercavamo le prove della sua innocenza e più trovavamo quelle della sua colpevolezza”. Queste, in tanti le ricorderanno, furono le agghiaccianti parole pronunciate dal pm Diego Marmo durante il più clamoroso errore giudiziario della storia repubblicana. In realtà, com’è noto, le indagini erano state condotte secondo la logica inversa. Si tratta di vicende molto diverse ed è sempre complicato fare parallelismi, ma si può dire che nel caso del processo Eni-Nigeria la procura di Milano abbia seguito proprio il metodo Marmo: più si cercavano le prove della colpevolezza dei dirigenti dell’Eni e più emergevano quelle della loro innocenza. Solo che i pm Fabio De Pasquale e Sergio Spadaro le hanno completamente ignorate se non – e questa è la ragione per cui i due magistrati sono indagati dalla procura di Brescia – addirittura occultate. Cose che probabilmente non accadono neppure in Nigeria.
   
La presunta corruzione internazionale per il blocco petrolifero nigeriano Opl-245, la più grande tangente della storia italiana, una stecca da oltre 1 miliardo di dollari (per fare un paragone, è almeno il quadruplo della maxi tangente Enimont a valori attualizzati), doveva essere il processo del secolo tale da rendere la procura di Milano e il pm De Pasquale l’avanguardia della lotta alla corruzione internazionale in ambito Ocse. E invece si è rivelato lo scandalo giudiziario del secolo, con un clamoroso ribaltamento dei ruoli: gli imputati tutti assolti “perché il fatto non sussiste”, peraltro in due processi paralleli di cui uno con giudizio definitivo, e i magistrati dell’accusa indagati proprio per come hanno condotto l’inchiesta.

    

La procura generale contro la procura di Milano, i pm vicini a Greco indagati, Greco che fa insinuazioni sull’ex collega di Mani pulite  Davigo, Davigo che denuncia Greco… il Csm dilaniato dal dossieraggio

 

Non solo. La torsione completa della vicenda è rappresentata dal fatto che nel processo d’appello a rappresentare l’accusa ci sarà un magistrato che ha sostenuto l’innocenza degli imputati e l’inesistenza della corruzione. De Pasquale, che in maniera ostinata continua a sostenere la colpevolezza dei dirigenti dell’Eni e della Shell, aveva infatti presentato ricorso contro l’assoluzione chiedendo alla procura generale di Milano di poter sostenere l’accusa anche in secondo grado. Come se fosse una rivincita in una battaglia personale. Ma la procuratrice generale Francesca Nanni, evidentemente per la posizione imbarazzante di De Pasquale indagato per aver nascosto agli imputati prove determinanti a loro favore, ha assegnato il caso al sostituto pg Celestina Gravina, un magistrato che conosce bene la vicenda Eni-Nigeria per aver già gestito il processo d’appello di rito abbreviato nel quale ha chiesto e ottenuto l’assoluzione “perché il fatto non sussiste” dei due mediatori Emeka Obi e Gianluca di Nardo, ora definitivamente assolti.

  

"Si tratta di una corruzione mai esistita", ha detto l'avvocato Roberto Pisano, legale di Obi Emeka il 13 aprile 2021 (Ansa / Matteo Corner) 
   

E così, in un’eterogenesi dei fini, l’inchiesta che nella mente di De Pasquale avrebbe dovuto stroncare l’Eni ha finito per far esplodere la procura di Milano e il Csm, ormai sommersi da inchieste e dilaniati da denunce reciproche e scontri tra bande: la procura generale contro la procura di Milano, il pm Storari che accusa i suoi capi, la procura che ribalta le accuse su Storari, i magistrati milanesi che raccolgono firme contro il trasferimento coatto di Storari, i pm vicini a Greco indagati, Greco che fa insinuazioni sull’ex collega di Mani pulite Piercamillo Davigo, Davigo che denuncia Greco, Greco che viene archiviato e Davigo per cui viene chiesto il rinvio a giudizio per fuga di notizie insieme a Storari, il Csm dilaniato dal dossieraggio…

       
Questa deflagrazione della magistratura, partita dal tempio in cui sono stati inventati e celebrati i riti della giustizia degli ultimi trent’anni, verrà sicuramente raccontata. Ma prima di capire cosa accadrà è necessario raccontare cos’è successo nel processo Eni-Nigeria. Perché, sempre per stare al paragone iniziale, se nel caso Tortora alla fine all’opinione pubblica è stato spiegato come sono andate le cose e com’è stato possibile imbastire una persecuzione del genere, nel caso Eni-Nigeria non è andata così. La narrazione colpevolista, quella diffusa per anni da giornali e trasmissioni televisive che hanno fatto da megafono alle tesi della procura e dei suoi “supertestimoni” pataccari come Vincenzo Armanna e Piero Amara, è ancora dominante. In fondo l’idea che i manager di una multinazionale petrolifera abbiano corrotto le classi dirigenti poco specchiate di un paese africano per estrarre idrocarburi, e che visto che si trovavano abbiano preso una stecca anche per loro, risulta quantomeno verosimile. E’ profonda la convinzione che, per dirla à la Davigo, i dirigenti dell’Eni siano “colpevoli che l’hanno fatta franca”. Anche buona parte di chi simpatizza per l’Eni non sostiene tanto l’innocenza, ma l’idea che il processo fosse sbagliato perché contrario agli interessi nazionali: se si intende fare affari in certi posti “funziona così”.

   

Assolti perché il fatto non sussiste. Le “contraddizioni intrinseche” del castello accusatorio. I pm che danno per provato ciò che devono provare. E il miliardo pagato da Eni al governo nigeriano che diventa la mazzetta della corruzione

   

In realtà il problema dell’inchiesta di De Pasquale non è tanto l’opportunità ma proprio il merito. Il fatto non sussiste, dicono le sentenze. Non c’è stata alcuna corruzione. Se fosse un caso di omicidio, si potrebbe dire che l’imputato non è stato assolto per legittima difesa (ha commesso il fatto ma non è colpevole) né perché ad aver ucciso è stato qualcun altro, ma perché non c’è stato alcun omicidio. La procura non ha mai trovato l’arma del delitto né il cadavere, perché il morto è vivo. Come dice il procuratore generale Celestina Gravina, chiedendo l’assoluzione in appello di due intermediari: “Non esiste il fatto contestato, non esiste in natura. Non è che abbiamo elementi indiziari insufficienti, abbiamo la prova che le cose sono andate diversamente”.

  

Tutto ruota attorno all’Oil prospective licence 245, una licenza esplorativa su un giacimento che si trova al largo delle coste del Delta del Niger, assegnata nel 1998, dalla giunta militare di Sani Abacha, alla società Malabu riconducibile all’allora ministro del Petrolio e allo stesso dittatore Abacha

  
La vicenda è molto complicata e soprattutto lo è l’accusa perché, come scrive il Tribunale di Milano nella sentenza di assoluzione, il pm “ha scelto una tecnica descrittiva che soffre di contraddizioni intrinseche” creando “ambigue sovrapposizioni e ulteriori contraddizioni, con conseguenti difficoltà interpretative”. Tutto gira attorno all’Oil prospective licence 245 (Opl-245), una licenza esplorativa su un giacimento che si trova al largo delle coste del Delta del Niger, in Nigeria.

   

 

Questa licenza era stata assegnata nel 1998, dalla giunta militare del generale Sani Abacha, a una società di nome Malabu riconducibile all’allora ministro del Petrolio Dan Etete e allo stesso dittatore Abacha. Non si tratta di qualcosa di accettabile per i nostri standard, ma all’epoca in Nigeria funzionava così. La politica del paese africano chiamata “Indigenous exploration programme” era quella di creare un’industria petrolifera autoctona, per bilanciare il dominio delle multinazionali straniere, assegnando licenze a società nigeriane che a loro volta avrebbero potuto venderle o trovare partner industriali con capitali e know-how per l’estrazione offhsore. Questa era la nobile idea che, però, il regime di Abacha applicò in maniera a dir poco clientelare. Non è il solo caso dell’Opl-245 assegnata da Abacha, attraverso prestanome, al suo ministro del Petrolio e a sé stesso. Basti pensare che il blocco vicino, l’Opl-246, era stato assegnato a una società dell’allora ministro della Difesa, il generale Theophilus Danjuma, che poi ha venduto alla francese Total: i francesi da anni estraggono petrolio e Danjuma è uno degli uomini più ricchi d’Africa, senza che la cosa sia sembrata un crimine a nessuno. Sebbene Eni entri in scena oltre dieci anni dopo l’assegnazione dell’Opl-245 a Dan Etete, questo è un punto fondamentale. Perché secondo il pm De Pasquale quella licenza “è un titolo che è invalido ab origine” e pertanto “tutte le negoziazioni che prevedono che Etete prendesse un solo dollaro per questa licenza autoassegnata illegittimamente sono esse stesse illegittime”.

   

Eni entra in scena oltre dieci anni dopo l’assegnazione dell’Opl-245 a Dan Etete. Ma per il pm De Pasquale la licenza è illegittima dall’inizio e l’Eni doveva “evitare di mettersi al tavolo con Dan Etete”. Una autolimitazione, per i giudici, “che non trova fondamento in alcuna norma giuridica”

  

Per l’accusa l’Eni doveva “evitare di mettersi al tavolo con Dan Etete”. Ma la tesi del peccato originale è completamente infondata, perché come hanno ricostruito le difese e il tribunale, la titolarità di Malabu – la società di Etete – su quel lotto è stata confermata dal governo democratico del presidente Olusegun Obasanjo, che era stato il principale oppositore del regime militare di Abacha, con l’impegno di versare 20 milioni di dollari allo stato. Pertanto quando Eni nel 2007 e poi nel 2009 inizia a negoziare non c’è ombra di dubbio, secondo le leggi nigeriane, sulla legittima titolarità del blocco. La tesi di De Pasquale, scrivono i giudici nella sentenza, “avrebbe imposto a Eni una sorta di autolimitazione della propria libertà di azione che non trova fondamento in alcuna norma giuridica. Rimane incomprensibile per quale ragione la compagnia italiana avrebbe dovuto rinunciare a perseguire i propri scopi sociali”.
    
Ma come mai Eni entra in trattativa così tanti anni dopo l’assegnazione della licenza? Perché quel grande giacimento, uno dei più importanti della Nigeria, ha una storia a dir poco travagliata, tanto che ancora oggi non è stato ancora estratto un barile di petrolio. Succede che nel 2001 la Malabu stringe un accordo con il colosso anglo-olandese Shell per la cessione del 40 per cento dei diritti sul lotto. Ma pochi mesi dopo, lo stesso governo democratico che aveva confermato la licenza alla società di Etete gliela revoca. Indice una gara pubblica che viene vinta dalla Shell, che si impegna a versare 210 milioni di dollari al governo (oltre 10 volte quanto chiesto prima a Etete). Ma a questo punto Malabu fa causa al governo, perché rivuole indietro la sua licenza a suo dire illegittimamente revocata. Nel frattempo Shell fa investimenti esplorativi per oltre 350 milioni di dollari che fanno scoprire uno dei più ricchi giacimenti del continente. Ma c’è un altro colpo di scena.

 

Nel 2006, alla vigilia del giudizio con Malabu, evidentemente temendo di soccombere o per altre valutazioni politiche in vista delle elezioni del 2007 dato che Etete è molto potente nel sud del paese, lo stesso governo di Obasanjo revoca la licenza a Shell e la riassegna alla società dell’ex ministro del Petrolio, offrendo in cambio alla multinazionale britannica un qualsiasi altro blocco esplorativo di pari valore. Ma Shell ha già investito e trovato il petrolio e, comprensibilmente, non accetta di sostituire il certo con l’incerto. E così è Shell che fa causa alla Nigeria in un arbitrato internazionale chiedendo un risarcimento da diverse centinaia di milioni di dollari. La situazione è in uno stallo totale in cui tutti perdono: Malabu non monetizza la sua licenza, Shell ha gli investimenti espropriati e non estrae petrolio, la Nigeria non beneficia delle ricadute economiche dello sfruttamento del giacimento.  
     
Come entra in gioco l’Eni? Nel 2009 un intermediario di Etete, Emeka Obi, che ha il mandato esclusivo di Malabu per cercare nuovi partner, parla dell’Opl-245 all’italiano Gianluca Di Nardo che segnala l’affare al faccendiere Luigi Bisignani, suo conoscente, sapendolo amico dell’allora numero uno di Eni Paolo Scaroni. Scaroni a sua volta dice al suo numero due, Claudio Descalzi, di interessarsi alla questione.

  

La situazione è troppo ingarbugliata ed Eni sa benissimo, anche per aver ricevuto in passato una diffida da Shell, che con tutto il contenzioso preesistente non può fare nulla senza un accordo con la compagnia anglo-olandese. Shell, dal canto suo, comprende che per uscire dalla paralisi può essere utile un partner come l’Eni che in Nigeria ha numerosi insediamenti e buoni rapporti istituzionali. Insomma, se ne viene fuori solo se tutte le parti interessate riescono a mettersi d’accordo.

 

A questo punto parte una lunga trattativa, fatta di stop and go, offerte e rifiuti, che si conclude due anni dopo, il 29 aprile 2011, con i cosiddetti Resolution agreement: tre accordi separati che fissano il prezzo della licenza e risolvono tutte le pendenze legali.

 

Nell’accordo principale la Nigeria assegna la nuova licenza a Eni e Shell in cambio di 1,3 miliardi di dollari (1,09 miliardi circa a carico di Eni e 210 milioni di Shell, già versati in un conto bloccato) da versare al governo. Lo stesso giorno vengono firmati altri due accordi separati: uno tra il governo nigeriano e la Malabu di Etete, in cui la società cede la sua licenza al governo per consentirne la nuova assegnazione in cambio dell’impegno del governo a versare a Malabu 1,1 miliardi ricevuti da Eni-Shell; l’altro tra il governo nigeriano e Shell, con cui la multinazionale rinuncia all’arbitrato internazionale per l’indennizzo della precedente revoca della licenza. In questo modo tutti trovano soddisfazione: il contenzioso sparisce; Eni e Shell ottengono una licenza nuova assegnata direttamente dal governo; Etete ottiene finalmente il malloppo; il governo riesce a far partire un importante investimento bloccato da oltre un decennio e si libera di cause legali, come quella con Shell, in cui soccomberebbe.

  

Gli accordi separati del 2011 (tra Eni, Shell, il governo nigeriano e la Malabu di Etete) fissano il prezzo della licenza e risolvono tutte le pendenze legali. La “valanga di merda” sull’Eni del “supertestimone” Vincenzo Armanna. La prova d’innocenza ignorata. La gestione irrituale del teste Amara

     

Ma non è così secondo il pm Fabio De Pasquale. Il Resolution agreement non sarebbe altro che un “accordo cosmetico” per nascondere un patto corruttivo: Eni e Shell, accusate di neocolonialismo, hanno sottratto senza fare una gara pubblica un giacimento alla popolazione nigeriana pagandolo un prezzo troppo basso; quel prezzo è la tangente che va per metà a Etete e per l’altra metà viene spartita tra i pubblici ufficiali nigeriani (incluso il nuovo presidente della Repubblica Goodluck Johnathan) che hanno consentito la svendita dell’Opl-245; inoltre, nella mega mazzetta c’è un extra di 50 milioni di dollari fatti rientrare in Italia nelle tasche dei manager dell’Eni.

   

C’è un pregiudizio ideologico, anticapitalista e terzomondista, nei confronti delle multinazionali che operano in Africa. E c’è un pregiudizio moralistico nei confronti delle persone coinvolte. I giornali sono l’altro pilastro del circo mediatico-giudiziario che si è fatto veicolo della narrazione colpevolista

 

Su quali prove De Pasquale, e i media che per anni gli hanno dato corda, basano le accuse? Prove vere nessuna. Si tratta di un’impalcatura di ragionamenti indiziari e delle accuse del “supertestimone” Vincenzo Armanna, un ex manager dell’Eni con interessi contrapposti e desiderio di vendetta nei confronti di chi l’ha licenziato per aver fatto la cresta sui rimborsi aziendali per centinaia di migliaia di euro. Ma le prove sono superflue, perché nella mente della procura è tutto chiaro. C’è un pregiudizio ideologico, anticapitalista e terzomondista, nei confronti delle multinazionali che operano in Africa. E c’è un pregiudizio moralistico nei confronti delle persone coinvolte. Abbiamo delle multinazionali petrolifere, che di per sé non sono pulitissime; un paese africano come la Nigeria, che notoriamente ha una classe politica corrotta; in mezzo ci sono un intermediario come Luigi Bisignani e un manager come Paolo Scaroni, che la procura di Milano conosce dai tempi di Tangentopoli; infine, un pagamento di circa un miliardo di dollari che per metà viene movimentato in Nigeria in contanti. Com’è possibile che non abbiano rubato? Davvero servono le prove? Per l’accusa basta una sorta di “colpa d’autore”: con quei tipi fatti così è evidente cos’è successo. Ma si tratta di un modo di procedere inaccettabile per i giudici che parlano di “circolarità della tesi accusatoria”: “L’accusa, certamente suggestiva, – scrive il Tribunale nella sentenza di assoluzione – è basata su una lettura degli accadimenti che non è aderente alla realtà degli atti, o meglio, che è basata su un’aporia logica, in quanto presuppone ciò che vuole dimostrare”. L’accusa dà per provato ciò che deve provare.
   
Questo modo di procedere è evidente quando il pm De Pasquale afferma, in sostanza, che per condannare bastano solo gli indizi, dato che è difficile trovare la prova concreta della destinazione dei soldi ai politici di un paese come la Nigeria, “proponendo – così commentano i giudici – una sorta di diritto penale speciale che vede alleggerito l’onere probatorio in ragione della difficoltà di svolgere indagini”.

 

La narrazione colpevolista, quella diffusa per anni da giornali e trasmissioni tv che hanno fatto da megafono alle tesi della procura e dei suoi “supertestimoni” pataccari  è ancora dominante

   

La procura parte da un fatto: del miliardo pagato da Eni al governo nigeriano, a sua volta girato su due conti riconducibili a Etete, circa 500 milioni vengono prelevati e movimentati in contanti da un faccendiere, tale Alhaji Abubaker Alyiu. Per i pm è tutto chiaro: quei soldi sono la tangente poi intascata dal presidente nigeriano Goodluck Johnathan (molto vicino a Etete e amico dell’ad dell’Eni Descalzi) e dagli altri ministri e pubblici ufficiali nigeriani che hanno consentito l’affare. De Pasquale la chiama “tesi del tubo”: il conto del governo nigeriano è come un tubo, i soldi che l’Eni mette dentro sono gli stessi che arrivano a Etete e poi finiscono in tasca ai politici nigeriani. E però si tratta di una semplice ipotesi che dà per dimostrato proprio ciò che dovrebbe dimostrare.

 

Così i giudici demoliscono il ragionamento del tubo di De Pasquale: “Ancora una volta, si assiste a ragionamenti indiziari deboli che partono da fatti certi e arrivano a ritenere provati fatti ignoti sulla base di ragionamenti che non sono resistenti a ragionevoli dubbi derivanti dagli atti di causa”. E’ vero che la movimentazione in contanti di una massa del genere di denaro è un indizio di attività illecita, ma ha una possibile spiegazione alternativa, per giunta più verosimile, alla corruzione dei politici nigeriani. Nel 2010, quando si sa che Malabu sta per chiudere con Eni e Shell, si fa vivo il figlio dell’ex dittatore Sani Abacha che fa causa per bloccare la trattativa sostenendo di essere proprietario al 50 per cento con Etete di Malabu. E’ d’altronde proprio questa ulteriore variabile, su una vicenda già piena di contenziosi, che spinge Eni e Shell a chiudere un accordo direttamente con il governo proprio per evitare di restare impigliate in un’altra causa legale. E pertanto è ben probabile che il faccendiere Abubaker Alyiu non fosse distributore delle tangenti ai politici, ma il rappresentante del socio occulto Abacha: un’ipotesi che trova conferma nel fatto che il compenso inviato dal governo a Malabu è poi stato diviso in due parti uguali, in conti separati, da Etete e dal possibile prestanome di Abacha.
   
Non ci sono quindi prove della corruzione a favore dei nigeriani. E quali sono quelle della mazzetta intascata dagli italiani?
Neppure in questo caso sono stati trovati i soldi o conti riconducibili a Descalzi, Scaroni o ad altri manager dell’Eni, ma qui la costruzione dell’accusa è ancora più inquietante. Il teorema della procura si basa sulle rivelazioni, e quindi sulla credibilità, di Vincenzo Armanna.

 

Chi è? Armanna era un dirigente dell’Eni in Nigeria, licenziato nel 2013 dal Cane a sei zampe per una truffa di oltre 300 mila euro di rimborsi non giustificati. L’anno successivo Armanna, che è tra gli imputati, si presenta spontaneamente in procura a Milano per affermare che Emeka Obi è un finto intermediario di Etete: in realtà si tratta di uomo dell’Eni usato come veicolo per prendere una commissione sull’operazione da retrocedere ai manager italiani, che erano consapevoli che in tutto l’affare una fetta sarebbe andata ai politici nigeriani. Quella di Armanna, in realtà, è la versione di Etete. Perché nel frattempo è accaduto che i due intermediari Obi e Di Nardo, bypassati nell’accordo finale chiuso dall’Eni direttamente con il governo, fanno causa a Malabu per ottenere la loro provvigione presso una Corte commerciale inglese, che sequestra 215 milioni di dollari degli 1,1 miliardi pagati da Eni alla Nigeria. Il motivo per cui Etete diceva che Obi era un uomo dell’Eni e non il suo mediatore è ovvio: non voleva pagarlo. Ma la giudice Elisabeth Gloster, dell’Alta corte inglese specializzata in controversie commerciali internazionali, nella sua sentenza ha accertato non solo l’esistenza di un legittimo mandato affidato da Malabu a Obi, ma anche che il lavoro di mediazione non era stato fittizio e che quindi la commissione non era solo legittima ma doverosa, quantificandola nell’8,5 per cento dell’affare (110,5 milioni di dollari).

   

La procura di Milano, invece, non ha creduto alla ricostruzione della giudice Gloster ma alla versione di Etete e Armanna, e così ha sequestrato la somma della commissione mandando a processo Obi e Di Nardo per corruzione internazionale. Alla fine i due intermediari, che avevano chiesto il rito abbreviato, sono stati assolti in appello a giugno del 2021 su richiesta della stessa procura generale con una sentenza ora definitiva. Uno dei ragionamenti logici fatti dai giudici, oltre alle prove emerse, è che se Obi e Di Nardo avessero realmente fatto parte del patto corruttivo non avrebbero fatto una causa civile al loro sodale Etete, con il rischio di far emergere un grave illecito e quindi un procedimento penale a loro carico.
 
In ogni caso, da quando il 30 luglio 2014 si presenta in procura, Armanna diventa il super testimone di De Pasquale e una delle principali fonti di diversi media italiani che veicolano le sue dichiarazioni largamente false e calunniose. Da quel momento Armanna rilascia interviste e continua a fare deposizioni ai magistrati. Poi, nel 2016, improvvisamente, manda ai pm una comunicazione in cui si rimangia tutte le accuse all’ad dell’Eni Descalzi, scagionandolo. Successivamente ritratta ancora, ovvero vomita ciò che si era rimangiato, sostenendo di essere stato avvicinato dall’Eni attraverso l’avvocato Piero Amara che gli aveva proposto di ritirare le accuse a Descalzi in cambio di una riassunzione all’Eni: una trattativa conclusasi con il famoso “patto della Rinascente”, dove il capo del personale dell’Eni Claudio Granata avrebbe consegnato ad Armanna i punti della ritrattazione da inviare ai magistrati. Il racconto di Armanna è tenuto in grande considerazione da De Pasquale, tanto da farlo ritenere un “indizio di reità” a carico di Descalzi: in sostanza, l’ad dell’Eni ha tentato di condizionare o corrompere il testimone perché è colpevole. Ma è una ricostruzione falsa: sempre la procura di Milano, nel procedimento parallelo sul depistaggio, dopo le insistenze di Storari, ha recentemente chiuso l’indagine accusando Armanna e Amara di calunnia nei confronti di Descalzi, che non era il burattinaio bensì la vittima delle manovre dei due.
    
Eppure De Pasquale si fida molto, quasi ciecamente, di ciò che dice Armanna. Il problema è che si tratta di un teste completamente inattendibile. La vicenda della retrocessione dei 50 milioni agli italiani è, da questo punto di vista, emblematica. Armanna ha dichiarato di aver saputo da un tale Victor Nwafor, responsabile della security del presidente della Nigeria, che gli aveva anche mostrato le foto del misfatto, che alcune vetture avevano consegnato nella villa nigeriana del manager dell’Eni Roberto Casula due trolley contenenti 50 milioni di dollari in contanti: è la fetta della corruzione che spetta agli italiani. Il fatto, però, è che non si tratta di un carico così agevole da portare in giro. Secondo i calcoli di una perizia della difesa, 50 milioni di dollari in banconote da 100, il taglio massimo emesso dalla zecca degli Stati Uniti, pesano oltre 500 kg. E il problema non è tanto il peso, bensì il volume: perché pur considerando i trolley più grandi disponibili sul mercato, non ne bastano due a contenere quella massa di denaro: ne servono almeno tre.

    

Ma il punto più basso della credibilità di Armanna è stato toccato con la vicenda dei due Victor. Chiamato a testimoniare al processo Victor Nwafor, la persona citata da Armanna come fonte principale e diretta delle accuse ai manager Eni, risponde al pm di non aver mai conosciuto Armanna né Casula. A quel punto, Armanna sostiene che quello interrogato non è il vero Victor. O meglio, che la persona che gli aveva raccontato quelle storie si era probabilmente presentato con il nome falso di Victor Nwafor. E così Armanna prende l’impegno di trovare il “vero Victor”, che poi sarebbe quello falso. E pareva che l’avesse scovato, visto che successivamente il pm riceve una mail da un tale Isaac Eke che sostiene di aver conosciuto Armanna presentandosi con il nome falso di Victor Nwafor.

   

Ma, sorpresa, anche il secondo Victor durante la testimonianza smentisce tutto: non ha mai fatto parte della security del presidente della Nigeria, non si è mai presentato ad Armanna col nome falso di Victor, non ha mai conosciuto nessuno dell’Eni e la mail inviata alla procura gli è stata scritta da un amico nigeriano di Armanna. Questa scenetta tragicomica non è bastata a far crollare le accuse, anzi, per De Pasquale e Spadaro è quasi una prova perché conferma “la difficoltà di avere a che fare con persone che gravitano nell’intelligence nigeriano” e, in ogni caso, sempre secondo i pm, tutta la movimentazione del denaro in questa vicenda riscontra “a sufficienza, quantomeno dal punto di vista logico, la vicenda della consegna dei contanti nei due voluminosi trolley”. Non si capisce cosa significhi, ma evidentemente non ha convinto i giudici secondo cui “l’imbarazzante audizione di un uomo giunto dalla Nigeria per smentire il contenuto di una missiva che lui stesso aveva sottoscritto solo alcuni giorni prima” conferma “l’incredibile spregiudicatezza con la quale Vincenzo Armanna utilizza gli strumenti processuali per finalità personali, arrivando a orchestrare un impressionante vortice di falsità di cui, infine, egli stesso ha perso il controllo”.
    
In realtà in questa storia non è ben chiaro chi sia lo strumento di chi, se la magistratura inquirente del disegno di calunniatori o viceversa. Si tratta, più probabilmente, di un rapporto simbiotico. Due sono gli episodi emblematici di questo intreccio perverso. Il primo è quello grave del video di Armanna, per cui ora De Pasquale e Spadaro sono indagati a Brescia per omissione di atti d’ufficio.

 

La storia è questa. A un certo punto, durante un’udienza, il difensore di Casula dice di essere venuto a conoscenza, attraverso gli atti di un altro procedimento, dell’esistenza di un video sequestrato all’imprenditore Ezio Bigotti che aveva registrato un incontro nella sede della sua società con Armanna, Amara e altri personaggi. Nella registrazione, in possesso dell’accusa ma non depositata e messa a disposizione delle difese, Armanna parla con gli interlocutori di possibili affari nel settore petrolifero in Nigeria che però sono ostacolati dalla presenza del manager di Eni Ciro Antonio Pagano, uomo di fiducia di Casula. E pertanto Armanna, che puntava alla sostituzione dei vertici Eni in Nigeria, dice che si sarebbe “adoperato” per “far arrivare loro un avviso di garanzia” facendogli piombare addosso una “valanga di merda”.

  

Fermo immagine del video acquisito in tribunale dalla procura di Brescia, che ritrae Armanna e l'avvocato Piero Amara - ANSA  
   

Ciò che più è importante è la data di quel video: 28 luglio 2014. Due giorni dopo Armanna si presenta alla procura di Milano per far partire l’annunciata “valanga di merda” sull’Eni. Per De Pasquale si tratta di un video innocuo, che rivela solo la natura “da spaccone” di Armanna. Mentre per i giudici l’omissione del deposito del video da parte dei pm “risulta incomprensibile” perché “portando alla luce l’uso strumentale che Vincenzo Armanna intendeva fare delle proprie dichiarazioni e della auspicata conseguente attivazione dell’autorità inquirente, reca straordinari elementi in favore degli imputati. Una simile decisione processuale, se portata a compimento, avrebbe avuto quale effetto la sottrazione alla conoscenza delle difese e del Tribunale di un dato processuale di estrema rilevanza”.

 

Insomma, è davvero anomalo che dopo aver imbastito un’inchiesta con soli indizi e senza prove, i pm abbiano ignorato l’unica vera prova a disposizione. Il problema, evidentemente, era che si trattava di una prova che scagionava gli imputati. “Il contenuto del documento – scrive il tribunale – è dirompente”, perché rivela la natura di Armanna e “dimostra l’attitudine del soggetto a sfruttare per fini personali il sistema giudiziario e la conseguente eco mediatica derivante dalla pubblicazione di notizie riguardanti le indagini in corso”. I giornali, appunto, sono l’altro pilastro del circo mediatico-giudiziario che si è fatto, più o meno consapevolmente, strumento delle propalazioni di Armanna e veicolo della narrazione colpevolista.

  

Dopo la lettura della sentenza per i 15 imputati, società comprese, nel processo per corruzione internazionale (Ansa / Matteo Corner) 

     

L’altro episodio anomalo del rapporto tra magistrati e pseudopentiti riguarda la gestione di Piero Amara, sodale di Armanna in depistaggi e manipolazione delle inchieste. A un certo punto, quando il processo è ormai agli sgoccioli, la procura tenta di portare a testimoniare l’avvocato Amara, che nel frattempo per sfuggire alle numerose inchieste in cui è coinvolto stava rendendo ai pm milanesi dichiarazioni calunniose e inverosimili sulla fantomatica loggia Ungheria. Amara, nelle intenzioni della procura, avrebbe dovuto parlare di “interferenze da parte della difesa Eni e di taluni imputati nei confronti di magistrati di uffici giudiziari milanesi con riferimento al processo Opl-245”. Si trattava di una pesante insinuazione sul presidente del collegio giudicante, Marco Tremolada, che secondo Amara sarebbe stato avvicinato dai legali dell’Eni: un’insinuazione dimostratasi falsa, subito archiviata dalla procura di Brescia, che però puntava a delegittimare i giudici fino a una possibile ricusazione. L’estremo tentativo di bloccare la partita con una specie di invasione di campo è però fallito.

     

La gestione di Amara da parte della procura guidata da Francesco Greco è stata davvero irrituale, perché da un lato si temporeggiava e si usava massima prudenza sulle dichiarazioni che riguardavano la loggia Ungheria e dall’altro si accelerava inviando immediatamente alla procura di Brescia l’accusa sul giudice Tremolada. E’ comprensibile che un comportamento del genere suscitasse apprensione e retropensieri nel pm Paolo Storari che, evidentemente, svolgendo le indagini parallele sul “depistaggio Eni” aveva ben compreso l’inattendibilità di Armanna e Amara. Questa inquietudine ha poi spinto Storari a fidarsi di Piercamillo Davigo, suo punto di riferimento al Csm, consegnandogli informalmente dei verbali secretati poi finiti ai giornali e che Davigo avrebbe usato, secondo l’accusa mossagli dal suo ex amico Sebastiano Ardita nel processo in corso a Brescia, per “screditare il ruolo istituzionale di consigliere del Csm” di Ardita. Insomma, una sorta di dossieraggio. Ma questo è un film ancora tutto da vedere.
    

Gli imputati del processo Eni-Nigeria sono stati tutti assolti con formula piena: 15 persone tra dirigenti di Eni, di Shell, mediatori italiani e nigeriani, oltre alle due società petrolifere. Mentre sono diversi i magistrati a vario titolo indagati per come hanno gestito l’inchiesta. E’ la Caporetto della giustizia italiana

   
Al momento si può constatare che gli imputati del processo Eni-Nigeria sono stati tutti assolti con formula piena: 15 persone tra dirigenti di Eni, dirigenti di Shell, mediatori italiani e nigeriani, oltre alle due società petrolifere. Mentre sono diversi i magistrati a vario titolo indagati per come hanno gestito l’inchiesta e gli atti a essa collegati: De Pasquale, Spadaro, Pedio, Storari, Davigo... E’ la Caporetto della giustizia italiana. Eppure se ne parla poco. Non si discute abbastanza di come sia possibile in una democrazia liberale che una procura porti avanti un processo basandosi su un mix di cose false, cose non dimostrate e cose vere che però hanno altre possibili spiegazioni. E per giunta ignorando, o addirittura nascondendo, le prove a discolpa degli imputati.

 

Nonostante le assoluzioni, il processo non è stato indolore per l’Eni: i procedimenti giudiziari hanno bloccato la conversione della licenza da esplorativa a estrattiva e l’11 maggio 2021, due mesi dopo l’assoluzione, la licenza per il blocco Opl-245 è scaduta. Sono trascorsi i 10 anni dall’acquisto da parte di Eni e Shell, che nel frattempo hanno investito 2,5 miliardi di dollari senza tirare fuori una goccia di petrolio. E’ evidentemente questa la “depredazione delle risorse di epoca coloniale” di cui parlano i pm De Pasquale e Spadaro.
 

  • Luciano Capone
  • Cresciuto in Irpinia, a Savignano. Studi a Milano, Università Cattolica. Liberista per formazione, giornalista per deformazione. Al Foglio prima come lettore, poi collaboratore, infine redattore. Mi occupo principalmente di economia, ma anche di politica, inchieste, cultura, varie ed eventuali