quale giustizia?

Il caso Davigo e la ricaduta sulle istituzioni

Luciano Capone

Perché a Brescia non è in ballo la sua sorte personale, ma quella della nostra democrazia: se il comportamento dell'ex pm ai danni di Ardita fosse ritenuto lecito, il Csm diventerebbe una centrale di dossieraggio istituzionalizzato

Dopo tre ore d’interrogatorio davanti al gup di Brescia, dove il suo assistito è imputato per rivelazione del segreto d’ufficio relativa ai famigerati verbali di Piero Amara, questo è stato il commento dell’avvocato di Piercamillo Davigo: “Tutto quello che ha fatto, lo ha fatto nel rispetto della legge”. Ma sarebbe proprio questo lo scenario più inquietante.

A preoccupare infatti non dovrebbe essere l’ipotesi alternativa, cioè che un membro del Csm, come era Davigo, abbia commesso un reato. Sarebbe grave, ma tutto sommato fisiologico: capita in ogni organizzazione umana che qualcuno sbagli. E nel caso di Davigo, molto probabilmente, un’eventuale condanna non sposterebbe più di tanto l’idea che l’opinione pubblica ha su di lui: chi lo reputa un eroe senza macchia e senza paura continuerebbe a ritenerlo tale, mentre chi ne ha scarsa considerazione rafforzerebbe solo la sua convinzione. Sarebbe, invece, molto più inquietante se la giustizia stabilisse che la sua condotta è legittima. E questo non per un improvviso fremito giustizialista, per il gusto che si ha nel vedere l’inquisitore alla sbarra, il simbolo di Mani pulite colto con le mani nella marmellata. Ma per la ricaduta istituzionale di un esito del genere.

 

Ripercorriamo brevemente i fatti. Davigo si fa consegnare dal pm Paolo Storari, che lamenta l’inerzia della procura di Milano, i verbali con le dichiarazioni non verificate di un noto mistificatore su una loggia massonica chiamata "Ungheria" che condizionerebbe le istituzioni. E una volta ricevuti i verbali, ne fa un uso privatistico: Davigo non pare preoccuparsi più di tanto dei problemi di Storari con i suoi capi, ma li usa per delegittimare il consigliere del Csm, suo ex amico e compagno di corrente Sebastiano Ardita, spifferando a molti membri del Csm e anche a un politico come il presidente della Commissione antimafia Nicola Morra che Ardita è coinvolto in un’inchiesta su una loggia massonica. E così spiega perché bisogna stare alla larga da un tipo del genere.

Ardita si è costituito parte civile perché si ritiene diffamato da accuse che Davigo sapeva essere calunniose e che ha diffuso al solo scopo di screditarlo. Ma la questione rilevante non è la lite personale (chi ha ragione tra Davigo e Ardita) né il merito (se cioè davvero Ardita faccia parte di una specie di nuova P2 o se, come pare evidente, sia solo una calunnia), ma il metodo. Se la condotta di Davigo fosse ritenuta lecita, vorrebbe dire che un consigliere del Csm può legittimamente ricevere atti segreti d’indagine da un qualsiasi pm e che può usare queste informazioni riservate, sempre in via informale, per regolare i conti con i nemici fino a condizionare il funzionamento di un organo costituzionale.

 

Vuol dire che il Csm, più che l’organo di autogoverno della magistratura, diventerebbe una centrale di dossieraggio istituzionalizzato, con un incontrollato potere di ricatto e condizionamento su qualunque persona o organismo. In questa brutta storia non è in ballo la sorte di Davigo, ma quella delle istituzioni democratiche.

  • Luciano Capone
  • Cresciuto in Irpinia, a Savignano. Studi a Milano, Università Cattolica. Liberista per formazione, giornalista per deformazione. Al Foglio prima come lettore, poi collaboratore, infine redattore. Mi occupo principalmente di economia, ma anche di politica, inchieste, cultura, varie ed eventuali