Gli errori nella riforma della Giustizia secondo l'ex vicepresidente del Csm Michele Vietti
Svoltine e topolini. “Lo strumento mi sembra inadeguato. Intervenendo a suon di emendamenti al ddl Bonafede, la capacità di azione è limitata e il percorso parlamentare si preannuncia travagliato"
“La montagna ha partorito il topolino”, dice al Foglio l'ex vicepresidente del Csm Michele Vietti che negli emendamenti approvati dal governo in materia giudiziaria vede più ombre che luci. “Da due anni si fa un gran parlare di 'sistema' e 'correntocrazia', eppure si è atteso l'intervento del presidente della Repubblica Mattarella per dare un segnale, seppur timido, di cambiamento”.
Presidente, il Cdm ha approvato le modifiche al ddl in discussione in Parlamento per la riforma della giustizia. Qual è il suo giudizio?
“Lo strumento mi sembra inadeguato. Intervenendo a suon di emendamenti al ddl Bonafede, la capacità di azione è limitata e il percorso parlamentare si preannuncia travagliato. Capisco che l'adozione di un decreto legge in questa materia comporta una forzatura politica ma il veicolo utilizzato è una navicella molto fragile”.
La prima novità per il Csm è che si torna a trenta componenti: venti togati scelti dai magistrati e dieci dal Parlamento, come era prima della riforma del 2002.
“Aumentare il numero dei componenti mi sembra un assurdo, non se ne vede la ragione. Io che ho presieduto l'assemblea a ventiquattro posso assicurare che è veramente complicato, a trenta rischierebbe di essere un'assise ingestibile”.
Cambiano le norme elettorali: quattordici consiglieri saranno eletti con il maggioritario basato su collegi binominali, il quindicesimo (un pm) sarà il terzo più votato da individuare attraverso un calcolo ponderato, i rimanenti cinque saranno scelti tra i giudici con un sistema di voto proporzionale su base nazionale.
“La legge elettorale è un gran pasticcio, assomma i difetti dei due sistemi. Con un collegio nazionale per la quota proporzionale, è chiaro che solo il magistrato sostenuto dalle correnti potrà affrontare una campagna elettorale con chance di successo. Servirà l'appoggio delle correnti per competere. Io continuo a pensare che sarebbe meglio introdurre una forma di sorteggio almeno in seconda battuta. Si potrebbe far votare una platea pari al doppio dei componenti e poi estrarre tra costoro i componenti finali. Altrimenti tutti i discorsi sul ridimensionamento del ruolo delle correnti si riveleranno aria fritta”.
Insomma, lei non è soddisfatto.
“Si applica un pannicello caldo senza affrontare i nodi veri del Consiglio. Il primo problema è la durata: quattro anni sono pochi e la scadenza avviene per tutti nello stesso momento. Il mandato andrebbe esteso a cinque anni prevedendo, come per la Corte costituzionale, la decadenza dei consiglieri con tempi differenziati”.
Il governo ha scelto la linea dura contro le cosiddette “porte girevoli”: chi viene eletto non potrà tornare alle funzioni giurisdizionali, per i non eletti ci sarà un limbo di tre anni prima di tornare a esercitarle.
“Sul punto sono d'accordo, era tempo di fissare una netta demarcazione, tuttavia penso che non si possa equiparare un eletto in Parlamento o in un ente locale con il capo di gabinetto o dell'ufficio legislativo. Sono ruoli tecnici, non assimilabili a chi si candida a svolgere un ruolo politico. E poi, contrariamente a quanto si pensa, l'assegnazione al massimario della Cassazione comporta l'esercizio di funzioni giurisdizionali”.
E' d'accordo con la proposta del presidente della Fondazione Leonardo Luciano Violante volta ad assegnare il giudizio disciplinare ad un'alta corte esterna?
“Sono totalmente d'accordo, aggiungo che a questa corte esterna andrebbe affidato il compito di gestire i procedimenti disciplinari per tutte le magistrature. Ci poniamo il problema degli ordinari ma quello degli amministrativi e dei contabili non è meno rilevante, è giustizia domestica anche la loro”.
E per gli incarichi direttivi?
“Le norme sulle nomine sono diventate ormai le munizioni per i ricorsi al Tar. Io penso che tali questioni non possano essere lasciate al Tar che decide come se si trattasse di delibere sull'acquedotto comunale. Le nomine dei direttivi andrebbero impugnate in unico grado davanti a una sezione a composizione speciale del Consiglio di stato, solo in questo modo si potrebbe avere sufficiente garanzia che sia apprezzato l'inevitabile margine di discrezionalità insito in questi atti che sono scelte anche politiche. L'organo costituzionale di governo della magistratura deve poter scegliere i propri direttivi: deve farlo bene, certo, ma è sacrosanto un margine di discrezionalità. S'illude chi pensa che si possa risolvere ogni controversia applicando il testo unico di cento articoli che, come prevedibile, ha aumentato spropositatamente il numero dei ricorsi al Tar”.
Sarà almeno favorevole all'inclusione di avvocati e professori universitari nei consigli giudiziari...
“Quando ho presieduto la commissione per la riforma dell'ordinamento giudiziario, anch'io ho proposto il loro coinvolgimento, tuttavia sarebbe sbagliato pensare che si possa scaricare soltanto sugli avvocati il problema delle valutazioni di professionalità di giudici e pm. Attendo di vedere un avvocato che mostra il pollice verso in un consiglio giudiziario. Devono essere i capi degli uffici giudiziari, che conoscono la qualità dei propri magistrati, a giudicarli con rigore e trasparenza”.
L'editoriale del direttore