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I trent'anni di mediatizzazione del processo penale

Giovanni Fiandaca

La prassi delle relazioni incestuose tra stampa e magistratura, sorretta dalla logica dello scambio di favori, è perdurata,  con conseguenze negative. Ecco il processo che manca al circo mediatico-giudiziario

Il testo che pubblichiamo è una parte dell'intervento all’incontro-dibattito, organizzato dalla Anm sezione di Milano, su “Mani pulite trent’anni dopo. Magistratura e lotta alla corruzione prima e dopo Tangentopoli”. All’appuntamento, in programma oggi pomeriggio nell’Aula magna del Palazzo di giustizia di Milano, intervengono, oltre a Giovanni Fiandaca, Gaetano Silvestri e Benedetta Tobagi, Gherardo Colombo, Mario Consani e Sergio Cusani, Vinicio Nardo e Giuseppe Santalucia.  


Una premessa sembra scontata. A trent’anni ormai di distanza, dovremmo essere a maggior ragione capaci di guardare a Mani pulite con un atteggiamento mentale egualmente lontano dalla esaltazione celebrativa e dalla critica demolitrice preconcetta. Quella che è stata definita una “rivoluzione giudiziaria” non è stata una impresa giurisdizionale non solo straordinaria, ma anche così esemplare da additare a modello di riferimento meritevole di essere replicato, e non è stata neppure il risultato di un golpe o di una congiura ad opera di “poteri forti” o di settori politici in combutta con parte della magistratura. E’ stata piuttosto una impresa complessa per la molteplicità dei fattori anche di natura extragiudiziaria che la hanno influenzata, e altresì non priva di aspetti ambivalenti e persino paradossali. Insomma, l’esperienza complessiva di Mani pulite presenta sia luci che ombre; e la valutazione circa la rispettiva prevalenza delle une o delle altre finisce con l’essere, inevitabilmente, condizionata dalla soggettiva angolazione prospettica e dall’orientamento politico di chi la effettua.
Proprio in considerazione della sua variegata complessità, Mani pulite non può essere analizzata con le sole lenti del giurista. Non secondario rilevo assumono, infatti, profili di rilevanza sia storiografica, sia economica, socio-criminologica, politologica e financo psicologica. Ne deriva che anche uno studioso di diritto penale che sia interessato a rivisitare Mani pulite nell’insieme delle sue peculiarità caratterizzanti, non può fare a meno di toccare o lambire territori disciplinari che trascendono la sua stretta competenza.

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Cominciando dal generale contesto storico-politico, è noto che la situazione italiana dei primi anni Novanta dello scorso secolo era caratterizzata dall’esistenza di un sistema partitico già in grave crisi di legittimazione e di funzionamento e dalla ricerca di nuovi equilibri che però faticavano a manifestarsi. A determinare questa obiettiva condizione di incertezza e confusa transizione concorreva una pluralità di fattori di natura sia interna, sia internazionale (ci si riferisce per un verso all’effetto politicamente destabilizzante prodotto dalla caduta del Muro di Berlino e dalla fine della “guerra fredda” e, per altro verso, alle ricadute della  globalizzazione e dei rigidi paletti economico-finanziari imposti dal Trattato di Maastricht)  che la storiografia ha messo in evidenza sia pure con approcci ricostruttivi variamente articolati. Ma vi è una tendenziale convergenza di vedute, tra gli storici, nel riconnettere le cause della grave crisi di sistema dei primi del Novanta a fattori politico-economici di debolezza e di stallo nello sviluppo risalenti agli anni Settanta e Ottanta, e progressivamente aggravatisi. Tra questi fattori, la storiografia contemporanea inserisce la risalente presenza di fenomeni corruttivi, l’emersione di alcune precedenti Tangentopoli e la sempre più insistita, negli anni successivi, tematizzazione della “questione morale”, impugnata come arma di battaglia da parte del Pci (poi Pds) e di forze politiche anche di destra (come il Msi), nonché di nuovi movimenti intenzionati a combattere i partiti di governo sempre più delegittimati. Ma in questa denuncia della corruzione diffusa e nella lotta contro il degrado morale non erano soltanto impegnati alcuni partiti e movimenti: svolgevano un’azione di supporto anche settori (specie di orientamento progressista) del mondo intellettuale, del giornalismo scritto e parlato ed esponenti della parte della magistratura politicamente più impegnata (come Magistratura democratica), che però finivano così con l’accreditare una lettura orientata in senso forse troppo schematicamente moralistico di una crisi generale dovuta invece a un insieme complesso di cause eterogenee strettamente intrecciate. 
Ancorché questa complessità multicausale dovesse mettere in guardia dall’attribuire all’azione giudiziaria un ruolo decisivo nel promuovere il rinnovamento politico e la moralizzazione del paese, il Pci divenuto Pds e le altre forze interessate a rimpiazzare – secondo una retorica allora in voga – il governo dei corrotti col “governo degli onesti” fornirono un pieno sostegno a Mani pulite confidando, per calcolo anche opportunistico, che l’attività repressiva potesse favorire quell’auspicato rinnovamento che non si era capaci di promuovere per via politica. E questo ampio appoggio non venne meno neppure di fronte all’emergere, all’interno dello stesso orizzonte politico di sinistra, di dubbi e riserve sulla legittimità o correttezza di certe modalità operative del pool milanese, o di preoccupazioni sul possibile sconfinamento della giurisdizione penale dai suoi limiti istituzionali di competenza, essendo infine prevalsa – peraltro anche in ampi settori del mondo giornalistico e del ceto intellettuale – la convinzione che “il fine giustifica i mezzi”: cioè che l’obiettivo di risanare la vita politica rendesse tollerabile una guerra giudiziaria difficilmente compatibile con i principi del garantismo penale. Ma la cultura garantista, in Italia, non è mai stata dominante fuori dai recinti della dottrina giuridica in particolare accademica.

 

E’  pur vero, d’altra parte, che non tutte le voci allora disposte a giustificare – per radicalismo etico-politico o machiavellico calcolo – certi eccessi e straripamenti giudiziari come costi da sopportare in vista dell’auspicato rinnovamento, hanno ribadito questo stesso punto di vista ormai a vent’anni o più di distanza: piuttosto, è andata aumentando la presa d’atto che è stato sbagliato confidare troppo nella funzione salvifica della magistratura, imprudente assecondare il giustizialismo popolare e miope non prevedere che gli effetti di un  terremoto giudiziario sull’evoluzione del sistema politico avrebbero potuto essere  più dannosi che vantaggiosi.
Comunque la si giudichi oggi, è storiograficamente pressoché pacifico che l’impresa di Mani pulite ha dato un contributo decisivo alla uscita di scena dei partiti sino a quel momento al governo del paese. Ma questo contributo è stato con-causale, dal momento che nella catena eziologica di questa scomparsa bisogna tenere conto della presenza di altre concause: tra queste, è da porre in risalto l’incapacità dei dirigenti e degli esponenti dei partiti maggiormente coinvolti nelle indagini di reagire con atti politici, il loro annichilimento psicologico e morale, la loro soggezione passiva e spaventata agli umori antipartitici e giustizialisti della piazza, a loro volta alimentati dalla  campagna mediatica di fiancheggiamento dell’azione repressiva; un quasi- suicidio politico, insomma, non impedito o agevolato da quei versanti partitici che – come nel caso del Pds – speravano di trarre vantaggio dal crollo dei vecchi partiti delegittimati. Non manca anche di recente, però, chi sul piano causale tende altresì ad attribuire un non trascurabile rilevo al (supposto) “obiettivo ultimo” dei magistrati milanesi di occupare “spazi politici”, obiettivo che risulterebbe – tra l’altro – confermato dai numerosi passaggi successivi dalle file della magistratura alle cariche politiche nei partiti e in Parlamento, in particolare nelle file della sinistra. Senonché sembra più verosimile – come si rileverà anche appresso – che i magistrati del pool, piuttosto che perseguire il precostituito obiettivo finale di assumere in proprio cariche politiche, fossero animati dall’intenzione lato sensu politica di ingaggiare una guerra giudiziaria contro un sistema corrotto.  

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Rispetto al problematico rapporto tra politica e giurisdizione, un nodo essenziale era stato segnalato già all’inizio del 1993 dall’allora procuratore generale della Cassazione Vittorio Sgroi: il quale rilevò che il contrasto della corruzione sistemica faceva assumere alla magistratura – cito tra virgolette – “un ruolo che è obiettivamente decisivo nella vita del Paese e che costituisce l’avvio di improprie supplenze (…) ha caricato di una responsabilità anomala la magistratura fino a rischiare di stravolgerne la collocazione istituzionale”. Ma, in verità, non si è trattato soltanto di un rischio. L’onestà intellettuale impone di riconoscere che la sovraesposizione politica del potere giudiziario connessa alla lotta alla corruzione sistemica, più che in termini di mero rischio, si è verificata come dato di fatto difficilmente contestabile (e ciò anche a prescindere dall’eventuale intenzione soggettiva dei singoli magistrati impegnati nell’attività investigativo-repressiva). A conferire una valenza oggettivamente politica all’azione giudiziaria era proprio il carattere sistemico della corruzione politico-amministrativa e il fatto, conseguente, che sul banco degli imputati finiva quasi un intero ceto politico in concorso con un ceto imprenditoriale colluso. E però sarebbe ingenuo non considerare più che verosimile una aggiuntiva volontà soggettiva dei magistrati milanesi di finalizzare le indagini anche ad obiettivi più generali di rinnovamento politico e moralizzazione collettiva, in sé meritori ma di problematica compatibilità con gli scopi istituzionali della giurisdizione penale. Certo, segnava un grande passo avanti – ed era perciò da salutare come una conquista in termini di civiltà e moralità giuridica – il fatto che il magistero punitivo si mostrasse finalmente capace di processare e sanzionare una macro-criminalità sistemica, così interrompendo anche simbolicamente una tradizione di prevalente e compiacente impunità di cui avevano beneficiato il ceto politico e il mondo economico-imprenditoriale (anche se a questa affermazione di giustizia e legalità egualitarie si accompagnavano popolari umori “giustizialisti” di meno nobile sorgente). Ma questo importante passo avanti comportava, proprio per il sovrappiù di politicità connesso a una repressione su vasta scala riferita al sistema politico-partitico, rilevanti costi sotto il profilo dell’equilibrio costituzionale complessivo; nel contempo, si alimentava nell’opinione pubblica (e in particolare nei settori più entusiasti del ‘repulisti’ giudiziario) l’illusione che la giustizia punitiva potesse fungere da strumento idoneo a estirpare la corruzione diffusa.

 

A prescindere dal coefficiente di pregiudiziale simpatia o antipatia verso Mani pulite, una cosa sembra fuori discussione: l’abbattimento finale per via giudiziaria del sistema dei partiti di governo della cosiddetta Prima Repubblica ha rappresentato un evento molto drammatico e traumatico, produttivo di effetti di lunga durata rispetto a una ben nota patologia (soprattutto) italiana destinata a cronicizzarsi, cioè  a quella sorta di grave nevrosi politico-istituzionale costituita dal conflitto tra politica e magistratura. Conflitto che ha – tra l’altro – fatto sì che una politica rimasta prevalentemente debole ha continuato a subire in varia forma un forte condizionamento inibente o oppositivo da parte del potere giudiziario, percependosi per di più – a torto o a ragione – come una specie di sorvegliata speciale quasi sotto controllo ricattatorio-ritorsivo, e comunque rivelandosi sino ad oggi incapace di riacquisire l’autorevolezza, la credibilità e il coraggio necessari per ripristinare rapporti di maggiore equilibrio istituzionale.


Eppure, non si può dire che la magistratura penale considerata nel suo insieme abbia, dopo i primi anni Novanta dello scorso secolo, durevolmente mantenuto un livello alto di legittimazione e consenso per importanza e continuità di azioni investigativo-repressive, professionalità, efficienza, rispetto dei principi di garanzia e capacità di elaborazione culturale. Piuttosto, sono andati progressivamente aumentando i casi di indagini avventate o spericolate destinate a esiti fallimentari, di proscioglimenti o assoluzioni spesso tardive di politici e amministratori pubblici sospettati troppo affrettatamente di condotte delittuose, come pure sono andati crescendo i fenomeni di improprio protagonismo sia mediatico che politico di alcuni esponenti della magistratura specie d’accusa. 

E, dal canto suo, l’associazionismo giudiziario si è articolato in gruppi associativi (cosiddette correnti) sempre più trasformatisi da luoghi di riflessione e orientamento culturale in strutture di potere operanti secondo una logica clientelare e metodi di tipo spartitorio. Ma vi è di più. Questa degenerazione funzionale si è anche manifestata in forme di maggiore gravità a causa di note vicende che hanno fatto emergere precostituite cordate politico-magistratuali finalizzate a orientare la scelta dei vertici di importanti uffici giudiziari e, financo, relazioni a carattere favoritistico sfocianti in scambi corruttivi. Sicché, il fenomeno della corruzione non è risultato estraneo neppure a quella istituzione deputata a fronteggiarlo con le armi del diritto e del processo penale. Ciò a riprova del fatto che l’appartenenza all’ordine giudiziario di per sé non garantisce un superiore livello di moralità, e che l’esercizio della funzione di magistrato di per sé non giustifica o rende credibile la pretesa di moralizzare gli altri.

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Come non sono certo il primo a rilevare, l’esperienza di Mani pulite si è intrecciata con e si è alimentata di pulsioni antipolitiche e ventate populiste riconducibili a movimenti e partiti (come la Lega o la Rete) espressivi della protesta contro l’establishment politico di allora, che essa ha dal canto suo contribuito a interpretare e rafforzare in guise tali da confondere peraltro il confine tra lotta politica e lotta giudiziaria. Se non allo stesso modo e nella stessa misura tutti i componenti principali del pool, la sua figura più popolare e al tempo stesso più discutibile, cioè Antonio Di Pietro, col suo inedito e ossimorico stile di magistrato (una sorta di grande poliziotto un po’ duro un po’ comprensivo), le sue caratteristiche di personalità (un curioso incrocio tra un Robespierre e un “arcitaliano”) e la sua sicura vocazione populista mediaticamente amplificata ha fornito un rilevante contributo alla crescita del populismo politico nel nostro paese, nonché  all’affermarsi di quel fenomeno che è stato anche da me etichettato come populismo giudiziario, in seguito  impersonatosi in altri pubblici ministeri-star più o meno emuli del loro predecessore molisano-milanese: pubblici accusatori accomunati cioè dalla pretesa di assurgere ad autentici interpreti dei reali interessi e delle aspettative di giustizia del popolo, al di là della mediazione formale della legge e altresì  in una logica di supplenza o addirittura di manifesta contrapposizione al potere politico ufficiale, così finendo col trarre (piuttosto che dal vincolo alla legge) dal consenso e dal sostegno popolare la principale fonte di legittimazione sostanziale del proprio operato.


Che un populismo giudiziario così inteso risulti irrimediabilmente incompatibile col nostro modello costituzionale di giurisdizione penale, è una conclusione che non richiede particolare dimostrazione.

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Respingere il populismo giudiziario non equivale a criticare ogni manifestazione di condivisione e sostegno che l’azione investigativo-repressiva può ricevere dall’opinione pubblica o da alcuni suoi settori. Anche da questo punto di vista Mani pulite è stata un’esperienza significativa che offre diversi elementi di riflessione.


Com’è noto, specie nelle fasi iniziali dell’inchiesta l’azione dei magistrati è stata incoraggiata e sostenuta da un ampio consenso sociale, tributato anche nei modi di un’accesa tifoseria. Questo sostegno esterno ha indubbiamente funto da potente fattore di incoraggiamento di un controllo penale esteso a livelli politici ed economici prima di allora mai attinti e ha rafforzato, nei magistrati che procedevano alle indagini, l’orgogliosa consapevolezza di soddisfare istanze popolari di giustizia per lungo tempo eluse. Ma la medaglia aveva un rovescio. Nel senso che l’appoggio del pubblico non rispecchiava soltanto sentimenti nobili ispirati a valori di giustizia e legalità da affermare o ripristinare finalmente in concreto. Nel sostegno non di rado entusiastico all’attività repressiva si è anche manifestato un atteggiamento meno nobile e più irrazionalmente emotivo, vale a dire “un tumultuoso senso di rivalsa nei confronti dei potenti, un compiacimento alla vista di politici di spicco abbattuti dai loro piedistalli, condotti in giudizio per rispondere di imputazioni personali e sottoposti alle medesime sofferenze e disagi solitamente patiti dalla ‘gente comune’”. Da qui una forte riemersione di quelle sotterranee componenti pulsionali del condannare e punire che, in dispregio delle finalità razionali della giustizia punitiva, finiscono col restituire alla stessa punizione statale una primordiale e irrazionale funzione vendicativo-ritorsiva, decisamente contrastante col principio costituzionale di rieducazione (a sua volta, peraltro, non privo di aspetti problematici in rapporto ad autori di reato riconducibili alla categoria dei ‘colletti bianchi’).


E’ anche vero che il consenso esterno era destinato ad affievolirsi progressivamente per effetto di diversi fattori causali. Tra questi, da un lato l’estendersi delle indagini a soggetti appartenenti a cerchie sociali di più modesto livello, con la conseguenza che il controllo penale finiva con l’ essere percepito come potenzialmente minaccioso (piuttosto che benvenuto) da parte di cittadini comuni appunto non immuni da relazioni di malaffare; dall’altro, il diffondersi tra la gente del dubbio – alimentato anche in maniera tutt’altro che disinteressata specie da alcuni imputati “eccellenti” – che il pool milanese orientasse la sua azione giudiziaria sulla base di simpatie politiche o comunque perseguisse fini politici. Dubbio, questo, non risolvibile con certezza nel senso della fondatezza o dell’infondatezza, e perciò generatore di diffidenza e sfiducia quantomeno in quella parte del pubblico che risultava aliena da forme di condivisione fideistica dell’operato di Di Pietro e dei colleghi che lo affiancavano.
Comunque sia, è forse superfluo aggiungere che il rapporto tra pubblico esterno e giustizia penale è sempre problematico. Vale la pena in proposito ricordare quanto Leonardo Sciascia scrisse ormai non pochi anni fa: “Insomma, quando un uomo sceglie la professione di giudicare i propri simili, deve pur sempre rassegnarsi al paradosso – doloroso per quanto sia - che non può essere giudice tenendo conto dell’opinione pubblica, ma nemmeno non tenendone conto”.  Meglio non si potrebbe dire! Sta proprio qui uno dei nodi più problematici e tormentosi della funzione giudiziaria, su cui ha posto di recente l’accento anche il presidente della Repubblica Sergio Mattarella: rendere giustizia in modo “comprensibile” per il pubblico, ma senza al tempo stesso assumere le aspettative popolari o delle stesse vittime a criterio principale di decisione. Per contemperare in modo equilibrato comprensibilità e indipendenza di giudizio, non sono ovviamente precostituibili principi o regole generali validi una volta per tutte: occorre uno specifico talento, che trascende le competenze tecnico-giuridiche e poggia in non piccola misura sulla sensibilità personale (ed è proprio questo il problema, non essendo questo tipo di sensibilità facilmente acquisibile attraverso i corsi di formazione professionale!).  

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All’appoggio dei cittadini in carne e ossa ha corrisposto, sempre in particolare nelle prime fasi dello scoperchiamento del sistema della corruzione, un grande sostegno del giornalismo scritto e parlato. Il ruolo determinante esercitato dai media, quale fattore in assenza del quale Mani pulite non avrebbe potuto svilupparsi così come si è sviluppata, è emblematicamente confermato da un recente bel libro del giornalista Goffredo Buccini che ho avuto occasione di recensire sulle pagine del Foglio. Il merito principale di questo libro – non soltanto a mio giudizio, ho motivo di supporre – consiste nell’avere sottoposto a lucida e coraggiosa revisione critica un’esperienza giovanile di lavoro giornalistico, vissuta da Buccini insieme ad un gruppo di giovani giornalisti a quel tempo appassionatamente propensi a fornire un sistematico supporto all’attività investigativa e ai suoi sviluppi, nella convinzione speranzosa che l’appoggio della stampa potesse aiutare i magistrati  a portare avanti l’opera di pulizia e così contribuire al rinnovamento morale  e politico del paese. Solo che questo pregiudiziale appoggio tendenzialmente incondizionato (motivato anche dalla comune formazione politica di sinistra del gruppo di giovani giornalisti in questione), come lo stesso Buccini oggi autocriticamente rileva, incideva negativamente sull’obiettività del lavoro giornalistico, facendo venir meno o riducendo quella vigilanza critica rigorosa che in teoria spetta alla stampa allo scopo di controllare l’operato degli stessi giudici e di denunciarne eventuali errori, eccessi  o abusi.


Sempre sul versante del rapporto col sistema mediatico, si può aggiungere che Mani pulite ha fortemente contribuito a quella mediatizzazione del processo penale, soprattutto per via televisiva, che ha determinato un duplice effetto – anche a mio giudizio – più negativo che positivo: da un lato, di duplicare il processo col rischio di far apparire secondario quello che si svolge nell’aula di tribunale; dall’altro, di rendere certi magistrati d’accusa sempre più simili a tribuni del popolo, che recitano ad un tempo in maniera confusiva ruoli giuridico-istituzionali e ruoli politico-mediatici. In particolare, poi, una famosa trasmissione televisiva come quella del processo Cusani ha mostrato come una ripresa mirata e ravvicinata delle reazioni, anche corporee ed emotive, delle persone interrogate possa diventare un impietoso “rituale di degradazione”, che moltiplica agli occhi del pubblico l’effetto discreditante dello scenario penale. Mi piace ricordare che contro il processo ripreso in tv si è espresso (proprio durante la stagione i Mani pulite) un grande studioso della comunicazione come Umberto Eco, il quale arrivò estremisticamente a definire – in occasione della trasmissione del processo che vedeva imputato l’ex assessore Walter Armanini – la gogna mediatica un “attentato alla Costituzione”: “Questo tipo di gogna vale un ergastolo. E’ vero che in passato c’erano le pubbliche esecuzioni in piazza, ma proprio per questo noi ci riteniamo più civili dei nostri avi”.
Com’è noto, più in generale la prassi delle relazioni “incestuose” tra stampa e magistratura (in particolare d’accusa), sorretta dalla logica dello scambio di favori, è perdurata fino a tempi recenti con conseguenze negative su più piani, dal rispetto del principio della presunzione di non colpevolezza alla incentivazione del protagonismo pubblico e del “libertinaggio” esternante non solo dei pubblici ministeri ma persino di qualche magistrato giudicante. In proposito, mi limito a manifestare la mia condivisione di massima del decreto n. 188/2021 di recente emanato su impulso della Ministra Cartabia, che non costituisce né una “legge-bavaglio” né uno “sfregio alla Costituzione”, bensì un doveroso e opportuno (quantomeno) tentativo di promuovere un più corretto rapporto tra giustizia e informazione.

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Sono abbastanza note le forme di manifestazione del fenomeno corruttivo tipico di Tangentopoli intercettato dai magistrati di Mani pulite. Per richiamarle, riporto la sintesi contenuta nel recente libro di Piercamillo Davigo rievocativo dell’esperienza di lavoro da lui vissuta un trentennio fa: “Il quadro complessivo emerso dalle indagini fornì la prova indiscutibile di un diffuso sistema di malaffare basato su un mix fra corruzione amministrativa accentrata e corruzione amministrativa decentrata, che coinvolgeva molti partiti politici e le principali imprese italiane (…).
Sotto il primo profilo (quello della corruzione amministrativa accentrata), i principali partiti della maggioranza venivano finanziati illegalmente dalle più importanti imprese del paese, apparentemente senza un immediato rapporto sinallagmatico rispetto agli appalti pubblici, anche se molti dei soggetti che avevano pagato avevano precisato che i versamenti erano, comunque, collegati a determinate decisioni della pubblica amministrazione, di enti o di società a partecipazione pubblica, favorevoli alle imprese (…).


A livello locale (Regioni, Province e Comuni, con enti a questi collegati o con società partecipate) vi era un sistema di corruzione decentrato, con pagamento alle strutture locali dei partiti o a singoli esponenti di somme comunque rilevanti”.


Soltanto da parte dei tifosi più accesi e ingenui di Mani pulite, ignari dei limiti di efficacia della sola repressione penale, si poteva sperare che una bufera giudiziaria potesse non soltanto abbattere l’illegale sistema di cui sopra, ma produrre anche duraturi effetti di sbarramento della corruzione nel nostro paese. E’ convincimento consolidato, suffragato da una grande mole di dati giudiziari e da qualche indagine socio-criminologica, che negli anni successivi la fenomenologia corruttiva  – lungi dall’essersi esaurita o sensibilmente ridotta – sia piuttosto mutata  nelle forme di manifestazione: nel senso che dopo Tangentopoli i partiti politici come tali hanno perduto centralità sia come organizzatori sia come beneficiari degli scambi corruttivi, mentre la corruzione è andata decentrandosi e privatizzandosi, cioè si è radicata in misura maggiore a livello locale e ha come finalità prevalenti l’arricchimento privato e il rafforzamento del potere personale; tuttavia,  questo carattere più decentrato, diffuso e frammentato non comporta – secondo l’opinione di accreditati sociologi – una maggiore fragilità e occasionalità delle reti di relazione tra politici, funzionari pubblici e professionisti (nonché, specie nel Meridione, esponenti del crimine organizzato), essendo viceversa tali reti strutturate e risultando relativamente stabili. Ammesso che questo quadro ricostruttivo risulti nel complesso sufficientemente fondato, si può anche pensare che le cose siano andate sotto certi aspetti peggiorando piuttosto che migliorando!


Si ripropone anche l’interrogativo se davvero da noi la corruzione sia maggiore che in altri paesi europei. In realtà, non è facile operare confronti affidabili. Di solito le statistiche disponibili fanno riferimento alla corruzione “percepita”, piuttosto che realmente accertata; per cui vi è il rischio che la percezione della maggiore o minore presenza del fenomeno sia influenzata dal livello della sua pubblicizzazione nei rispettivi paesi. In particolare, sulla presunzione che l’Italia sia tra i paesi più corrotti incidono senz’altro due principi caratterizzanti del suo ordinamento quali l’indipendenza della magistratura e l’obbligatorietà dell’azione penale, da cui derivano come effetto una maggiore quantità di indagini e di procedimenti penali (però, non di rado, sfocianti in archiviazioni o assoluzioni), e ciò indubbiamente influenza la convinzione pessimista diffusa nel pubblico . Non a caso, persino Piercamillo Davigo ha ammesso di ritenere da tempo che “la vera specificità italiana non fosse la corruzione, ma l’indipendenza del pubblico ministero che aveva consentito di farla emergere”.

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Forse è superfluo spendere parole sul perché il diritto e il processo penale non siano strumenti da soli sufficienti non solo a prevenire del tutto i fenomeni corruttivi, ma anche a ridurne in misura rilevante la diffusione. Si può ormai considerare una acquisizione pacifica, dal punto di vista criminologico e penalistico, che il diritto penale non serve a debellare in generale la criminalità, ma può servire tutt’al più a ridurne forme di manifestazione prive di profondo radicamento e/o esenti da forti fattori di condizionamento di natura storico-sociale, economica, psicologica ecc. Questi limiti fisiologici della giustizia penale si accentuano rispetto a comportamenti illeciti diffusi su larga scala, per la oggettiva difficoltà da un lato che i magistrati d’accusa possano venire a conoscenza di tutti i reati commessi e, dall’altro, che la macchina giudiziaria disponga di risorse materiali, tecniche e umane tali da potere perseguire e sanzionare migliaia e migliaia di fatti delittuosi. D’altra parte, l’obiettivo di una persecuzione penale a tappeto, il più possibile completa, sarebbe anche poco compatibile con un ordinamento di autentica ispirazione liberaldemocratica: un tale obiettivo implicherebbe, infatti, una vigilanza poliziesca così occhiuta, continua e totale da annullare gli spazi di libertà dei cittadini!
Ciò premesso in linea generale, è altresì noto che i reati di corruzione rientrano da sempre nel novero di quelli che presentano una elevata “cifra oscura” per l’alone di segretezza che comprensibilmente li avvolge e il comune interesse di corrotti e corruttori a ricorrere a manovre di occultamento degli scambi illeciti; questa connivenza omertosa e questi ostacoli frapposti alla emersione degli accordi delittuosi, facendo diminuire il rischio di una loro persecuzione giudiziaria, finiscono a loro volta col determinare un indebolimento dell’efficacia preventivo-dissuasiva della minaccia penale. Ma, al di là dell’effetto deterrente, rispetto alle prassi corruttive diffuse si indebolisce la ulteriore funzione pedagogica che la legge penale dovrebbe in teoria assolvere. Secondo una opinione dottrinale ormai radicata, questa funzione di orientamento socio-culturale è più plausibile nei casi di ampia convergenza tra previa disapprovazione etico-sociale e censura penale, concorrendo la pena statale a consolidare e rafforzare nella coscienza dei cittadini l’interiorizzazione e il rispetto dei valori da tutelare e delle corrette regole di comportamento da osservare. Se invece i comportamenti penalmente sanzionabili sono non solo diffusi su larga scala, ma  altresì estesamente tollerati (o addirittura approvati in determinati ambiti sociali o professionali), ecco che la percezione del loro disvalore viene meno o sbiadisce sensibilmente: per cui la pena minacciata prima della loro realizzazione o concretamente applicata dopo la loro commissione, in luogo di esplicare efficacia educativa, può essere avvertita come ingiustificata o arbitraria, finendo perciò col risultare inidonea a incidere sulle prassi comportamentali che andrebbero modificate.
Non sorprende, di conseguenza, che sulla ridotta efficacia del diritto penale vi sia ormai tendenziale concordanza da parte di studiosi di diverse aree disciplinari, e che l’insufficienza dell’azione giudiziaria sia apertamente riconosciuta anche da alcuni protagonisti del pool milanese di allora. Così, una importante ricerca sociologica sulla corruzione post-Tangentopoli suggerisce che, al di là del preventivo calcolo individuale della possibilità concreta di essere puniti, un fattore non meno importante di incidenza sull’entità degli scambi illeciti è costituita da quello che Alessandro Pizzorno ha definito “costo morale” della corruzione: se la relativa “soglia è bassa perché vi è una carente cultura civica e una sfiducia diffusa nelle istituzioni, anche la tendenza a partecipare a fenomeni di corruzione tenderà inevitabilmente a salire(…). Da questo punto di vista, il contrasto efficace della corruzione dipende anche dalla coscienza civica, dalla fibra morale del paese”. Un secondo fattore, connesso al livello dell’etica pubblica, da tenere in conto riguarda i meccanismi di selezione della classe politica a livello nazionale e locale e, dunque, la logica di funzionamento e la qualità dei partiti politici: quanto più si tratta di partiti deboli, culturalmente degradati e personalizzati nella leadership, tanto più divengono “terreno di troppo facile conquista da parte di reti di interessi e di affari che li utilizzano a fini privatistici”. Alla crisi e al progressivo indebolimento dei partiti si è, nello stesso tempo, accompagnato un processo di “decentramento irresponsabile”, cioè nel quale l’accresciuta disponibilità di risorse a livello locale e regionale non ha corrisposto l’introduzione di adeguati strumenti di controllo dal centro.


Se le cose stanno così, un più efficace contrasto della corruzione richiede strategie globali di intervento che, trascendendo il piano circoscritto della giustizia penale, hanno a che fare col funzionamento e con la qualità del sistema politico sia in sé stesso, sia nei suoi rapporti di interazione con l’economia pubblica e privata.

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Per quanto da solo non decisivo, il terreno del diritto e del processo penale non va certo trascurato.


A) Nel riassumere le possibili indicazioni che in proposito derivano dalla esperienza di Mani pulite, un primo dato – abbastanza noto  almeno tra gli addetti ai lavori – riguarda il diritto penale sostanziale e  può essere sintetizzato così: le concrete forme di manifestazione empirica della fenomenologia corruttiva venuta alla luce (carattere sistemico e strutturato, reti relazionali stabili tra soggetti appartenenti ad ambiti professionali diversi, sovvertimento dei ruoli criminosi tradizionali con passaggio di uno stesso soggetto nell’ambito della medesima vicenda dal ruolo di concusso a quello di corruttore o viceversa, messa “a libro paga” di un pubblico ufficiale da parte di un imprenditore privato che lo sovvenziona periodicamente per ottenerne  una generale disponibilità ecc.) hanno messo a dura prova, sul piano interpretativo-applicativo, le tradizionali fattispecie incriminatrici dei delitti di concussione e corruzione contenute nel codice Rocco. Per facilitarne l’applicazione alla nuova casistica concreta, si è assistito nella prassi giudiziaria a un accrescimento della discrezionalità qualificatoria e a una  contemporanea dilatazione ermeneutica di tipo estensivo- analogico delle fattispecie scritte, in contrasto o comunque in forte tensione con i principi penalistici di riserva di legge e di tipicità (nello stesso tempo, si è accentuata la tendenza verso la cosiddetta processualizzazione delle categorie sostanziali, cioè a ricostruire giudiziariamente i requisiti costitutivi di delitti come la corruzione o la concussione in base a esigenze probatorie). Da questo punto di vista, l’esperienza giudiziaria milanese ha fornito una delle migliori riprove di come l’interpretazione e applicazione delle stesse leggi penali non  possano, secondo una visione realistica, ridursi ad attività meccaniche o tecnicamente  neutrali: piuttosto, esse richiedono che l’interprete-applicatore giudiziale – per dirla con un valente giusfilosofo delle ultime generazioni – “compia molteplici scelte, valutazioni, prese di posizione, spesso non chiaramente esplicitate, scelte che possono talvolta, o anche spesso, apparire come semplici questioni tecniche (…), ma che sono in larga parte, in ultima analisi, di natura etico-politica”. Se così è, la cosiddetta rivoluzione giudiziaria si è anche alimentata di quote non piccole di politicità latamente intesa, insita inevitabilmente nel modo di adattare le figure di reato allora vigenti ai casi concreti. 


Ma le difficoltà applicative e la preoccupazione emergente di rendere più efficace l’intervento penale, com’è pure noto, sollecitavano ben presto un dibattito nella prospettiva di possibili riforme legislative. Tale dibattito sfociò in due direttrici di fondo: una per così dire ‘estremistica’ esemplificata dal “progetto di Cernobbio” (elaborato da un gruppo di studio costituito da docenti universitari, componenti dello stesso pool milanese e alcuni avvocati) e mirante, in estrema sintesi, a superare la tradizionale distinzione tra concussione e corruzione unificandole in una fattispecie incriminatrice unitaria e, altresì, a introdurre cause di non punibilità per il corrotto o corruttore “pentito”; una seconda direttrice per così dire moderata, tendenzialmente fatta oggetto di maggiore consenso anche dottrinale, volta a modificare la originaria disciplina delle due suddette fattispecie in modo da superarne le risalenti difficoltà di differenziazione e da renderle più agevolmente applicabili all’evoluzione delle forme di corruzione venute alla luce.


Come sappiamo, per cercare di tradurre in legge quantomeno alcune delle esigenze politico-criminali emerse dall’esperienza di Tangentopoli si sono dovuti attendere, però, non pochi anni: è stata la cosiddetta riforma Severino del 2012 a riscrivere in larga parte il reato di concussione (con scorporo della condotta induttiva e suo trasferimento nella nuova fattispecie di induzione indebita a dare o promettere) e i delitti di corruzione (con eliminazione della corruzione cosiddetta impropria e sua sostituzione con il nuovo reato di corruzione per l’esercizio della funzione), inasprendo altresì il regime sanzionatorio. Ma, se si dà uno sguardo d’insieme agli orientamenti interpretativi della nuova giurisprudenza maturata rispetto alle modificate fattispecie, non si può dire che questa ampia riforma di un decennio fa sia risultata – al di là delle intenzioni – di fatto davvero utile in termini di effettiva semplificazione applicativa e di reale potenziamento della risposta penale. Né risultati pratici apprezzabili sembrano  conseguibili grazie alla successiva riforma cosiddetta “Spazzacorrotti” del 2019, concepita nell’ottica di un demagogico iper-punitivismo populista, che ha inasprito ulteriormente il trattamento sanzionatorio e ha introdotto una causa di non punibilità – peraltro non felicemente formulata – a favore del colpevole che denuncia volontariamente, prima di avere notizia dell’inizio delle indagini a proprio carico, il fatto delittuoso a carattere corruttivo commesso, fornendo indicazioni utili ai fini dell’accertamento processuale.   


B) Rispetto poi al versante procedimentale  e processuale, un profilo degno di nota – oltre al già accennato fenomeno di stretta interazione tra presupposti di diritto sostanziale ed elementi probatori – riguarda in primo luogo le tecniche di indagine adottate per portare allo scoperto gli episodi corruttivi. In proposito, si è più volte messa in evidenza la eccezionale abilità investigativa in particolare – e non a caso – dell’esponente-simbolo del pool milanese, cioè di Antonio Di Pietro: abilità caratterizzata sia da un pur discutibilissimo stile poliziesco (acquisito, verosimilmente, nel periodo precedente in cui lo stesso Di Pietro aveva operato come commissario di polizia), da metodi alquanto spregiudicati o sbrigativi  e da un sapiente dosaggio di ‘bastone’ e  ‘carota’ nel condurre gli interrogatori, sia da una spiccata capacità (comune invero ad altri colleghi del pool) di analizzare i movimenti bancari, sia ancora da una eccezionale capacità di utilizzare gli strumenti informatici per collegare elementi di conoscenza provenienti da indagini diverse. Ora, se non mi sentirei neanch’io di additare a modello la figura del pm-superpoliziotto e il ricorso a modalità operative troppo disinvolte, non c’è dubbio invece che la padronanza dell’informatica e il possesso di approfondite conoscenze in ambito economico-finanziario e in materia di legislazione e prassi amministrative costituiscono ormai elementi imprescindibili del bagaglio professionale di un magistrato impegnato nel contrasto della corruzione.


Aspetti non poco discutibili di Mani pulite, e più volte già criticati in varie sedi (anche accademiche), sono emersi riguardo alle modalità d’impiego della coercizione penale in fase sia cautelare che di successivo giudizio. Sotto il primo profilo, ci si riferisce all’uso della carcerazione preventiva a fini investigativi e confessori ben stigmatizzato – tra altri – da Giovanni Maria Flick in un libro del 1993 che reca come titolo “Lettera a un procuratore della Repubblica”, e che merita di essere ricordato anche per la risposta (riportata nel medesimo libro) dell’allora procuratore di Milano Francesco Saverio Borrelli. A Flick, che opportunamente sollevava anche più in generale “il problema del rapporto tra il processo alla responsabilità del singolo e il processo alla degenerazione del sistema, attraverso il primo”, Borrelli rispondeva invero con affermazioni del seguente tenore: “il pericolo di inquinamento, il pericolo di fuga, il pericolo di reiterazione del delitto”, in quanto concetti non formalizzabili in termini strettamente giuridici, “devono ricevere concretezza dalla comune esperienza e dal comune modo di ragionare del cittadino medio”; e ancora: “Vogliamo, per curiosità, provare a domandarci che cosa pronosticherebbe il cosiddetto uomo della strada circa la probabile condotta futura di un pubblico amministratore che fino a ieri ha concusso o si è lasciato corrompere? Di tanto in tanto dovremmo forse umiliarci fino ad aprire occhi e orecchie verso il mondo esterno e rapportarci (…) alla sensibilità media del popolo in nome del quale la legge si applica”. Con tutto il rispetto per la sua figura e la sua memoria, direi che il procuratore Borrelli (pur essendo antropologicamente e culturalmente distante da Tonino Di Pietro), così ragionando, finiva anch’egli con l’esibire sintomi patologici di populismo politico-giudiziario!


Tra i costi umani più dolorosi di quella stagione, che rappresentano “la testimonianza tragica della catastrofe di un sistema” ma, ad un tempo, del crollo psichico di alcuni suoi esponenti che non hanno sopportato la vergogna o lo stress della sottoposizione alle indagini (o a certi modi di condurle), rientrano una serie di suicidi. Sarebbe assai problematico  – a maggior ragione oggi – cercare di stabilire un rapporto causale prevedibile tra questi eventi suicidiari ed eventuali modalità scorrette di conduzione dei procedimenti giudiziari. Ma non sembra neppure accettabile rimuovere il tormentoso problema ribadendo, con una sorta di fanatico moralismo, che “le conseguenze dei delitti ricadono su coloro che li commettono e non su coloro che li perseguono”: così pensa a tutt’oggi, ad esempio, Pier Camillo Davigo. Piuttosto, ritengo che una deontologia professionale adeguata all’insieme dei valori e diritti in gioco dovrebbe, tra l’altro, includere il dovere di orientare le scelte giudiziarie anche in base alla ragionevole previsione (per quanto possa risultare non facile!) delle loro possibili ricadute anche psicologiche. Tanto più che non andrebbe dimenticato – come ben vide Francesco Carnelutti non pochi decenni fa – che già il sospetto, l’indagine, il giudizio suscitano angoscia e sofferenza in chi vi è sottoposto, e rappresentano dunque di per sé stessi una pena che si aggiunge a quella conseguente all’eventuale condanna.
Quanto poi al carico sanzionatorio complessivamente gravato sulle persone indagate che hanno effettivamente subito una condanna, una indagine a carattere statistico-giudiziario condotta nel 2007 è giunta alla conclusione che sono state inflitte pene mediamente molto miti sia per la concussione che per la corruzione, con frequente sospensione condizionale della loro esecuzione, largo ricorso al patteggiamento e misure alternative concesse in maniera quasi automatica (per cui sono risultati assai rari i casi di condannati che hanno espiato almeno una parte della pena in carcere).


Ammesso che si tratti di una indagine esaustiva e affidabile, sembra potersene trarre una conferma del fatto che l’impresa giudiziaria di Mani pulite, considerata nel suo insieme, non aveva come obiettivo principale il puntuale accertamento di colpevolezze individuali alla cui gravità commisurare, di volta in volta, una pena “giusta” e/o di potenziale valenza rieducativa: piuttosto, lo scopo prioritario era quello di scoperchiare e processare un intero “sistema” corrotto al fine di abbatterlo;  e questa finalità (più latamente politica che giudiziaria in senso stretto) faceva sì che anche la concreta determinazione delle pene obbedisse a ragioni e valutazioni non coincidenti, o coincidenti soltanto in parte con quelle che in teoria dovrebbero più propriamente guidare le opzioni sanzionatorie in sede di condanna. Da questo punto di vista sembra, allora, potersi concludere che la ‘reale’ dimensione punitiva finiva con l’essere affidata, più che ad una punizione canonica applicata secondo parametri rigorosamente giuridici, alla censura morale e all’effetto discreditante – a loro volta mediaticamente amplificati nella riemergente forma di una pubblica gogna – impliciti nell’ essere indagati, processati e poi condannati.

 

E’ abbastanza diffusa la convinzione che in questi trent’anni di distanza che ci separano da Mani pulite siano rimasti sul tappeto, e si siano per di più aggravati, non pochi dei problemi che hanno determinato il crollo della cosiddetta Prima Repubblica. Ha scritto di recente una storica di professione: “A tutt’oggi restano evidenti infatti le fragilità dei soggetti politici presenti sulla scena alla continua ricerca di una solida identità mai raggiunta, mentre non si restringe la divaricazione della forbice tra gli elettori e i loro rappresentanti, come testimonia l’astensionismo dilagante insieme alla sfiducia nella classe politica al governo e all’opposizione”. E ancora: “Lo dimostrano i fenomeni in continua crescita dopo il ’94, di populismo, giustizialismo, razzismo, xenofobia, oblio dei diritti, delle libertà e dei valori civili; ma anche l’evolversi delle polemiche antipartitiche o per meglio dire anti-establishment che si riassumono in un antagonismo pregiudiziale contro chi ha istruzione, competenze, educazione e persino fede nei valori non negoziabili del vivere civile. Pulsioni antipolitiche estese anche ai governanti europei, gli ‘spregevoli burocrati di Bruxelles’ contro i quali si scagliano i sovranisti”. Una emblematica riprova della persistente situazione di grave crisi, incertezza, frammentazione e stallo in cui a tutt’oggi versano tutti i partiti e movimenti, di sinistra come di destra o di centro (ammesso che questa distinzione continui ad essere a risultare chiara!) l’ha fornita, da ultimo, la tormentata rielezione di Sergio Mattarella a presidente della Repubblica (il secondo caso dopo la conferma al Quirinale di Giorgio Napolitano nel 2013). Né sappiamo come evolverà, nel corso del presente anno, la complessa e altresì conflittuale dialettica tra le disomogenee forze politiche che sostengono l’attuale governo di quasi-unità nazionale presieduto da un cosiddetto super-tecnico come Mario Draghi (più tollerato che amato, secondo quanto è andato emergendo, dalla maggior parte dei cosiddetti politici di professione o per elezione popolare!).


In questo quadro complessivo, problematico e poco rassicurante, si colloca anche un tentativo di riflessione sulla magistratura e sulla crisi di cui anch’essa soffre, e direi non da ora. Al di là della deriva correntizia, e della perdita di credibilità anche morale che sembra essersi aggravata di recente, c’è anche un problema di identità di ruolo: problema che a maggior ragione si ripropone e impone  per il fatto che, negli ultimi decenni, in particolare la giustizia penale ha assunto in Italia una centralità, storica e politica, ben maggiore che in altri paesi europei. E ciò ha inciso e continua a incidere in misura abnorme sull’equilibrio costituzionale tra i poteri istituzionali e, al tempo stesso, sulle concrete dinamiche politiche. Come sappiamo, anche in frangenti temporali precedenti la corruzione politico-amministrativa di Tangentopoli l’azione repressiva si è caricata di rilevanti implicazioni politiche nel cercare di assolvere funzioni  di cosiddetta supplenza rispetto a discipline legislative mancanti o a omessi interventi di una pubblica amministrazione inefficiente,  nel contrastare altri mali sociali di rilievo sistemico (terrorismo, mafie), oppure  è stata politicamente strumentalizzata (anche a prescindere dalla volontà soggettiva dei magistrati titolari delle indagini e dei processi) come strumento improprio di lotta tra partiti o fazioni in conflitto per la conquista di posizioni di supremazia. Ma nella stagione di Mani pulite l’azione giudiziaria ha presentato dimensioni politiche così macroscopiche, anche per l’ampio consenso sociale e la larga delega di fatto ricevuta dai settori politici e sociali più interessati al cambiamento, da non poter essere in nessun modo occultate, né sminuite. Che atteggiamento ha mostrato in proposito la magistratura considerata nel suo insieme?


Invero, non sono mancate sia voci critiche di singoli magistrati, che hanno evidenziato i rischi di un eccesso di consenso della pubblica opinione e di una conseguente sollecitazione verso forme di giustizia sostanzialistica e sommaria, sia della stessa Anm che ha messo in guardia dalla tentazione della magistratura di assumersi compiti esulanti dai suoi fini istituzionali. Vale la pena in proposito richiamare, ad esempio, una parte dell’intervento conclusivo svolto dall’allora segretario generale Franco Ippolito al XXII Congresso nazionale del giugno 1993: “Gli applausi e le manifestazioni popolari attorno al palazzo di giustizia milanese sono certo espressione di una legittima pretesa dei cittadini che la legge valga davvero per tutti. Ma sono la spia di pericoli. Innanzitutto di un eccesso di aspettative nell’intervento giudiziario, destinate a rimanere in parte inevitabilmente deluse. In secondo luogo sono l’espressione di una spinta ansiosa al raggiungimento di ‘risultati’, con rischio di torsione dello strumento giudiziario, giacché la giurisdizione non deve essere una istituzione di scopo”. Questo monito di Ippolito a rifiutare il modello della giurisdizione o del giudice “di scopo” – fatto proprio e ribadito, in anni più recenti, anche da Luciano Violante e da altri qualificati esponenti della cultura politica e giuridica – tocca il problema cruciale del rapporto tra politica e funzione giudiziaria, cioè quello che sotto più di un aspetto si prospetta come il problema più arduo da affrontare. In proposito, possibili indicazioni orientative sono desumibili dalla giurisprudenza costituzionale, e in particolare dalla sent. n. 24/2017 relativa al celebre caso Taricco, nella quale la Corte fa affermazioni del seguente tenore: ai giudici “non possono spettare scelte basate su discrezionali valutazioni di politica criminale”; gli “ordinamenti costituzionali degli Stati di civil law (…) in ogni caso ripudiano l’idea che i Tribunali siano incaricati di raggiungere uno scopo, pur legalmente definito, senza che la legge specifichi con quali mezzi e in quali limiti ciò possa avvenire”. Il senso sostanziale di questa presa di posizione della Consulta può essere plausibilmente inteso come equivalente alla tesi che la giustizia penale non è una giustizia ‘di lotta’, non ha il compito di contrastare fenomeni generali (compito che spetta invece al potere legislativo e a quello politico-amministrativo). In una analoga ottica visuale, proprio riguardo a Tangentopoli Bruti Liberati ha scritto nel suo libro di storia della magistratura italiana: “Mani Pulite indica la capacità di indagine di polizie e Procure, ma dovrebbe anche far riflettere sulle specificità del processo penale. Alla giustizia penale si deve chiedere di accertare, con il livello di prova elevato che si esige per una condanna, nel pieno rispetto delle garanzie di difesa, fatti di reato specifici e responsabilità individuali e non di indagare e pretendere di risolvere problemi politici e sociali”. Solo che, nelle pagine conclusive della stessa opera, sempre Bruti Liberati sembra in proposito implicitamente contraddirsi, o quantomeno mostrare una certa ambiguità di pensiero (retaggio dell’appartenenza a un gruppo associativo come Md, teorizzatore della funzione politica della giurisdizione?) affermando: “la storia di Mani pulite (…) è la storia del doveroso intervento repressivo penale di fronte  ad un vero e proprio sistema di corruzione, ad una devastazione della legalità”; e aggiungendo che la vicenda di Mani pulite insegna a distinguere tra il “protagonismo (improprio) di alcuni magistrati” in particolare d’accusa, e il “protagonismo (necessitato) della magistratura” sulla corruzione. 


Orbene, se protagonismo necessitato della magistratura significa che quest’ultima in una stagione come quella di Tangentopoli si attribuì la funzione (missione?) – come alcuni elementi di riscontro sembrano confermare – di liberare l’Italia dal sistema della corruzione e di promuovere il rinnovamento politico, apprezzare questo protagonismo equivale a rilegittimare il ruolo del giudice di scopo anche al prezzo di “un’alterazione dei rapporti costituzionali tra magistratura e potere politico”. (Come che sia, è un dato di fatto che la tendenza a concepire la giurisdizione come strumento di lotta contro fenomeni o sistemi criminali è andata sempre più diffondendosi negli anni, come si può constatare sia studiando provvedimenti giudiziari sia leggendo articoli o interviste rilasciate da singoli magistrati: una autopercezione di ruolo, questa, che si è ampiamente consolidata e perciò non facile da contrastare!).


Concordo invece pienamente con lo stesso Bruti Liberati nel ritenere che, oggi, “occorrerebbe una riflessione più approfondita su cosa si deve e non si deve chiedere  alla giustizia penale” specie rispetto a fenomeni come corruzione, mafie, criminalità terroristica ecc. e, correlativamente, sul modello di magistrato penale più adeguato alle sfide del tempo presente. Mentre sul ruolo della magistratura e sui modelli di giudice si era in Italia sviluppato un dibattito anche teorico di un certo respiro negli anni 70, proseguito  – direi, non a caso – nel corso degli anni 90 fino ai primi del 2000, negli anni successivi la discussione è andata invece (con qualche eccezione) spegnendosi. A ridosso di Mani Pulite, ad esempio Vito Marino Caferra in un piccolo e brillante saggio aveva distinto le rispettive figure idealtipiche del magistrato “senza qualità”(identificato con un carrierista duttile), “politico”, “moralista” e “poliziotto”; ai nostri giorni Gustavo Zagrebelsky, in un libro sulla professione di giurista, differenzia con ben maggiore varietà i modelli tipologici del magistrato rispettivamente “tecnico”, “politico”, “empatico”, “redentore”, “vendicatore” e “sacerdote”. Sarebbe intrigante entrare nel merito di tutte queste figure che, in quanto stilizzate in modo estremistico, evocano peraltro modelli più tendenziali che suscettibili di impersonarsi interamente in giudici in carne e ossa. Ma sarebbe fuori luogo farlo in questa sede.

* * *


In sintesi, rilevo che nella ormai non breve mia esperienza di studioso “tempopienista”, se da un lato mi è mancata l’esperienza concreta del foro, ho dall’altro esaminato parecchia giurisprudenza e frequentato un certo numero di magistrati, per ragioni di studio come pure a titolo amichevole. Per quello che sono riuscito a comprendere anche attraverso questa conoscenza diretta, escluderei innanzitutto che (almeno) in penale esista davvero nella realtà quella comune “cultura della giurisdizione” che dovrebbe accomunare pubblici ministeri e giudici, e il cui mantenimento viene a tutt’oggi enfaticamente raccomandato come argomento contro la cosiddetta separazione delle carriere. Esiste a mio avviso piuttosto, nella attuale magistratura penale, una certa confusione e frammentazione di mentalità e di stili operativi: esistono giudici simili a pubblici ministeri (e a pubblici ministeri addirittura di tipo poliziesco), pubblici ministeri simili viceversa a giudici; mentre sul modo di pensare e agire degli stessi pubblici accusatori può incidere il settore operativo di riferimento, a seconda che si tratti ad esempio di criminalità comune o di criminalità organizzata di tipo mafioso o di tipo terroristico ecc.  Personalmente, da giurista accademico convinto (o meglio, illuso) che almeno i principi di fondo del costituzionalismo penale (europeo e nazionale) dovrebbero essere concepiti e applicati in maniera sufficientemente omogenea da tutti i magistrati, continua – lo confesso – a sorprendermi e irritarmi invece constatare che ad esempio che i pubblici ministeri antimafia (e in particolare quelli di orientamento più radicale o estremistico) sembrano obbedire a una Costituzione tutta loro, autonoma e diversa dalla Costituzione ufficiale: per cui la lotta a tutto campo al fenomeno mafioso diventa, nella loro ottica unilaterale e belligerante (propugnante una sorta di “diritto penale del nemico” in veste nostrana!), il superiore obiettivo costituzionale destinato in ogni caso a prevalere sulla protezione di ogni altro pur non secondario bene o diritto costituzionalmente rilevante (emblematiche in questo senso le vibrate o gridate obiezioni, mediaticamente veicolate, che le procure antimafia hanno rivolto alla riforma Cartabia della prescrizione o continuano a muovere al superamento dell’ergastolo ostativo).  Insomma, si tratta di un modello di pubblico ministero per così dire  “combattentista estremista”, la cui compatibilità con i principi costituzionali del garantismo penale  mi appare tutt’altro che scontata. Invero, ritengo da tempo che la stessa Scuola di formazione della magistratura dovrebbe fare di più di quanto non faccia, sul piano della cultura professionale, per promuovere il passaggio da un pluralismo eccessivamente conflittuale a un pluralismo più ragionevole di orientamenti di fondo, in vista appunto di quella tendenziale omogeneità di principi di riferimento (anche tra pubblici ministeri e giudici) che rappresenta più un obiettivo auspicabile che non una base di partenza di fatto esistente.


Sui modelli di magistrato più adeguati al tempo presente si dovrebbe nel contempo, però, aprire una discussione anche fuori dalla cerchia degli addetti ai lavori, per sollecitare un confronto nello spazio pubblico (se possibile, fuori da quelle pregiudiziali contrapposizioni e da quelle opposte tifoserie predominanti purtroppo da tempo specie nei dibattiti politico-mediatici. Ma siamo più capaci di confronti  autentici?): sarebbe necessario che il potere giudiziario uscisse il più possibile dalla sua autoreferenzialità e si confrontasse con le realtà e culture esterne, dal momento che sembra improbabile che esso possa da solo rinnovarsi e rigenerarsi (oltre che moralmente)  culturalmente. I rischi che da qualche tempo ravviso, osservando il complessivo orizzonte magistratuale contemporaneo, vanno al di là di un eccesso di pluralismo, di frammentazione di concezioni e opinioni o di una certa confusione e incertezza  sul piano deontologico (riguardo sia alle relazioni con gli altri poteri istituzionali, sia alle modalità di condotta nella realtà esterna): vi è anche il pericolo che i giovani magistrati, sempre più privi di solidi ancoraggi culturali e valoriali (anche a causa dell’inaridimento della capacità di riflessione e orientamento delle correnti, nonché della scomparsa o del pensionamento di note e autorevoli figure di giudici-maestri), finiscano col far propria una visione tecnico-burocratica del loro ruolo e appiattita sugli avanzamenti di carriera, rinunciando a slanci ideali e aspirazioni culturali di più ampio respiro. E’ anche per reagire a un simile rischio che i gruppi associativi dovrebbero tentare di recuperare la loro principale funzione di strumenti di elaborazione, confronto e orientamento.


Proprio perché il modo d’atteggiarsi e di operare della giurisdizione penale è fortemente condizionato dalle interrelazioni sistemiche con gli altri poteri, il riorientamento culturale complessivo e il miglioramento anche qualitativo dei rapporti tra giustizia penale e sistema politico presuppongono forze politico-partitiche meno deboli, capaci a loro volta di recuperare identità e fondamenti culturali e – non ultimo – in grado di affrontare le grandi questioni sul tappeto prospettando idonee soluzioni concrete: se questi presupposti dovessero anche in futuro mancare, dal momento che “la politica non ammette vuoti”, il potere giudiziario potrebbe continuare a essere tentato di allargare (più o meno abusivamente) i propri spazi di intervento.


Giovanni Fiandaca, emerito di Diritto penale Università di Palermo

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