Foto: Ansa/Maurizio Brambatti

fake news giustizialiste

Le balle di Grasso e del Fatto sulle intercettazioni a politici e mafiosi

Ermes Antonucci

Le dichiarazioni dell'ex magistrato antimafia in Senato rappresentano puro terrorismo mediatico, puntualmente rilanciate dal giornale di Gomez

“Così il cellulare di un mafioso non potrà più essere usato se scrive a un parlamentare”. Una fake news colossale aleggia attorno al voto espresso martedì dal Senato in favore del conflitto di attribuzione chiesto da Matteo Renzi contro la procura di Firenze per l’indagine sulla Fondazione Open. A lanciarla, per la gioia dei forcaioli di professione (in primis il Fatto quotidiano, che infatti l’ha subito rilanciata in pompa magna), è stato il senatore ed ex magistrato antimafia Pietro Grasso, nel corso delle dichiarazioni di voto in Aula al Senato.

Motivando il suo voto contrario al conflitto di attribuzione, Grasso ha affermato che secondo una “consolidata giurisprudenza della Cassazione”, i messaggi WhatsApp, sms ed e-mail oggetto della discussione (quelli sequestrati nei cellulari di terze persone ma riguardanti il senatore Renzi) “non rientrano nella nozione di corrispondenza, né costituiscono attività di intercettazione”, ma sono da considerarsi come semplici “documenti”. Di conseguenza, per Grasso la procura di Firenze avrebbe fatto bene ad acquisire quelle conversazioni senza chiedere l’autorizzazione del Senato. Anche perché, ha poi spiegato Grasso, in caso contrario “basterebbe che in un telefono sequestrato a un mafioso vi fosse un WhatsApp a un parlamentare per determinarne l’inutilizzabilità anche nei confronti del mafioso”.

L’analogia è stata immediatamente ripresa dai megafoni del giustizialismo. Sul Fatto quotidiano, Peter Gomez ha affermato che, qualora la Corte costituzionale accetterà la tesi del Senato, i telefonini di spacciatori e delinquenti non sarebbero sequestrabili se contenessero chat con un parlamentare: “E’ facile prevedere che molti di loro si attrezzeranno per trovare numeri di telefono di parlamentari per poi inviare loro messaggi a caso. Basterà che un eletto risponda ‘Chi sei?’ per sperare di farla franca”.

Più che a una fake news si è di fronte a una totale opera di fantasia, se non di terrorismo mediatico. Qualora la Consulta accogliesse la tesi del Senato, infatti, soltanto l’acquisizione di chat, sms ed e-mail riguardanti il parlamentare sarebbe sottoposta all’autorizzazione della Camera di appartenenza, ma non tutte le conversazioni contenute nel telefono del presunto mafioso o criminale. D’altronde, è ciò che è già successo nel caso dell’indagine sul senatore Armando Siri: la procura di Milano ha sequestrato uno smartphone in uso a un suo collaboratore, estraendo tutte le conversazioni in esso contenute a eccezione (a differenza della procura fiorentina) di quelle che coinvolgono Siri, chiedendo per il loro utilizzo l’autorizzazione al Senato, in virtù dell’articolo 68 della Costituzione.

Anche il riferimento alla giurisprudenza della Cassazione non sembra reggere più di tanto. “La giurisprudenza della Cassazione dà un’interpretazione estremamente restrittiva del requisito dell’attualità della comunicazione, ritenendo che i documenti che riportano una comunicazione già svolta non hanno natura di corrispondenza o di intercettazione telefonica, ma soltanto documentale, ma qui siamo dinanzi all’attività di un parlamentare, quindi alla necessità di tutelare nella misura massima possibile le garanzie costituzionali a tutela dell’esercizio del mandato”, spiega al Foglio Salvatore Curreri, professore di Diritto costituzionale presso l’Università di Enna “Kore”. “Questo tipo di prospettiva risulta rafforzata dalla stessa Corte costituzionale, che quando si è trattato di valutare la possibilità di sottoporre a intercettazioni il presidente della Repubblica, seppur casualmente, non ne ha fatto un problema di mezzo, ma ha impostato la questione nell’ottica di tutelare lo svolgimento delle funzioni. In quel caso la Corte non ha fatto dipendere il giudizio dal tipo di comunicazione, cioè dal fatto che si fosse svolta via telefono o via e-mail o chat, ma ha posto l’accento sulla necessità che l’esercizio della funzione vada tutelata qualunque sia il mezzo impiegato”.

La Consulta usò parole molto chiare, sottolineando come la tutela della segretezza della corrispondenza è più forte per gli organi costituzionali rispetto ai cittadini comuni perché “vengono in rilievo ulteriori interessi costituzionalmente meritevoli di protezione, quale l’efficace e libero svolgimento, per esempio, dell’attività parlamentare e di governo”. “Ma voi credete – aggiunge Curreri – che sulla base di argomentazioni così chiare la Corte avrebbe preso una decisione diversa se Mancino, anziché telefonare al presidente Napolitano, avesse mandato a quest’ultimo un’email o un WhatsApp?”. Per il costituzionalista si tratta di dare seguito alla lettera e alla ratio degli articoli 15 e 68 della Costituzione perché, in caso contrario, “sarebbe molto facile per le procure aggirare la garanzia costituzionale”: “Il parlamentare non potrebbe essere intercettato e non gli potrebbe essere sequestrata la corrispondenza, però se le conversazioni fossero riversate su un documento queste potrebbero essere ugualmente acquisite. Questo è sostanzialmente un modo di eludere le garanzie previste dalla Costituzione”, conclude Curreri.