Il grave vulnus dell'inappellabilità
Dietro al caso Uggetti. Quante assoluzioni servono per essere innocenti in Italia?
L'ex sindaco di Lodi sarà ri-processato dopo l'assoluzione in Appello. “Da cittadino a me pare un accanimento senza senso”, ha detto. Nessuna regola è stata violata dalla Procura generale, ovviamente. Ma già la legge Pecorella, nel 2006, e ora la riforma Cartabia hanno provato a cambiare. Proposte sempre respinte
Quando il 27 maggio dello scorso anno Luigi Di Maio scrisse quella lettera al Foglio, in cui prendeva con decisione le distanze dal becero giustizialismo del suo partito, e nello specifico faceva ammenda della sua personale partecipazione alla gogna eretta a Lodi contro l’ex sindaco Simone Uggetti, fu una sorpresa soltanto per i distratti e per i giustizialisti della peggiore risma. Per noi fu un buon segnale, che stava nella logica di un’evoluzione politica, e una indicazione del (possibile) ritorno a una pratica meno barbarica dell’uso mediatico della giustizia. Ma certo non ci facevamo illusioni sulla fine delle distorsioni giudiziarie in Italia. Del resto basterebbe l’attuale via crucis delle riforme Cartabia, pur richieste senza indugio dall’Unione europea, a dimostrarlo.
In modo ancora più evidente e drammatico lo ha detto ieri Simone Uggetti, commentando l’annullamento da parte della corte di Cassazione della sentenza d’Appello che dieci mesi fa lo aveva assolto – dopo una condanna in primo grado debole nelle sue motivazioni – rinviandolo dunque a un nuovo processo: “Da cittadino a me pare un accanimento senza senso”, ha detto, trattenendo l’emotività che lo aveva fatto piangere al momento dell’assoluzione, dopo una vicenda aggravata da una incomprensibile carcerazione preventiva. E ha aggiunto: “Ho anche la spiacevole sensazione di essere utilizzato come ingranaggio impotente in un meccanismo che vede partecipi una lotta di potere all’interno della magistratura e un conflitto, anche questo di potere, irrisolto, tra giustizia e politica”.
La “sensazione” dell’ex sindaco del Pd della città lombarda può essere comprensibile, non può essere dimostrata per tabulas, ma individua bene uno dei problemi irrisolti nella tutela dei diritti degli imputati. Come spiega Ermes Antonucci su queste pagine, la sentenza d’Appello che aveva assolto Uggetti si basava sul giudizio che non vi fu alcun reato, non solo perché non vi fu nessun danno all’interesse pubblico ma perché il comportamento del sindaco rientrava nel “margine discrezionale di intervento riconosciuto dalla legge”.
Il ricorso contro quella sentenza è stato presentato dalla Procura generale di Milano, che ha la competenza e l’autorità per ricorrere contro le sentenze, anche di assoluzione – sebbene da anni sia in corso un dibattito tra giuristi e legislatori per specificare meglio, o limitare, tale prerogativa da più parti contestata. Non si conoscono ancora le motivazioni della Cassazione, ma si sa che per la Procura generale la sentenza è stata impugnata non per difetti di forma, ma perché non è stata condivisa la logica giuridica con cui l’Appello era giunto alle sue conclusioni di reato “che non sussiste”. Quindi entrando direttamente nel merito.
Tutto legittimo, certamente. Ma la domanda posta da Uggetti, e da qualsiasi imputato che si venga a ritrovare nella stessa condizione, è semplice: quanto vale la mia assoluzione? E quando finisce il mio processo, una volta che sia stato riconosciuto innocente? Quanti gradi di giudizio aggiuntivi? Mentre l’inappellabilità delle assoluzioni è ritenuta decisivo un diritto dei cittadini (per gli anglosassoni è il divieto di doppia incriminazione) per l’accusa la possibilità di ricorrere contro una bocciatura in tribunale appare in certi casi una forma di accanimento. Non per nulla nel 2006, quasi vent’anni fa, la cosiddetta legge Pecorella provò a rafforzare il principio, introducendo l’inappellabilità delle sentenze di assoluzione e riducendola alla sola possibilità di revisione del processo in Cassazione di fronte a nuove prove, non per vizi di valutazione o altro. La legge fu smontata pezzo a pezzo dalla Corte Costituzionale, in un clima di accanimento politico fomentato dall’antiberlusconismo politico e togato. Ma non è un caso che un principio analogo fosse stato inserito nella riforma del processo del ministro Cartabia ma sia stato un’altra volta cancellato dal fuoco di sbarramento dei partiti giustizialisti. Così ancora una volta, davanti a un processo persino senza reato, un cittadino è costretto ancora a chiedersi: quanti gradi di giudizio servono per provare la mia innocenza?