Leggere l'ultimo saggio di Manes per comprendere il calvario di Giulia Ligresti
L'ultimo saggio del prof. Vittorio Manes, dal titolo "Giustizia mediatica", aiuta a capire i risvolti drammatici del processo subito da Giulia Ligresti, risarcita con sedicimila euro per ingiusta detenzione
Sedicimila euro. E’ quanto riceverà Giulia Ligresti per il calvario mediatico-giudiziario subito tra il 2013 e il 2019, con tanto di 36 giorni trascorsi in carcere e 50 ai domiciliari. La figlia secondogenita di Salvatore, l’ex re del mattone e della finanza (scomparso nel 2018), venne accusata di falso in bilancio e aggiotaggio nel caso Fonsai, incentrato su un buco di circa 600 milioni di euro. Il 17 luglio 2013 venne arrestata su richiesta della procura di Torino insieme alla sorella Jonella. L’esperienza nel carcere di Vercelli fu devastante e Giulia, che soffriva anche di disturbi alimentari, il 2 agosto chiese il patteggiamento. A fine agosto venne scarcerata e posta ai domiciliari dopo una perizia sulle sue condizioni di salute. Più tardi, a settembre, la richiesta di patteggiamento venne accolta: 2 anni e 8 mesi di reclusione. Giulia Ligresti tornò in libertà, per poi tornare in carcere nell’ottobre 2018, per scontare la pena patteggiata.
La vicenda giudiziaria a quel punto divenne schizofrenica: gli atti vennero trasmessi per competenza da Torino a Milano, dove il fratello di Giulia, Paolo, e altri ex manager di Fonsai vennero assolti da ogni accusa per gli stessi fatti per i quali Giulia aveva patteggiato. Un contrasto di sentenze che portò nel 2019 alla revisione della condanna nei confronti di Giulia e alla sua assoluzione. La corte d’appello di Milano ora ha deciso di risarcirla con sedicimila euro per ingiusta detenzione, solo per i 16 giorni trascorsi in carcere prima di avanzare richiesta di patteggiamento. Quest’ultimo, a opinione dei giudici, infatti “presuppone il suo implicito riconoscimento di responsabilità”, nonostante fu la tortura del carcere a indurre Giulia a patteggiare.
Nel frattempo, di fango ne è stato versato. I quotidiani, all’epoca, si scatenarono. “La bella vita a spese di Fonsai”, scrisse il Fatto quotidiano. Luigi Zingales sul Sole 24 Ore definì l’arresto dei Ligresti “un ottimo segnale”, mentre su Repubblica Francesco Merlo definì i Ligresti “una famiglia di malfattori finanziari, tra i quali c’è pure un dorato latitante”. Vennero pure diffuse alcune intercettazioni telefoniche in cui l’allora ministro della Giustizia, Anna Maria Cancellieri, amica di lunga data della famiglia Ligresti, esprimeva a quest’ultima la sua solidarietà per la situazione vissuta.
L’ennesimo esempio emblematico di processo mediatico, un fenomeno lucidamente esaminato da Vittorio Manes, professore ordinario di Diritto penale all’Università di Bologna e avvocato, nel suo ultimo saggio, intitolato “Giustizia mediatica. Gli effetti perversi sui diritti fondamentali e sul giusto processo” (Il Mulino), da pochi giorni in libreria. “I media hanno trasformato la giustizia in spettacolo, portando nelle nostre case notizie di indagini e processi attraverso giornali e telegiornali, salotti televisivi e talk show”, scrive Manes. “Una ‘giustizia senza processo’ occupa ormai quotidianamente il circo mediatico, che antepone lo show al racconto e lo share alla corretta rappresentazione dei fatti”. Il saggio analizza per la prima volta gli effetti perversi prodotti dal processo mediatico sul piano sostanziale e processuale: l’atipicizzazione delle imputazioni, la moltiplicazione delle accuse per lo stesso fatto, la spersonalizzazione degli addebiti, ma soprattutto le ricadute sulla presunzione di innocenza, sul diritto al rispetto della vita privata e familiare, sul contraddittorio tra le parti.
Il processo mediatico, scrive efficacemente Manes, costituisce “un’improvvisa discesa agli inferi, inattesa quanto immersiva, che nei suoi effetti folgoranti può essere compresa, forse, solo da chi ha la ventura di sperimentarla, accorgendosi di colpo che lo stigma penale e le sue conseguenze più ustionanti non sono poi così distanti come ingenuamente si crede”. L’ultimo capitolo del saggio mira a delineare, più che rimedi risolutivi, una serie di “modifiche volte alla riduzione del danno”, sia sul fronte della cronaca giudiziaria che su quello delle misure rimediali.