Tre quesiti
Caro Letta, ripensaci. Il No del Pd ai referendum sulla giustizia è un guaio
Tre quesiti vanno nella stessa direzione del lavoro del dem. Un appello di Enrico Morando e Stefano Ceccanti, esponenti del Partito democratico
Scriviamo all’indomani di uno sciopero di alcuni magistrati italiani che ovviamente non condividiamo ma che ha puntualmente motivato una cosa vera, ossia che c’è politicamente, prima ancora che tecnicamente, una coerenza tra almeno tre dei quesiti referendari e il lavoro parlamentare che ha portato all’approvazione da parte della Camera del disegno di legge di riforma dell’ordinamento giudiziario e del sistema elettorale del Csm. Per questa ragione non si capirebbe, soprattutto da parte di chi vi ha lavorato, un atteggiamento diverso tra il Parlamento e la cabina elettorale Il quesito referendario più significativo – sul piano politico-culturale – è certamente quello rivolto ad azzerare la possibilità, per il magistrato, di passare dalla funzione giudicante a quella requirente (e viceversa). Esso è rivolto a rendere effettivo ed esigibile il diritto del cittadino, nel processo “giusto”, a essere giudicato da un soggetto “terzo” rispetto al magistrato della pubblica accusa e all’avvocato della difesa.
Walter Verini (il Dubbio, 14-5-22) sostiene, per conto del Pd, le ragioni del No anche a questo quesito, perché “tenendo conto di quanto pochi siano, nella realtà, i cambi da pm a giudice (121 del quadriennio 2016-2020, trenta l’anno)”, ritiene di poter concludere che sia “più che sufficiente il punto di caduta” definito dal Parlamento, che ha ridotto i quattro passaggi previsti dalla legislazione vigente a uno solo. Prendiamo per buoni i dati sulle dimensioni del fenomeno, ma li consideriamo del tutto inappropriati a fondare una reiezione del quesito referendario. L’articolo 111 della Costituzione sul giusto processo, introdotto nel 1999 grazie a un lavoro politico-parlamentare di cui la sinistra riformista fu protagonista, recita testualmente: “Ogni processo si svolge nel contraddittorio tra le parti, in condizioni di parità, davanti a giudice terzo e imparziale”. E’ semplicemente evidente che se la carriera del giudice è “unica” rispetto a quella del pubblico accusatore, questa “unità” entra in rotta di collisione – ben aldilà della soggettiva intenzione dei singoli magistrati – col diritto del cittadino al processo giusto. Non è dunque una questione di quantità – il numero di giudici che ogni anno trasmigrano verso la funzione requirente (e viceversa). E’ una limpida questione di principio.
Proprio a questo principio, del resto, deve essersi ispirato il Parlamento quando ha deciso una così drastica riduzione del numero dei passaggi da una funzione all’altra. Perché un solo passaggio, invece di nessun passaggio? Ci sono state certo fondatissime ragioni che hanno suggerito ai riformisti di entrambi i campi di accettare la soluzione di compromesso: se si giudica negativamente il passaggio di funzioni, in presenza di un Parlamento nel quale le posizioni giustizialiste hanno molti sostenitori, si può ben accettare una riduzione da quattro a uno.
Il quesito referendario, per definizione, si muove in una logica binaria e propone al cittadino-elettore una domanda cui può rispondere solo con un sì o con un no. Chi vota No – come Verini vorrebbe che facesse il Pd – non difende il ragionevole e positivo compromesso che riduce i passaggi di carriera a uno solo. Anzi, sostenendo il mantenimento della legislazione vigente, finisce col negare il valore stesso dell’accordo raggiunto in sede parlamentare. Col risultato di presentare agli elettori, sullo stesso tema, due posizioni opposte: se si vota in Parlamento, si parte dal giudizio secondo il quale i passaggi di carriera oggi possibili sono troppi e li si riduce a uno solo. Se si vota nel paese, si torna alla difesa dello status quo.
“Ricostruire la giustizia – sostiene Verini – è opera da realizzare nei luoghi appropriati”. Giusto. Ma se c’è da ricreare equilibrio in un sistema che lo ha perso da decenni, l’intera collettività nazionale deve essere resa almeno consapevole, se non partecipe, della lunga iniziativa riformatrice che è necessaria e dei princìpi fondamentali che la ispirano. Come si può pensare di ottenere questo risultato creando, per mere ragioni di tattica politicista, un così grande baratro tra ciò che si dice e si fa in Parlamento (i passaggi di carriera ostacolano il giusto processo e dovrebbero essere impediti, ma possiamo ben accettare, in virtù dei rapporti di forza parlamentari, che si riducono a uno solo); e ciò che si dice e si fa nel paese (i passaggi di carriera garantiscono l’unicità della “cultura della giurisdizione” e voi cittadini andate a votare e votate No, lasciando che restino addirittura quattro)?
Il voto Sì al referendum è certamente coerente con l’iniziativa del governo, del Parlamento e del Pd per la riduzione a uno dei passaggi. Il quesito referendario, a vittoria del Sì acquisita, non la smentirebbe, perché andrebbe oltre la riforma, ma muoverebbe nella stessa direzione. Per la vittoria del No, varrebbe il contrario. Peraltro un anno dopo la riforma dell’articolo 111 della Costituzione la Corte con la sentenza 37/2000 ammise un referendum sulla separazione argomentando puntualmente che l’unico vincolo posto dalla Carta è l’unicità del Csm, ma che per il resto essa “non contiene alcun principio che imponga o al contrario precluda la configurazione di una carriera unica o di carriere separate fra i magistrati addetti rispettivamente alle funzioni giudicanti e a quelle requirenti, o che impedisca di limitare o di condizionare più o meno severamente il passaggio dello stesso magistrato, nel corso della sua carriera, dalle une alle altre funzioni”.
Anche per il quesito sul sistema di valutazione dei magistrati, la coerenza tra lavoro parlamentare e voto Sì è evidente: le soluzioni finali proposte, infatti, sono analoghe, rompono l’autoreferenzialità di partenza delle valutazioni. Al di là del coinvolgimento nel quesito anche dei professori universitari e non solo degli avvocati, la vera differenza di natura è la seguente: la riforma Cartabia si realizza tramite delega al governo, mentre quella che risulterebbe dalla vittoria del Sì al referendum sarebbe immediatamente precettiva. Come questa unica differenza di natura possa motivare due atteggiamenti opposti (Sì alla riforma; No al referendum), appare imperscrutabile.
Infine il quesito sul sistema elettorale del Csm è l’unico che cadrebbe in caso di approvazione parlamentare della riforma. Proprio per questo, quindi, chi approva la riforma in Parlamento non può con tutta evidenza fare campagna per il No al referendum qualora la riforma non sia nel frattempo arrivata in tempo. Per queste ragioni non solo noi voteremo comunque Sì a quei quesiti, ma soprattutto invitiamo la Direzione del Pd che si apre oggi a evitare di assumere posizioni che ne minerebbero la credibilità riformista proprio su un tema qualificante su cui, come su altri, il Pd sta ben operando in Parlamento.
Enrico Morando,
Stefano Ceccanti
presidente e vicepresidente vicario dell’associazione Libertà Eguale