“Falcone ferito dai magistrati e poi ucciso”. Parla Di Federico
Intervista allo studioso che spinse il ministro della Giustizia Martelli a chiamare Giovanni Falcone alla Direzione generale degli affari penali: "Contro di lui attacchi durissimi dall’Associazione nazionale magistrati e da diversi colleghi"
Lunedì saranno trascorsi trent’anni dalla strage di via Capaci, in cui persero la vita Giovanni Falcone, la moglie Francesca Morvillo e i tre uomini della scorta, Vito Schifani, Rocco Dicillo e Antonio Montinaro. Per ricordare il Giovanni Falcone uomo e magistrato, scomodo anche a molti suoi colleghi, abbiamo intervistato Giuseppe Di Federico, professore emerito dell’Università di Bologna, il più grande studioso italiano di sistemi giudiziari. Nel 1991 Di Federico era consulente dell’allora ministro della Giustizia Claudio Martelli. Fu proprio Di Federico a suggerire a Martelli di chiamare Falcone alla Direzione generale degli affari penali.
“Conobbi Falcone nel 1985, con lui ho avuto un rapporto di amicizia breve ma molto intenso, soprattutto dopo il suo arrivo al ministero nel marzo 1991”, ricorda Di Federico al Foglio. “Martelli volle che fossi io a consultare preventivamente Falcone. Prima di darmi la sua disponibilità a venire al ministero, Falcone mi chiese se ritenevo che Martelli avrebbe assecondato le iniziative riformatrici in materia di coordinamento delle attività del pubblico ministero, che lui chiamava ‘variabile impazzita del sistema’. Gli dissi di sì. Tornai quindi dal ministro Martelli per dargli la disponibilità di Falcone. Ne fu molto contento e gli telefonò subito. Il giorno dopo Falcone venne a Roma, accettò l’offerta di Martelli e si mise immediatamente a lavoro. Ciò che mi piaceva di lui era che non amava discorsi teorici, andava dritto all’obiettivo che si poneva”.
Falcone cominciò a lavorare subito per la creazione della “Superprocura” antimafia, cioè di una struttura che avesse un potere di supervisione gerarchica sulle procure e che, di fronte all’incapacità degli uffici requirenti, potesse anche intervenire direttamente nelle indagini o avocarle. “Contro questo progetto, l’Associazione nazionale magistrati e diversi colleghi si scatenarono con articoli durissimi nei confronti di Falcone”, ricorda Di Federico. La rivolta portò all’istituzione di una procura nazionale antimafia con poteri molto attenuati, ma Falcone decise comunque di candidarsi alla sua guida. Dopo la delusione per la mancata nomina da parte del Csm al vertice dell’ufficio istruzione di Palermo nel 1988 (tra gli attacchi di Magistratura democratica) e per la mancata elezione al Csm nel 1990, Falcone dovette subire l’ennesimo affronto.
Nel febbraio 1992, infatti, la commissione incarichi direttivi del Csm respinse la sua nomina a superprocuratore, indicando il nome di Agostino Cordova. Falcone sperava ancora di potercela fare in plenum, ma la pratica non arrivò mai in seduta plenaria a causa della strage di via Capaci.
Nel frattempo, però, gli attacchi nei suoi confronti erano proseguiti. Il più noto fu quello rivoltogli dalle pagine dell’Unità da Alessandro Pizzorusso, componente laico del Csm in quota Pds, molto vicino a Md: “Falcone è troppo legato al ministro per poter svolgere con la dovuta indipendenza un ruolo come quello di procuratore nazionale antimafia”, scrisse Pizzorusso, avvisando i consiglieri togati che se avessero votato per lui in plenum avrebbero perso molti voti tra i colleghi che da lì a breve avrebbero dovuto eleggere i nuovi vertici dell’Anm. “In quel periodo ero negli Stati Uniti con Liliana Ferraro (all’epoca stretta collaboratrice di Falcone, nda) per conto del ministero. Falcone ci telefonò e ci lesse l’articolo di Pizzorusso. Era molto ferito da quell’articolo, anche molto arrabbiato, soprattutto per il fatto che venivano espresse minacce nei confronti di chi l’avesse eventualmente votato in plenum”, rivela Di Federico.
Poi la fine. “La sera prima della strage incontrai Falcone per i corridoi del ministero. Lui mi salutò gioiosamente, io invece risposi a mezza bocca perché avevamo avuto un litigio per una sciocchezza. Il giorno dopo purtroppo venne ammazzato. Provai un gran senso di colpa, perché non ci eravamo lasciati in allegria. La sua morte pose fine alle tante iniziative che avevamo avviato insieme al ministero”, conclude Di Federico.