30 anni dopo
Giovanni Falcone: un uomo della Repubblica
La storia del pm tradito, isolato ed esposto al massacro dallo stato è veleno da opinionismo investigativo propinato da politicanti senza scrupoli e media senza contatto con le cose reali. Rileggere la storia trent'anni dopo
Trent’anni dopo Giovanni Falcone è ridiventato quello che era, un uomo della Repubblica. A parte sbavature e retoriche moleste, che continuano a dimezzare il suo ricordo e lo riducono a “valori” in conflitto con le istituzioni da lui rappresentate, l’eroismo del giudice assassinato dalla mafia con la moglie e la scorta, in un pomeriggio di maggio, ha ripreso il suo posto. Da giudice istruttore, Falcone provocò e interpretò negli anni Ottanta la stagione finale della mafia siciliana, travolta dal pentitismo, con scrupolo e nel più assoluto segreto, raccogliendo le confessioni di un soldato di grado medio dell’organizzazione. Si mosse sulla scia dei “Valachi papers”, le carte alla Buscetta degli anni Sessanta sulla Cosa nostra dei Genovese, dei Gambino e dei Bonanno. Con una differenza significativa. Testimoniando pubblicamente al Congresso in televisione, e poi affidando il suo racconto al giornalista Peter Maas e alla leggenda cinematografica successiva, Joe Valachi fece il ritratto dell’organizzazione criminale e della sua struttura decisionale, nominando le famiglie e inducendo una nuova legislazione di contrasto, ma le regole della giustizia americana imposero all’Fbi e alle corti di giustizia altre vie per la neutralizzazione dei padrini, vie dirette, puntuali, dimostrate atto criminale per atto criminale. A Falcone riuscì, tra controversie e dubbi giuridici, ma in un contesto emergenziale di guerra di mafia che era diverso dalla situazione americana, di ricondurre a un maxiprocesso, di cui stato e magistratura e forze dell’ordine furono i protagonisti indiscussi e i veri attori antimafia, il pentimento di Buscetta e la sua testimonianza, incastrando definitivamente il vertice di Cosa Nostra.
Dopo la strage di Capaci, e la successiva strage del giudice Borsellino e dei suoi, una leggenda chiacchierona, ideologica e di pronta beva, banalmente politicizzata dai soliti noti, volle che a pagare per il sacrificio dei magistrati coraggiosi fosse, invece che la mafia che li aveva uccisi, lo stato italiano che essi rappresentavano in tutto il loro lavoro e che attraverso di essi dimostrò, come ha ripetuto oggi Sergio Mattarella, che “la mafia non è imbattibile”. Falcone e Borsellino avevano ovviamente dei detrattori e dei nemici, come tutte le persone che incidono e fanno. L’elenco è lungo, e bisogna distinguere tra la tirata liberale e garantista di un Leonardo Sciascia contro “i professionisti dell’antimafia”, le comprensibili polemiche sulle derive e le strumentalizzazioni cui si prestava la gestione investigativa dei pentiti, e le insidiose trame della politica, anche di quella che si voleva militante antimafiosa, dei media arrembanti e delle correnti sconfitte della magistratura e di altri apparati che ebbero il solito comportamento ambiguo. Ma furono loro a vincere, Falcone e Borsellino scontarono l’isolamento tipico delle battaglie eroiche, e alla fine pagarono con la vita per una vittoria dello stato, non per una inesistente vittoria dell’antistato mafioso.
Falcone fu un uomo della Repubblica fino alla fine. Sapeva che il Parlamento aveva varato con la legge voluta da Pio La Torre, dieci anni prima del suo assassinio, una legislazione draconiana ed efficace contro il reato associativo di mafia. Sapeva che il maxiprocesso e la definitiva condanna del vertice mafioso non sarebbero stati possibili senza il contributo determinante degli apparati di stato e delle legislazioni di emergenza varate dalla classe politica repubblicana. Sapeva che il famoso “terzo livello”, il luogo di una segreta collusione tra politica e mafia, era un’idea esposta anche alla calunnia e alla infida gestione della stessa mafia (arrestò per il reato di calunnia un pentito che ascrisse a Giulio Andreotti di aver dato mandato per l’omicidio di Piersanti Mattarella). Rispettava il segreto investigativo come nessuno, non si esponeva a becere strumentalizzazioni. La sua idea della mafia come potere era sottile e molto siciliana, come dimostra il suo magnifico libro scritto con Marcelle Padovani (“Cose di Cosa Nostra”), e la sua visione della funzione della magistratura era garantista, basta leggere quanto scrisse e disse sulla divisione delle carriere tra requirenti e giudicanti e considerare il lavoro di impostazione della Direzione nazionale antimafia che vide la luce a cavallo della sua morte, e per la quale era candidato. Lavorò un anno come direttore generale degli Affari penali nel governo di Giulio Andreotti, e questa era la sua veste istituzionale ma anche l’espressione della sua vocazione di servizio, politica e di stato, quando fu ammazzato a Capaci. La leggenda nera di Falcone tradito e isolato ed esposto al massacro dallo stato è solo un veleno propinato all’opinione pubblica per tre decenni da politicanti senza scrupoli e media senza contatto con le cose reali. Una storia che sembra finita nel ludibrio delle nuove “rivelazioni” del solito opinionismo investigativo di una trasmissione Rai.