Il medico Carlo Mosca (foto Ansa) 

L'incredibile storia del primario accusato di omicidio e ora assolto

Ermes Antonucci

La corte d'assise di Brescia ha assolto Carlo Mosca, primario del pronto soccorso dell’ospedale di Montichiari, dall'accusa di aver ucciso due pazienti con l'iniezione di farmaci letali. Il medico racconta il suo calvario, fatto di oltre 500 giorni ai domiciliari

Venerdì la corte d’assise di Brescia ha assolto dall’accusa di omicidio volontario il medico Carlo Mosca, il primario (sospeso) del pronto soccorso dell’ospedale di Montichiari, in provincia di Brescia, finito a processo per la morte di due malati di Covid deceduti nel marzo 2020, durante la prima ondata dell’emergenza pandemica. Il pm aveva chiesto una condanna a 24 anni di carcere perché, secondo le testimonianze di due infermieri, Mosca avrebbe somministrato ai due pazienti degli anestetici (il Propofol e la Succinilcolina) senza però poi procedere all’intubazione, così causandone la morte. Lo scopo, secondo l’accusa, sarebbe stato quello di liberare posti letto in un momento in cui l’emergenza pandemica era all’apice, con la struttura ospedaliera inondata di pazienti. Le accuse nei confronti di Mosca, difeso dagli avvocati Elena Frigo e Michele Bontempi, si sono però rivelate infondate. La corte d’assise, presieduta dal giudice Roberto Spanò, ha assolto il medico perché “il fatto non sussiste” e ha disposto l’immediata cessazione della misura degli arresti domiciliari, emessa il 25 gennaio 2021. Mosca, infatti, ha trascorso oltre 500 giorni agli arresti domiciliari in casa del padre

 

Sono molto contento della sentenza – dichiara Carlo Mosca al Foglio – in primis perché è stata ripristinata la mia figura professionale. Poi per mio papà, che ha 79 anni e ha sofferto un anno e mezzo con me, uscendo di casa solo per andare alla tomba di mia madre alle sette del mattino, per non farsi vedere da nessuno in paese. Poi per la mia compagna e mia figlia, che a nove anni ha dovuto subire l’onta di andare a scuola ed essere derisa dagli amichetti perché il papà era agli arresti”.

 

La corte d’assise di Brescia ha disposto per i due infermieri che hanno accusato Mosca la trasmissione degli atti alla procura con l’ipotesi di reato di calunnia.

 

Dalle perizie effettuate durante il processo, infatti, non è emersa alcuna traccia di Succinilcolina nel corpo dei cadaveri riesumati, mentre in un caso sono state rilevate tracce di Propofol. Questa sostanza, tuttavia, “è stata trovata distribuita in maniera strana, nel distretto centrale del corpo, ma quasi totalmente assente nel cervello”, spiega l’avvocato Michele Bontempi. “L’assenza di Propofol nel cervello ci ha portato a considerare come ipotesi alternativa una somministrazione post mortem”. Insomma, qualcuno avrebbe iniettato il farmaco per incastrare Mosca.

 

Uno scenario inquietante, su cui il medico si riserva di esprimersi, ricordando però le invidie in ambito lavorativo che già circolavano nei suoi confronti ben prima dell’emergenza Covid-19: “Una volta qualcuno mi ha bucato le gomme dell’auto nel parcheggio, un’altra volta mi hanno rigato tutta la fiancata”. Ciò che è certo è che i due pazienti sono purtroppo morti per causa naturale e non per effetto della somministrazione di farmaci. “E’ stato anche dimostrato – aggiunge l’avvocato Bontempi – che, come in tanti altri casi, queste persone erano affette da più patologie importanti, nelle quali si è inserita la polmonite interstiziale da Covid-19, che li portò a morire”.

 

Ora Mosca riflette sul calvario vissuto. “Trascorrere un anno e mezzo chiuso in casa è un’esperienza terribile – racconta il medico – La vita si stravolge, soprattutto per una persona come me abituata a lavorare dodici ore al giorno. In un anno e mezzo di domiciliari sono riuscito a incontrare mia figlia sei volte, grazie alla concessione del giudice. Sono rimasto senza stipendio, con un contributo di sostegno per il mantenimento della bambina. Ho passato il tempo facendo ginnastica nel vialetto di casa, restaurando biciclette e motorini, leggendo giornali, studiando”. “Abbiamo un sistema giudiziario assolutamente insufficiente, troppo lento – afferma Mosca – Le udienze del processo si sono tenute una volta ogni mese e mezzo. Ma lei sa quanti giorni ci sono in un mese e mezzo?”.

 

Sul suo futuro, comunque Mosca ha le idee chiare: “Rivoglio quello che avevo. Voglio ritornare al mio pronto soccorso, dal mio personale e dai miei pazienti. Sono nato e cresciuto lì. Dopo la sentenza ho ricevuto tantissimi messaggi dai rappresentanti delle istituzioni, dai farmacisti, ma soprattutto dai pazienti, perché nel corso degli anni ho seguito decine di migliaia di pazienti. Il fattore economico non mi ha mai interessato più di tanto, mi interessa il fattore umano. Saper risolvere i problemi, piccoli e grandi, della gente. Sono troppo legato a quel pronto soccorso. Per me la vita è lì, e lì voglio tornare”.

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