Vivere di trattativa
Catalogo dei magistrati che hanno trasformato una boiata in ragione di vita
Dopo Ingroia e Di Matteo si scalda Scarpinato
Non importa che il patto fra mafia e politica non ci sia stato, che gli imputati siano stati assolti, finché resiste nelle suggestioni di sentenze romanzesche qualcuno continuerà a fare della Trattativa una ragione di vita, dentro e fuori dalle aule di giustizia
Finché c’è la Trattativa c’è speranza per chi di Trattativa ha vissuto dentro e fuori le aule di giustizia. Tenetevi forte. Il casting dell’antimafia è ripartito. Si cerca il più bello del reame che trasformi un’ipotesi strampalata, prima investigativa e poi processuale, in una nuova offerta politica.
L’araba fenice dell’antimafia rinasce dalle ceneri di un processo, quello sulla fantomatica trattativa stato-mafia, che la pubblica accusa ha perso. In Appello era stato chiesto di stangare come in primo grado gli ufficiali dei carabinieri. Sono stati assolti, a differenza dei mafiosi. Le romanzesche motivazioni della Corte di assise di appello di Palermo danno, però, la stura all’ondata di suggestioni. Come lo squillo della settima tromba dell’Apocalisse, una montagna di pagine – quasi tremila – annuncia che la Trattativa regnerà nei secoli dei secoli.
A serrare i ranghi è un leader storico, l’ex procuratore generale di Palermo Roberto Scarpinato. La sua dimensione di neopensionato lo libera da lacci e lacciuoli. Può criticare, senza badare troppo alla continenza che la toga gli imponeva, i colleghi giudici che hanno motivato l’assoluzione dei carabinieri al processo sulla trattativa.
E così dalle colonne del Fatto quotidiano riserva parole durissime al presidente della Corte Angelo Pellino e al giudice a latere Vittorio Anania. Il retrogusto acre del suo giudizio ha il sapore di una chiamata alle armi. Scarpinato “accusa” i suoi ex colleghi di avere “fatto sparire” una sfilza di argomenti dalla motivazione. Specie quelli sulla strage Borsellino. “Un gioco di prestidigitazione probatoria per sottrazione”, lo definisce, che “preclude di ricostruire i motivi dell’accelerazione della strage che chiamano in causa apparati deviati dello stato”. Scarpinato annuncia urbi et orbi la sua discesa in campo in difesa dei “magistrati che più si sono spesi per dimostrare la compartecipazione di soggetti esterni alle stragi del 1992-’93” e hanno patito il comune destino di essere “ostracizzati ed emarginati in vari modi, taluni persino sottoposti a inchieste disciplinari e financo penali, altri nel mirino di prolungate campagne di delegittimazione”.
Scarpinato deve essersi distratto. Da più di un decennio si celebrano processi sulle vicende legate, direttamente o indirettamente, alla Trattativa. Processi sorretti da una campagna mediatica senza precedenti a colpi di titoloni in prima pagina. I pubblici ministeri hanno riempito i palinsesti televisivi, ospiti d’eccezione dei programmi di approfondimento. La tv senza un pm intervistato sul palcoscenico è stata considerata di second’ordine. Roba che all’Auditel veniva da ridere.
L’ex procuratore Roberto Scarpinato “accusa” i suoi colleghi di avere “fatto sparire” una sfilza di argomenti dalla motivazione della sentenza
Ed ancora libri da autografare e premiazioni, e teatri pieni, e cittadinanze onorarie e festival politici dove si spellavano le mani per gli applausi. Sì, Scarpinato deve essersi distratto. Non c’è altra spiegazione.
E lo stigma dell’ostracismo? I fatti vanno in direzione ostinata e contraria rispetto alle sue affermazioni. A cominciare dalla sua prestigiosa carriera, culminata nell’incarico di procuratore generale a Palermo. E gli altri che hanno imbastito il processo a Palermo? Vittorio Teresi, oggi in pensione, ha fatto a lungo il procuratore aggiunto. Antonino Di Matteo è al Consiglio superiore della magistratura, dopo essere stato alla Direzione nazionale antimafia. Francesco Del Bene è alla Dna. Roberto Tartaglia ha ricoperto l’incarico di vice direttore del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria e presto passerà agli Affari giuridici e amministrativi della presidenza del Consiglio dei ministri. Alfredo Montalto, il presidente della Corte di assise che condannò in primo grado gli ufficiali dei carabinieri, guida la sezione Gip-Gup del tribunale di Palermo. Piergiorgio Morosini, il giudice che diede il via alla macchina giudiziaria con il rinvio a giudizio degli imputati per la Trattativa, è stato prima consigliere del Csm e ora è sostituto procuratore generale in Cassazione.
Carriere brillanti, incarichi di peso che fanno a pugni con il termine “emarginati” usato da Scarpinato. La Trattativa ha rimpolpato i loro curricula, di certo non è stato un ostacolo. Hanno avuto tempo e modo di scandagliare i temi cari all’antimafia militante, senza che nessuno gli mettesse il bastone tra le ruote, men che meno il bavaglio.
Carriere brillanti e incarichi di peso fanno a pugni con il termine “emarginati” usato da Scarpinato per i magistrati del processo sulla Trattativa
L’unico che ha cambiato aria è Antonio Ingroia, l’ideologo della Trattativa, sedotto dalla politica. Si arrabatta fra un movimento e un altro per guadagnarsi uno strapuntino di notorietà. Politica, si intende. A lui si deve, non solo l’indagine e il processo sulla Trattativa, ma anche la paternità dell’idea di farla diventare una proposta politica.
Pensandoci bene Scarpinato è tornato a casa, in quel campo largo della Trattativa da cui a un certo punto era sembrato volersi smarcare. Il processo era quello in Appello contro il generale Mario Mori e il colonnello Mauro Obinu, poi assolti dall’accusa di avere fatto volutamente scappare Bernardo Provenzano in un casolare nelle campagne palermitane. Scarpinato si presentò in aula chiedendo di riaprire l’istruttoria dibattimentale. La Trattativa era diventata una zavorra. Propose allora un tuffo nel passato di Mori, fino a giungere alla P2 di Licio Gelli. Era il cuore dell’inchiesta sui “sistemi criminali” che lui stesso coordinava da procuratore aggiunto e che era stata chiusa con l’archiviazione.
Per tentare di vincere il processo Scarpinato iniziò con il “no grazie” rivolto al collega Di Matteo, respingendo la sua richiesta di applicazione al processo di appello dopo essere stato il pm di primo grado. Infine, il colpo di teatro: sganciare il processo a Mori dalle sabbie mobili della Trattativa. L’assoluzione di Calogero Mannino (che poi sarebbe divenuta definitiva) suggeriva a Scarpinato di mollare i colleghi della Procura che nel favore a Provenzano individuavano uno dei tasselli della Trattativa. Mori e Obinu finirono per essere considerati da Scarpinato favoreggiatori di Provenzano non in quanto successore di Totò Riina alla guida di Cosa nostra, ma come uno dei tanti criminali in circolazione. Niente più contestazione dell’aggravante di mafia. Andò male per l’accusa.
Scarpinato si fa largo a suon di interventi pubblici. La prima mossa è sanare la frattura del passato. Tende la mano innanzitutto a Di Matteo, del quale dice di condividere la preoccupazione che la motivazione del processo si presti a esser letta come una legittimazione e un viatico a dialogare con la mafia, “a conviverci”. Le 2.900 pagine finiscono per accontentare o scontentare tutti (dipende dai punti vista). Offrono una tale gamma di angolazioni e interpretazioni che c’è gloria o disonore per tutti.
Scarpinato è duro, durissimo con la Corte di assise di appello secondo cui non ci fu alcun patto politico mafioso, ma i carabinieri si attivarono per fermare le stragi, di certo non per fare un favore a Cosa nostra. Altrettanto dura è la critica alla tesi che l’accelerazione del piano di morte di via D’Amelio non sia dipesa dal fatto che Borsellino avesse smascherato l’esistenza della Trattativa, ma dal dossier “mafia e appalti” su cui il magistrato stava lavorando prima di saltare in aria. E’ un nervo scoperto per Scarpinato, che assieme al collega Guido Lo Forte chiese l’archiviazione dell’indagine anche se l’ex procuratore generale ha sempre detto che la chiusura riguardava solo una parte dell’inchiesta. Il resto andò avanti.
Al di là delle singole posizioni è certo che il tema della Trattativa ha frenato le successive indagini su “mafia e appalti”, su cui si è deciso di non investire tempo e danaro. E di danaro nel processo Trattativa ne è stato perso parecchio. Chi lo ha fatto notare si è beccato i rimbrotti di coloro che faticano ad accettare le critiche. Sono arrivati allo scontro persino con i figli di Paolo Borsellino che hanno stigmatizzato la scelta di abbandonare troppo in fretta la pista degli interessi economici dell’ala stragista di Cosa nostra.
Le parole di Scarpinato sulle motivazioni della sentenza fanno impallidire il “quattro meno” in pagella che un altro magistrato, Vittorio Teresi, assegnò a mezzo stampa al presidente del tribunale Mario Fontana, che aveva osato assolvere i carabinieri dall’accusa di avere fatto un favore a Provenzano. La motivazione di quell’assoluzione di primo grado (è il processo che in Appello sarà seguito da Scarpinato) non gli piacque. Perché? Gli aveva dato torto, what else. Successivamente Teresi si disse pentito di quelle parole contenute in un’intervista. Improvvide le definì davanti al Csm, che decise di archiviare il procedimento disciplinare aperto contro il magistrato che sarebbe subentrato ad Antonio Ingroia alla guida del pool di pm del processo Trattativa.
“Scarsa rilevanza del fatto”, fu la magnanima conclusione dei colleghi del Consiglio superiore della magistratura.
Teresi rimase al posto di comando lasciato vuoto da Ingroia. Fu un’inaspettata sliding door che lo riportava in una comfort zone. Per buona pace di Calogero Mannino, la cui assoluzione ha rappresentato l’inizio della fine della ricostruzione trattativista. Chi era il pm del processo in cui Mannino fu processato e assolto dall’accusa di concorso esterno in associazione mafiosa dopo 23 mesi di carcerazione preventiva? Vittorio Teresi. Chi rappresentava l’accusa al processo d’appello? Vittorio Teresi, che nel frattempo aveva ottenuto il trasferimento alla Procura generale. Quando Mannino finì sotto processo, scegliendo l’abbreviato, al processo Trattativa Teresi prese il posto di Ingroia. E così l’ex ministro democristiano se lo ritrovò davanti per la terza volta.
Dopo lo scivolone del “4 meno” niente più interviste o quasi per Teresi. Nulla a che vedere con la sovraesposizione di Scarpinato, specie ora che ha meno vincoli del passato.
Non importa che un’indagine sia naufragata, che non sia sfociata in processi o se i processi siano andati male per la pubblica accusa. Paradossalmente è anche meglio perché in un paese come l’Italia, che postula l’infallibilità delle toghe, se le procure falliscono l’obiettivo, la colpa è dei poteri forti. Anzi fortissimi. E allora Scarpinato, oratore affascinante e grande conoscitore della materia, si presenta come l’ultimo seduttore. Non è una diminutio, per carità. Senza i doveri della toga si divide fra interviste televisive e inviti a convegni.
Non importa che un’indagine sia naufragata. Paradossalmente è meglio: se le procure falliscono l’obiettivo, la colpa è dei poteri forti
C’era anche Scarpinato per esempio all’evento organizzato dal Partito democratico (casualità?) a Palermo in occasione del trentennale della strage Borsellino. E’ stata l’occasione per ribadire la paternità di una lunga stagione giudiziaria mai archiviata. Ora che la quiescenza rischia di spegnere i riflettori ne coglie l’aspetto positivo. E cioè la possibilità di poter parlare con maggiore libertà delle indagini, senza il peso di incorrere in qualche procedimento disciplinare. Chissà, qualcuno gli avrebbe potuto attribuire la colpa di essersi lasciato sfuggire qualche anticipazione investigativa. Accade molto molto raramente. Se ne ricorda uno di procedimento disciplinare, chiuso con l’archiviazione, nei confronti di Antonino Di Matteo, il magistrato che volle fortissimamente volle l’inchiesta e il processo sulla trattativa stato-mafia. Gli veniva contestato il contenuto di un’intervista. Alla fine si disse che nulla di inedito era stato rilevato.
Di Matteo è stato lì per lì per concretizzare la sua proposta politica. Il Movimento 5 stelle lo voleva come ministro della Giustizia. Sembrava cosa fatta dopo l’investitura di qualche anno prima da parte del leader maximo, Beppe Grillo, che lo aveva incoronato italiano dell’anno. Alla fine i grillini lo posarono, preferendogli Alfonso Bonafede, legatissimo a Luigi Di Maio. Quel Bonafede che prima promise e poi negò a Di Matteo nel giro di 24 ore la nomina politica a capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria. Di Matteo rifiutò il ripiego agli Affari penali, l’ufficio doveva aveva lavorato Giovanni Falcone. Un brivido di soddisfazione – sapeva bene che non sarebbe potuto andare oltre – dovette provare quando, prima del Mattarella bis, sentì pronunciare 56 volte il suo nome alla quarta votazione per il Colle. Erano i voti della truppa di ex M5s.
Niente politica militante, dunque. Almeno finora Di Matteo non ha seguito l’esempio di Ingroia, che della Trattativa è stato il profeta. Andò via prima che il processo iniziasse. Una parentesi in Guatemala su incarico dell’Onu. Giusto il tempo di apparire via satellite in alcuni collegamenti televisivi con le palme esotiche a fare da sfondo. Poi gli incarichi nel dorato mondo del sottogoverno regionale siciliano, le dimissioni dalla magistratura e la discesa in campo. Si mise alla guida di un centrifugato politico. La sua scalata a Palazzo Chigi andò malissimo. Il movimento Rivoluzione civile restò molto al di sotto dello sbarramento del 4 per cento. Il ruolo di sacerdote in toga della confraternita della Trattativa non aveva avuto né l’effetto dirompente, né prodotto l’appeal che aveva immaginato.
Ci riprovò, con analoghi esiti fallimentari, dando vita a “la mossa del cavallo”. Si è rifatto sotto di recente a Palermo appoggiando alle elezioni comunali la candidata a sindaco ed eurodeputata Francesca Donato, ex leghista e convinta No vax. Troppo poco per essere il leader di un tempo.
A chi tocca ora il compiuto di fare della Trattativa un’offerta politica? Scarpinato o chi altro? Gli adepti della confraternita vagano in cerca di un riferimento, di una nuova guida. Qualcuno ha già scoperto le carte. Come Salvatore Borsellino, fratello di Paolo, l’uomo del bacio a Massimo Ciancimino, il pataccaro che ha depistato la verità a suon di menzogne. Borsellino chiede di sostenere Unione popolare, la lista dell’ex sindaco di Napoli Luigi De Magistris, nella convinzione che basti avere indossato una toga di pm per essere un buon amministratore o un buon politico. Qualche tempo fa, parlando della Trattativa, De Magistris disse che c’era “un vero e proprio sistema, ancora molto forte nel nostro paese, che non tollera che si arrivi alla verità”. Parole che gli sono valse l’ingresso, ad honorem, nella confraternita della Trattativa. Non importa che il patto fra mafia e politica non ci sia stato, che gli imputati siano stati assolti, finché resiste nelle suggestioni di sentenze romanzesche qualcuno continuerà a fare della trattativa una ragione di vita, dentro e fuori dalle aule di giustizia. Magari in politica.
Il ruolo di sacerdote in toga della confraternita della Trattativa non ha prodotto per Ingroia l’appeal che aveva immaginato candidandosi