Cosa (non) si capisce dell'inchiesta sul "governo Draghi" per il caso Aspi

Luciano Capone

Non si comprende cosa c'entri il presidente del Consiglio su una vicenda gestita da Conte e non si comprende il reato: non poteva esserci nessuna "gara europea" per la vendita di Aspi. Si comprende, però, che l'accusatore Luciano D'Alfonso (del Pd) accusa il suo stesso partito che al governo ha gestito l'accordo Atlantia-Cdp

“Autostrade, i pm di Roma indagano sull’operazione del governo Draghi”, titola in prima pagina il Domani. La notizia è rilevante sia per ciò che si capisce sia per ciò che non si capisce dall’articolo. Il fatto è che la procura di Roma sta indagando sulla vendita di Autostrade per l’Italia (Aspi), all’epoca controllata dai Benetton, alla Cassa depositi e prestiti in società con i fondi Blackstone e Macquarie. Un’operazione da circa 8 miliardi di euro, arrivata a conclusione di un lungo iter amministrativo-economico in cui era stata ipotizza la possibilità di revoca della concessione dopo il crollo del ponte Morandi a Genova nel 2018 che causò la morte di 43 persone. Ciò che non si capisce bene è cosa c’entri in questa storia Mario Draghi.

 

È vero che l’operazione è stata finalizzata a maggio 2022, ma sia la trattativa sia i termini dell’accordo con Aspi sono stati seguiti direttamente da Palazzo Chigi, quando l’inquilino era Giuseppe Conte, prima nella versione gialloverde e poi in quella giallorossa. Dopo un lungo braccio di ferro e sotto la minaccia incombente della revoca della concessione, che però risultava comunque problematica perché lasciava aperta la possibilità di un costoso e incerto contenzioso con Aspi, il governo Conte e Aspi raggiunsero un accordo il 14 luglio 2020. I punti della transazione prevedevano: un risarcimento di 3,4 miliardi di euro a carico di Aspi; rafforzamento dei controlli a carico del concessionario; aumento delle sanzioni anche in caso di lievi violazioni; rinuncia a tutti i giudizi promossi da parte di Aspi; impegno a vendere la società, come richiesto dal governo, a Cdp e soci di suo gradimento.

 

Il passaggio di mano a una società controllata dallo stato era una condizione necessaria per definire la procedura di revoca della concessione, che infatti fu chiusa con un atto transattivo a ottobre 2021, solo dopo la firma dell’accordo tra Atlantia (Benetton) e il consorzio Cdp-Blackstone-Macquarie per l’acquisto di Aspi. Tutti questi passaggi erano stati definiti e decisi dal governo Conte, o meglio da Palazzo Chigi, dall’allora ministro delle Infrastrutture Paola De Micheli (Pd) e dal ministro dell’Economia Roberto Gualtieri (Pd), e poi formalmente conclusi, dopo una serie di pareri e via libera (anche dalla Corte dei Conti) dal governo Draghi. O meglio, dal ministero delle Infrastrutture poi passato a Enrico Giovannini.

 

Cosa c’entri in questa inchiesta Draghi non è chiaro. Ciò che non si capisce bene è anche l’accusa. Secondo quanto riporta il Domani, le ipotesi di reato sarebbero truffa aggravata, abuso d’ufficio e turbativa d’asta. Quest’ultima sarebbe “l’accusa più velenosa dal punto di vista di Draghi, molto affezionato alla sua reputazione di custode della legalità comunitaria”, ovvero quella di “aver passato la concessione a Cdp e ai suoi soci Blackstone e Macquarie senza passare attraverso una gara europea”. Davvero si fatica a capire l’accusa. In primo luogo non si tratta di una decisione di Draghi, ma del governo Conte, presa in “accordo” con Atlantia (di fatto si è trattato di un obbligo a vendere a Cdp altrimenti ci sarebbe stata la revoca). Ma posto anche che Draghi avesse dovuto bloccare un accordo potenzialmente illecito, non si comprende quale “gara europea” si sarebbe dovuta fare. La concessione era di Aspi, che l’ha venduta a Cdp e soci a seguito di una trattativa formalmente privata e di mercato. In ogni caso, anche se il peso della politica è evidente e dichiarato, Draghi non avrebbe potuto mettere a gara alcuna concessione, perché non è stata revocata. Semplicemente è cambiata la proprietà del concessionario, che gestirà la concessione fino alla sua naturale scadenza. Non si tratta di una nuova concessione.

 

Ciò che si capisce, invece, è abbastanza singolare. L’autore dell’esposto è infatti Luciano D’Alfonso, presidente della commissione Finanze del Senato e capolista del Pd in Abruzzo alle prossime elezioni. L’esposto di D’Alfonso è di fatto un grave atto di accusa politico nei confronti del suo partito, visto che a gestire la vicenda Aspi sono stati al Mit Paola De Micheli, candidata dal Pd come capolista in Emilia, e al Mef (quindi anche come azionista di controllo di Cdp) il sindaco di Roma Roberto Gualtieri. È vero che D’Alfonso accusa “gli alti burocrati” che si sono occupati della vicenda, ma tra loro ci sarebbe, ad esempio, Alberto Stancanelli, che è stato capo di gabinetto al Mit con la De Micheli e Giovannini e che ora è stato chiamato da Gualtieri come suo capo di gabinetto a Roma dopo le dimissioni di Albino Ruberti.

 

L’altra cosa che si capisce è che sullo sfondo c’è la revoca della concessioni, questa sì decisa dal governo Draghi, delle autostrade abruzzesi a Strada dei Parchi, controllata dal costruttore Carlo Toto, grande amico di D’Alfonso, contrariato per la diversità di trattamento rispetto ad Aspi. E in questo D’Alfonso è dalla parte di Toto, pur di andare contro al suo partito.

 

  • Luciano Capone
  • Cresciuto in Irpinia, a Savignano. Studi a Milano, Università Cattolica. Liberista per formazione, giornalista per deformazione. Al Foglio prima come lettore, poi collaboratore, infine redattore. Mi occupo principalmente di economia, ma anche di politica, inchieste, cultura, varie ed eventuali