truffatori della libertà
La giustizia meloniana è un manifesto del pensiero illiberale
I primi atti del governo illuminano il finto garantismo, repressivo e carcerocentrico. Tipologie di reato discrezionali, segni di derive securitarie, rinvio delle pene sostitutive, citazioni a sproposito di Falcone e Borsellino. Caro Nordio, che delusione
Confesso la delusione, peraltro non solo mia. Rientro tra quanti si erano illusi di poter prendere sul serio alcune dichiarazioni programmatiche del nuovo ministro della Giustizia, in linea del resto con precedenti prese di posizione dello stesso Nordio sempre di segno tendenzialmente liberale. Sintetizzabili all’incirca così: la quantità dei reati va sfoltita, anche perché l’inflazione penalistica è causa delle lungaggini processuali; occorre sfatare il pregiudizio che sicurezza e buona amministrazione dipendano dalle leggi penali; lo spazio della pena carceraria va ridotto; il sistema penitenziario attuale è criminogeno.
Affermazioni di questo tipo appaiono di fatto smentite, in verità, da tre decisioni contenute nel recente decreto legge varato come primo atto normativo di questo governo meloniano. Com’è intuibile, ci si riferisce innanzitutto all’introduzione del nuovo reato di raduno pericoloso, inserito nel codice penale all’art. 434 bis. Ce ne era davvero bisogno, o si tratta dell’ennesima fattispecie manifesto che questa volta il neonato governo di destra-centro ha voluto subito emanare per attestare anche simbolicamente l’intento politico di interpretare in chiave iper repressiva la tutela dell’ordine pubblico, accontentando così i settori più autoritari e punitivisti del suo elettorato di riferimento? Ma il nuovo reato è discutibilissimo pure nella strutturazione tecnica: riesibisce il volto del vecchio diritto penale di polizia, utilizzabile con una discrezionalità confinante con l’arbitrio. Riassumo – sperando di farlo con chiarezza – i due punti più critici, cominciando dal fatto punibile: esso consiste nella invasione arbitraria di terreni o edifici, da parte di più di cinquanta persone, allo scopo di organizzare un raduno, quando dallo stesso può derivare un pericolo per l’ordine o l’incolumità o la salute pubblici. Dal punto di vista strutturale, ci troviamo di fronte a un reato cosiddetto di pericolo concreto, dal momento che la disposizione normativa demanda al giudice, e prima ancora agli organi inquirenti, il compito di verificare nei singoli casi se il raduno avvenga – appunto – in modo pericoloso, cioè potenzialmente lesivo degli interessi collettivi predetti. Solo che il vero problema sta proprio qui: cioè nella difficoltà oggettiva di accertare di volta in volta, sulla base di criteri empirici certi, se una situazione di effettiva messa in pericolo incomba realmente, o sia ipotizzabile soltanto in astratto.
Stante questa difficoltà, sussiste allora un rischio più che concreto che il nuovo reato si presti a usi polizieschi e giudiziari volti a controllare e limitare indebitamente la libertà di riunione. Il secondo punto assai discutibile, esposto senz’altro a una obiezione di costituzionalità, riguarda il trattamento sanzionatorio: mentre la pena detentiva per gli organizzatori e promotori è prevista in misura abbastanza rigorosa in quanto fissata nello spazio da tre a sei anni (con l’aggiunta di una pecuniaria e di una confisca obbligatoria), per i meri partecipi all’invasione è invece stabilita soltanto una diminuzione di pena (non essendone specificata l’entità, vale la regola generale di cui all’art. 65 del codice, e cioè una diminuzione non eccedente un terzo). A ben vedere, è qui che si annida una manifesta incostituzionalità alla stregua del principio di ragionevolezza-proporzione: in base a tale principio, essendo sensibilmente diverso il disvalore delle rispettive di condotte dei soggetti che rivestono un ruolo apicale o quello di meri partecipanti, il corrispondente trattamento punitivo dovrebbe risultare marcatamente differenziato già nelle soglie edittali astratte: cosa che non avviene nel caso di specie, essendo (inspiegabilmente in base ai princìpi) la condotta di partecipazione al raduno ridotta a una sorta di circostanza attenuante. Ci sono i presupposti per una possibile declaratoria di incostituzionalità. L’altra parte contestabile del decreto legge concerne la decisione di ripescare, traducendola in norma vigente, la pessima riscrittura della disciplina dell’ergastolo ostativo votata da un ramo del precedente Parlamento ma poi accantonata.
Con questa mossa il nuovo governo ha, verosimilmente, mirato a un duplice obiettivo: prevenire l’imminente intervento della Corte costituzionale previsto per l’8 novembre, potenzialmente sfociante in un temuto sbilanciamento in termini garantistici a favore degli ergastolani mafiosi; lanciare un messaggio politico di maggiore prontezza ed efficacia decisionale, rispetto alla precedente legislatura, nel riaffermare le esigenze di un inflessibile contrasto alla criminalità mafiosa. Ciò fino al punto che la presidente Meloni è sembrata veicolare una falsa comunicazione pubblica: ha cioè detto di avere nella sostanza confermato l’ergastolo ostativo, evocando a sproposito la memoria di Falcone e Borsellino, mentre le cose non stanno affatto così. La soluzione normativa contenuta nel decreto, lungi dal confermare la disciplina esistente sino a oggi, apre varchi nella direzione dischiusa dalla Corte costituzionale. Si tratta però di varchi mal concepiti, insufficienti a ovviare davvero ai profili di illegittimità evidenziati dalla Consulta: sui motivi per i quali il testo normativo in questione continua a risultare di dubbia costituzionalità mi sono soffermato, ampiamente, in un precedente articolo su questo giornale cui rinvio (cfr. il Foglio del 10 marzo 2022).
Qui mi limito a ribadire un rilievo critico tutt’altro che secondario, relativo alla parte in cui il testo suddetto prevede – tra le condizioni dell’accesso da parte del mafioso “non collaborante” ai benefici penitenziari e alla liberazione condizionale – elementi specifici che consentano di escludere il pericolo di ripristino di collegamenti con la criminalità organizzata, anche “indiretti o tramite terzi”. Orbene: si può effettivamente provare il dato negativo costituito dalla insussistenza di un futuro pericolo di ripristino di relazioni mafiose, persino in forma indiretta o tramite terze persone? Si tratta, a ben vedere, di una prova empiricamente impossibile. Se così è, la previsione legislativa di un tale accertamento probatorio equivale, nella sostanza, a rinnegare le stesse indicazioni della Consulta (cfr. anche V. Zagrebelsky, Se l’ergastolo è fuorilegge, La Stampa, 31 ottobre 2022). Riteniamo, pertanto, che persistano ragioni per considerare tutt’altro che chiusa la tormentata vicenda dell’ergastolo ostativo.
Critiche, infine, suscita la terza decisione in tema di giustizia contenuta nel decreto legge, cioè il rinvio in blocco dell’entrata in vigore della riforma penale Cartabia. E’ già stato rilevato che questo rinvio avrebbe dovuto essere circoscritto soltanto a quelle nuove norme processuali, la cui concreta applicabilità – come segnalato dall’insieme dei procuratori generali – esige accorgimenti organizzativi. Ma perché rinviare anche l’applicazione delle nuove pene sostitutive a opera del giudice della cognizione, il cui effetto positivo sarebbe da subito consistito in un sollecito contributo a quella riduzione di spazio della pena carceraria, che, almeno in teoria, starebbe a cuore anche al nuovo Guardasigilli? Questo rinvio può d’altra parte risultare non solo poco opportuno, ma anche di dubbia legittimità costituzionale per un insieme di motivi ben illustrati da Gian Luigi Gatta in un dettagliato intervento tecnico (pubblicato in Sistema penale, 31 ottobre 2022). Ma non è, forse, infondato il sospetto che questa decisione di postergare la riforma Cartabia sottintenda l’obiettivo politico di modificarne alcuni contenuti normativi, riorientandoli in una dimensione più repressiva e carcerocentrica. Se così dovesse accadere, saremmo a maggior ragione autorizzati a concludere che Carlo Nordio predica bene, ma razzola male.