I giudici milanesi rispondono all'Ocse: “Non ci delegittimi”
I vertici del tribunale e della corte d'appello di Milano replicano all'organismo che aveva accusato i magistrati di assolvere troppo nei casi di corruzione internazionale: "In Italia vige il principio della responsabilità penale al di là di ogni ragionevole dubbio"
I giudici di Milano rispondono a muso duro all’Ocse, che in un rapporto aveva accusato i magistrati milanesi di assolvere troppo nei processi sui di casi di corruzione internazionale, tra cui Eni-Nigeria, finito con 15 assoluzioni. Si può accettare “ogni critica alle sentenze pronunciate, purché le stesse non debordino in un ulteriore grado di giudizio surrettiziamente introdotto che delegittimi le decisioni adottate secondo le regole del giusto processo italiano”, hanno scritto in una lettera indirizzata all’Ocse il presidente facente funzioni del Tribunale di Milano, Fabio Roia, e il presidente della corte d'appello milanese, Giuseppe Ondei.
Nella missiva, inviata per conoscenza anche al ministro della Giustizia Carlo Nordio e al Csm, Roia e Ondei fanno presente che nell’ordinamento italiano è prevista la “lettura del singolo indizio per accertarne la matrice ontologica e per depurarlo dalla categoria metagiuridica del sospetto” e che per valutare gli indizi ci sono “tre gradi di giudizio esperibili da tutte le parti processuali”.
I giudici ricordano, inoltre, che nel nostro paese vige il principio della responsabilità penale “al di là di ogni ragionevole dubbio” e quindi “gli indicatori di pesatura probatoria” non possono “variare a seconda della difficoltà del reato da accertare”. E spetta, poi, “all'organo inquirente l'onere della raccolta” delle prove per arrivare a una condanna: è la “cultura della ricerca della prova”.
Per quanto riguarda il processo Eni-Nigeria, i vertici del Palazzo di Giustizia di Milano ricordano che a partire dal maggio 2018 (quando è iniziato il procedimento, poi conclusosi nel marzo 2021) ci sono state “45 udienze istruttorie” e “13 udienze per la discussione”, che le prove del dibattimento erano contenute in “40 faldoni” e che la “motivazione della sentenza, che ha ricostruito 20 anni di vicende per la cessione della licenza petrolifera, è stata di circa 500 pagine”. Uno sforzo “doverosamente enorme”.
Nella lettera, i due presidenti hanno dunque voluto “riaffermare l'impegno e la professionalità dei giudici chiamati a celebrare processi di grande impatto mediatico, di rilevanza internazionale ma che necessariamente devono seguire delle precise regole di giudizio e di civiltà giuridica non derogabili neppure per questioni, peraltro condivisibili, che riguardano il contrasto alla corruzione, anche internazionale”.