storture
La farsa della “parità di genere” nell'elezione dei laici al Csm
Le norme introdotte dalla riforma Cartabia per favorire la presenza paritaria di uomini e donne al Consiglio superiore della magistratura rischiano di rivelarsi fallimentari
La questione della “parità di genere” al Consiglio superiore della magistratura rischia di assumere le forme di una farsa. Il prossimo 13 dicembre il Parlamento in seduta comune sarà chiamato a eleggere i dieci membri laici dell’organo di governo autonomo dei magistrati, che si andranno ad aggiungere ai venti togati già scelti da giudici e pm nelle elezioni dello scorso settembre. L’elezione avverrà secondo le norme introdotte dalla recente riforma Cartabia, che ha dedicato particolare attenzione al tema della “parità di genere”, sia tra i membri togati che tra quelli eletti dal Parlamento.
Le norme volte a favorire la presenza paritaria tra donne e uomini nella categoria dei magistrati si sono già rivelate del tutto fallimentari. La legge ha previsto un meccanismo di sorteggio volto a garantire la rappresentanza paritaria di genere tra i magistrati candidati nei vari collegi elettorali, tuttavia alla fine su venti componenti eletti soltanto sei sono risultate donne. Nessuna di queste è stata selezionata come candidata in seguito al sorteggio. Tutte sono state candidate dalle correnti, che hanno continuato a dominare la competizione elettorale. Insomma, come avevamo sottolineato su queste pagine, raccogliendo la testimonianza di una giudice di provincia estratta a sorte, non basta assicurare un numero uguale di candidati uomini e donne per favorire la parità di genere, se l’elezione poi non avviene ad armi pari.
Anche le norme introdotte dalla riforma per favorire la parità di genere tra i componenti laici rischiano di rivelarsi completamente inutili. La riforma dispone che i membri laici siano scelti attraverso una procedura trasparente. Coloro che intendono candidarsi (cioè, secondo la Costituzione, professori ordinari di università in materie giuridiche e avvocati dopo quindici anni di esercizio effettivo) dovranno farlo inviando la propria candidatura via pec alla Camera entro il 10 dicembre. La nuova legge stabilisce un’altra novità: i componenti laici “sono scelti nel rispetto della parità di genere garantita dagli articoli 3 e 51 della Costituzione”. Cosa significa?
Secondo i criteri stabiliti dal presidente della Camera, Lorenzo Fontana, d’intesa con il presidente del Senato, Ignazio La Russa, l’espressione significa che “deve appartenere al genere meno rappresentato almeno il quaranta per cento dei candidati”. Se questa soglia non viene raggiunta, viene disposta “una riapertura del termine per la presentazione delle candidature dei soli soggetti appartenenti al genere sottorappresentato”, che dovranno comunque pervenire entro lunedì 12 dicembre, vale a dire il giorno prima della prima riunione del Parlamento in seduta comune.
Nel caso in cui, nonostante la riapertura dei termini, la soglia del 40 per cento di candidate donne non fosse raggiunta, non scatterebbero ulteriori meccanismi, dato che non è previsto alcun sorteggio né può immaginarsi di obbligare docenti e avvocate a candidarsi per il Csm.
Insomma, in questo modo il principio della parità di genere è stato relegato alla sola fase della presentazione delle candidature, con il rischio che il risultato finale sia fallimentare, così come avvenuto nell’elezione dei membri togati. C’è chi, come il deputato Riccardo Magi, presidente di +Europa, sostiene che le disposizioni dei presidenti delle Camere siano andate contro lo spirito della riforma, visto che “si sarebbe potuto e dovuto prevedere almeno che la presentazione delle candidature fosse corredata da un curriculum e che vi fosse un voto con preferenza di genere tale da garantire l’equilibrio tra gli eletti”. C’è chi invece sottolinea come le norme puntassero ad avere più la natura di raccomandazione.
Del resto è la Costituzione a richiedere quorum piuttosto alti per l’elezione dei membri laici: maggioranza dei tre quinti dei componenti del Parlamento nei primi due scrutini, maggioranza dei tre quinti dei votanti dal terzo scrutinio in poi. E’ la Costituzione stessa, insomma, a imporre ai partiti di maggioranza e di opposizione un’attività di mediazione per raggiungere un compromesso. Pensare che in queste negoziazioni i partiti debbano tener conto anche di un principio di parità di genere tra i membri laici appare in effetti piuttosto difficile, se non impossibile.