Carlo Nordio (Ansa)

Una nuova Costituzione per una giustizia razionale ed efficiente

Carlo Nordio

Perché occorre riportare i suoi princìpi alla cultura illuministico-liberale. Qualche pagina dal libro del ministro Nordio

Pubblichiamo la conclusione del libro “Giustizia”, firmato dal ministro della Giustizia Carlo Nordio, edito per Liberilibri. Titolo del capitolo: “Principî liberali per una riforma radicale”.


 

Dopo aver riassunto queste funeste antinomie che gravano sul nostro ordinamento complessivo e su molti degli organi deputati ad applicarlo, chiediamo soccorso all’ottimismo della volontà e proviamo a delineare un sistema che distilli al meglio, o almeno nella misura minima sufficiente, i principî idonei a riportare la giustizia italiana nell’ambito della razionalità e dell’efficienza. (…) Questi principî, secondo noi, devono esser conformi alla cultura illuministico-liberale. E per attuarli pienamente è necessaria una nuova Costituzione.

  
La nostra Costituzione fu costruita dalle intelligenze più acute, dai cuori più appassionati e dalle volontà più determinate che la politica italiana potesse esprimere tra le rovine del dopoguerra. (…) Tuttavia a questo mondo non vi è nulla di immutabile. Soltanto la Veritas Domini – come recita il salmista – manet in Aeternum. E la nostra gloriosa Costituzione è inesorabilmente invecchiata, perché delle due ideologie che la ispirarono una si è affievolita, e l’altra è addirittura scomparsa. Il cattolicesimo, rappresentato dalla firma di Alcide De Gasperi, si è secolarizzato, e Dio, anche nella liturgia, si sta stemperando in una vaga entità equa e solidale. Mentre il marxismo, sigillato dalla firma di Umberto Terracini, si è rivelato una caricatura grottesca, e talvolta sanguinaria, di un egalitarismo utopistico. Rimane, nella Costituzione, la firma di De Nicola, che avrebbe dovuto introdurre una componente liberale. Ma di liberale in essa c’è poco, e quel poco è imbastardito dal compromesso formale tra le due chiese maggioritarie, cosicché ogni nobile principio è temperato da puntigliose eccezioni. La libertà personale è inviolabile, ma può esser limitata dall’autorità giudiziaria e, provvisoriamente, da quella di pubblica sicurezza. Altrettanto inviolabili sono il domicilio e la segretezza delle conversazioni, ma in casi particolari sono ammesse incursioni invasive. E così la libertà di riunione, che può esser vietata, la libertà di stampa, che può esser compressa, l’iniziativa economica, che può esser limitata, e infine la proprietà privata, che però deve avere – Dio sa come – una funzione sociale. La nostra Costituzione è un continuo ripensamento di concetti troppo conservatori per placare i progressisti, troppo arditi per gratificare i conservatori, e troppo confusi per convincere ambedue. E se è vero che questo bilanciamento di interessi si trova in tutti i Paesi, è altrettanto vero che soltanto da noi ha assunto una tale alterazione di equilibri da invertire il rapporto tra regola ed eccezione. L’esempio più clamoroso è costituito dalle intercettazioni telefoniche e ambientali. Se ne fanno in un anno circa 150 mila: quasi tutte hanno coinvolto persone ignare e innocenti, alcune hanno coinvolto anche parlamentari e sfiorato un paio di presidenti della Repubblica. Dopo essere state sapientemente selezionate e mutilate sono state consegnate alla stampa, con grave danno di immagine anche per persone estranee al processo. 

 

“Abbandonare la funesta utopia del cosiddetto Stato etico, che ha condizionato finora il nostro ordinamento”

 
Di fronte a questa vergogna è difficile pensare che il primo comma dell’art. 15, che fissa la regola della segretezza delle comunicazioni, non ne costituisca piuttosto l’eccezione: la piccola parte di liberalismo che ornava la nostra Costituzione si è decomposta sotto i colpi di una parte della magistratura esaltata dalla sua missione sacerdotale.
Ma che significa concretamente adottare i principî dell’illuminismo liberale? Significa essenzialmente questo: abbandonare la funesta utopia del cosiddetto Stato etico, che fino ad ora ha condizionato il nostro ordinamento attraverso il connubio di teorie apparentemente incompatibili: il fascismo, il cattolicesimo e il marxismo, concordi nel considerare il cittadino una creatura da istruire e tutelare, per assoggettarlo rispettivamente allo Stato, alla Chiesa e al Partito. L’esempio più significativo è rappresentato proprio dalla disciplina dell’agevolazione al suicidio, oggi sotto la lente dell’interprete, della Corte costituzionale e del legislatore. Il nostro codice penale che, ricordiamolo, è del 1930 ed è frutto dell’ideologia mussoliniana, ne dà una soluzione con essa coerente. Il suicidio in quanto tale non è un crimine: non perché il suo autore, morendo, estingua il reato, ma perché non è previsto il tentativo, come invece avviene per l’omicidio, il furto ecc. E’ invece punibile, e assai pesantemente, la sua istigazione e l’agevolazione. Questo perché, come si legge nella relazione di accompagnamento, la vita appartiene allo Stato, e chi aiuta il suicida sottrae alla Patria una risorsa civile, economica e militare.

  

In effetti quella norma (l’art. 580) è rimasta indiscussa finché non ci si è ricordati dell’art. 32 della Costituzione, che ha sancito il diritto all’autodeterminazione. Cosicché, dopo una serie di interventi giurisprudenziali, nel 2017 è stato finalmente disciplinato il principio del consenso informato e delle disposizioni di fine vita: se il malato rifiuta le cure, nessuno lo può costringere, e la scelta di vivere o morire dipende solo da lui. La conseguenza, a rigor di logica, dovrebbe essere che la vita è un diritto disponibile. E invece non lo è: cosicché chi intenda porre fine dignitosamente a una vita intollerabile deve recarsi all’estero, e chi lo aiuti in questo doloroso percorso (vedi il caso Cappato) rischia l’incriminazione. Ebbene, questa norma – come tante altre – benché frutto di un sistema totalitario ha retto, e continua a reggere, dopo 75 anni dall’introduzione della Costituzione. E la ragione è quella menzionata prima: che la vita non è considerata un bene individuale ma collettivo, e che il suo titolare risiede al di fuori della nostra autodeterminazione: per il codice penale, di matrice hegeliana, è lo Stato etico; per il marxismo è lo stato sociale; e per la Chiesa è Nostro Signore. Per quest’ultima, tra l’altro, la vita è un dono di Dio. Se così fosse, dovrebbe essere un diritto disponibile, perché il donatario può far ciò che crede del regalo ricevuto, altrimenti più che un dono sarebbe un usufrutto. Ma, al di là di queste sottigliezze, rimane il principio fondamentale: che tanto per il codice quanto per la Costituzione la sorte dell’individuo è vincolata a tre fonti eteronome, che hanno in comune il fermo proposito, di occuparsi della felicità e della redenzione individuale. Ma mentre la fede cattolica propone una visione escatologica e una finalità trascendente, e quindi non soggetta a smentita, le fedi immanenti, fascista e marxista, sono state travolte da un fallimento globale; eppure la tentazione di insegnare agli uomini come esser felici, attraverso la mediazione della politica, continua a serpeggiare tra i nostalgici di queste dottrine desuete. 

 
Lo Stato liberale non ha queste immaginazioni infantili. Prendendo atto dei limiti e dei difetti della nostra imperfetta natura, non pretende di assicurare la felicità ma soltanto di garantire il diritto a procurarsela, attraverso quella libertà economica, religiosa e culturale, nella cui esplicazione lo spirito umano si realizza secondo le sue aspirazioni e le sue possibilità, con la sola imposizione, doverosa e solidale, di una redistribuzione della ricchezza che inevitabilmente si accumula in misura ineguale nelle persone più dotate nel progettarla, più spregiudicate nel perseguirla, e più egoiste nel mantenerla. E la garanzia dello svolgimento di queste attività in modo libero, pacifico e ordinato, sta proprio nella legge: in quella fondamentale, la Costituzione, e in quelle  ordinarie, a cominciare dai codici. Una volta adottata una Costituzione realmente liberale, si dovrà infatti prendere atto che le nostre leggi sono troppo numerose per essere conosciute, e troppo contraddittorie per essere applicate. (…)

 

Un esempio: la disciplina dell’agevolazione al suicidio. L’oscurità delle leggi, l’ipocrisia sull’accoglienza dei migranti

 
L’oscurità delle leggi è aggravata dall’indecisione e dalle incertezze di tanti anni di politica oscillante e ondivaga. Abbiamo disposizioni severe e attitudini perdoniste, una voce grossa e un braccio inerte, una giustizia lunga e il fiato corto: vogliamo intimidire senza reprimere e redimere senza convincere. Siamo anche un po’ ipocriti; contrabbandiamo la nostra accoglienza dei migranti come carità cristiana, mentre si tratta solo di impotenza e rassegnazione davanti alle spregiudicate strategie delle organizzazioni criminali. Abbiamo decretato l’espulsione di decine di migliaia di clandestini, ma di fatto ne abbiamo rispediti indietro una trascurabile minoranza. Abbiamo guadagnato il loro rancore e perso la nostra fiducia.
 

La riforma radicale e per certi aspetti rivoluzionaria di uno Stato liberale si propone di affrancare il cittadino dall’abbraccio soffocante dello Stato, di favorirne l’avvicinamento attraverso una semplificazione dei diritti e dei doveri, e, per quanto riguarda la giustizia penale, attuare il garantismo nella sua duplice funzione: la presunzione di innocenza e la certezza della pena. Non si tratterebbe di un ripudio delle quattro componenti della nostra tradizione culturale: al contrario, sarebbe una loro armonizzazione secondo lo spirito del tempo. La retribuzione sanzionatoria di origine giudaica, si coniugherebbe con il principio di legalità greco-romano, mentre l’attitudine rieducativa della pena, mai contraria al senso di umanità, coronerebbe l’ideale cristiano, della redenzione dopo l’espiazione.

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