L'ex pm di Torino Andrea Padalino assolto dopo la gogna
Il magistrato assolto in via definitiva dalle accuse di corruzione dopo quattro anni. Le tensioni tra la procura di Milano, che lo aveva accusato, e la procura generale, che si è rifiutata di impugnare l'assoluzione
Nei giorni scorsi è diventata definitiva l’assoluzione nei confronti dell’ex pm di Torino, Andrea Padalino, imputato con rito abbreviato a Milano per corruzione in atti giudiziari e abuso d’ufficio in un’inchiesta su presunti “favoritismi” nella procura piemontese. Padalino, tra i volti simboli della magistratura italiana (fu tra i gip di Mani pulite e poi, in anni recenti, pm delle inchieste sui disordini dei No Tav), era stato accusato nel 2018 dai suoi stessi colleghi torinesi di far parte di una “cricca dei favori in procura”. L’inchiesta poi passò per competenza territoriale a Milano.
Secondo la tesi accusatoria formulata dai procuratori aggiunti milanesi Eugenio Fusco e Laura Pedio, l’allora pm Padalino, in concorso con un appuntato dei Carabinieri che lavorava nella sua squadra di polizia giudiziaria, non avrebbe rispettato i “criteri di assegnazione automatica dei procedimenti stabiliti nel programma organizzativo” della procura di Torino, autoassegnandosi alcuni fascicoli che coinvolgevano terze persone interessate, da cui poi avrebbe ricevuto favori e regalie, come cene e soggiorni di lusso.
La vicenda ha travolto la carriera di Padalino, costringendolo ad abbandonare la procura di Torino e a chiedere l’applicazione come giudice civile al tribunale di Vercelli.
Lo scorso 10 gennaio il gup di Milano, Carlo Ottone De Marchi, ha assolto da ogni accusa Padalino, difeso dall’avvocato Massimo Dinoia: i fascicoli d’inchiesta giunti sulla sua scrivania, si legge nelle motivazioni della sentenza, “non hanno seguito una corsia preferenziale”. L’ipotesi era stata respinta dagli stessi superiori di Padalino, gli aggiunti Paolo Borgna e Patrizia Caputo, che avevano inviato all’allora procuratore capo Armando Spataro due relazioni in cui rivendicavano di aver assegnato i procedimenti a Padalino in maniera regolare. Nei confronti di Padalino i pm milanesi avevano chiesto una condanna a tre anni di reclusione.
Come spesso accade, vivendo l’assoluzione come una sorta di onta, i procuratori aggiunti milanesi Fusco e Pedio hanno deciso di impugnare la sentenza, ribadendo le accuse contro l’ormai ex pm torinese: “Pilotare l’assegnazione dei procedimenti era per Padalino una prassi consolidata, attuata anche in vicende diverse da quelle contestate”. In appello, però, è arrivato il colpo di scena. Anziché seguire la strada tracciata dai pm, la procura generale di Milano, col sostituto pg Gemma Gualdi, ha deciso con formale rinuncia di non portare avanti il ricorso in secondo grado. Da qui l’inammissibilità dell’impugnazione dei pm dichiarata dalla Corte d’appello, che ha reso così definitiva la sentenza di assoluzione per Padalino.
La vicenda si presta a due considerazioni fondamentali. La prima riguarda il meccanismo della gogna mediatico-giudiziaria, che, come dimostra questa storia, non risparmia neanche gli appartenenti alla magistratura. “E’ finita! Dopo cinque lunghissimi angosciosi anni è stata irrevocabilmente posta la parola fine all'autentico calvario processuale che ha dovuto subire il dott. Andrea Padalino”, ha scritto l’avvocato Massimo Dinoia in una nota a commento della sentenza. A gennaio, dopo l’assoluzione in primo grado, il legale di Padalino aveva parlato di “autentico massacro mediatico”, evidenziando come “alla semplice prudenza di un processo penale, si accompagnano sempre dolorose conseguenze per le persone indagate e per le loro famiglie”.
La seconda riflessione che il caso Padalino consente di fare riguarda le tensioni che ormai sembrano scorrere tra la procura di primo grado e la procura generale di Milano. Raramente accade, infatti, che la procura generale si rifiuti di portare avanti il ricorso dei pm di primo grado. Nel capoluogo lombardo, invece, è già la seconda volta che accade nel giro di pochi mesi. Lo scorso luglio, la pg Celestina Gravina rinunciò a impugnare la ben più celebre sentenza di assoluzione nei confronti di tutti gli imputati del processo Eni-Nigeria, con parole durissime nei confronti dell’operato della procura: i motivi d’appello “sono incongrui, insufficienti e fuori dal binario di legalità. Non c’è prova di nessun fatto rilevante in questo processo. Gli imputati che hanno patito un processo lungo sette anni hanno diritto di vedere cessare immediatamente questa situazione, che in questo momento è contra legem rispetto alle indicazioni di regolarità formale del processo, di economia processuale e di durata ragionevole”. A chiedere il ricorso erano stati i pm Fabio De Pasquale e Sergio Spadaro.