Uno studio
Litigare sul diritto di cronaca. Come vanno a finire le controversie
In Italia la libertà di stampa è davvero salvaguardata? Se lo chiedono Pieremilio Sammarco e Vincenzo Zeno-Zencovich. C'è da chiedersi se certi criteri soggettivi nelle sentenze possano scoraggiare il giornalismo d'inchiesta
Diversamente dai regimi autoritari, le democrazie liberali salvaguardano la libertà di espressione e il diritto di cronaca: secondo l’articolo 11 della dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del 1789, essi sono tra “i più preziosi diritti dell’uomo”. Devono essere protetti. Così, nel Regno Unito, dove vari oligarchi russi presentano numerosi ricorsi contro giornalisti e scrittori, il governo ha annunciato misure volte a limitarli. Negli Stati Uniti, il primo emendamento alla Costituzione garantisce la libertà di espressione per le affermazioni veritiere, pur se provocano imbarazzo o danneggiano la reputazione altrui, e sono protette le opinioni, purché riguardino questioni di pubblico interesse e non possano essere riguardate come volte ad attribuire specifiche condotte.
Anche in Italia la libertà di stampa è stata definita “pietra angolare dell’ordine democratico” dalla Corte costituzionale fin dal lontano 1969. Ci si può chiedere, però, se sia davvero salvaguardata. Un’accurata verifica è fornita dalla ricerca svolta da Pieremilio Sammarco e Vincenzo Zeno-Zencovich sulla “quantificazione del danno alla reputazione: ricognizione su 620 sentenze del Tribunale di Roma (2015-2020)” (Il diritto dell’informazione e dell’informatica, 2021), la sesta di questo tipo a partire dal 1988. Essa mostra sei aspetti di rilievo.
Il primo riguarda il procedimento di mediazione introdotto nel 2010, con l’intento di ridurre il contenzioso, che sembra aver ottenuto buoni risultati vista la diminuzione delle controversie. In secondo luogo, in quasi i due terzi dei casi (405 su 628) le richieste di risarcimento sono respinte. Non meno rilevante è il terzo aspetto, che concerne le pronunce di condanna: le richieste di risarcimento di politici e imprenditori non sono accolte sovente (solo nel 31 e nel 34 per cento dei casi); lo sono, invece, quelle dei sindacalisti (il 60 per cento dei 5 casi esaminati) e dei magistrati (il 71 per cento dei 73 casi), per i quali la media è inversa rispetto a quella generale, pur se le liquidazioni dei danni accordate ai magistrati si mantengono nella media. Il quinto aspetto riguarda i soggetti condannati a risarcire i danni: dopo il gruppo editoriale che pubblica l’Espresso e Repubblica, vi è quello che pubblica Il Giornale, seguito a poca distanza dalla Rcs (Corriere della Sera). L’ultimo aspetto di rilievo riguarda i criteri utilizzati dai giudici, tra i quali spiccano la gravità del fatto addebitato, la diffusione del mezzo e la qualità della persona offesa.
Sulla base di questa ottima analisi, consultabile da chiunque vi abbia interesse, si possono svolgere alcune osservazioni sullo stato attuale della libertà di stampa. La prima è che, come osservano gli autori, sono poco attendibili le frequenti lamentele sulle cosiddette querele milionarie. Resta da vedere se, negli anni dell’invasione russa dell’Ucraina, vi saranno liti intentate dagli oligarchi, come a Londra. La seconda osservazione riguarda le categorie da cui provengono le richieste di risarcimento accolte più spesso, cioè sindacalisti e magistrati.
Un confronto con altre aree, per esempio Firenze e Milano, sarebbe di notevole interesse. Un’ulteriore verifica sembra opportuna per comprendere se, mentre le sentenze dei giudici italiani si allineano a quelle dei giudici anglosassoni nel discernere le affermazioni veritiere da quelle non veritiere, se ne discostino nell’esigere che l’esposizione dei fatti non ecceda quanto è strettamente necessario e sia utilizzato un linguaggio moderato: è un criterio assai soggettivo, che può scoraggiare il giornalismo d’inchiesta.