Un sistema giudiziario sordo alle critiche
Il procuratore nazionale antimafia, Giovanni Melillo, firma una “requisitoria” contro il “furore” garantista del libro di Alessandro Barbano. Che qui replica ricordando il divorzio che si è prodotto tra la giustizia e la vita delle persone
Il mio “Inganno” sarebbe un inganno. Così lo chiama senza mezzi termini il procuratore nazionale antimafia, Giovanni Melillo, in una lunga recensione, ma sarebbe più giusto definirla requisitoria, pubblicata sul sito “Giustizia insieme”. Il caso vuole, com’è uso e sopruso dei tempi, che nei miei confronti non chieda una condanna, ma piuttosto esprima un giudizio di pericolosità, simile a quello che la giustizia speciale dell’Antimafia commina nel cosiddetto giudizio di prevenzione. Nessuna contestazione di merito viene mossa dall’alto magistrato alle circostanze di fatto e di diritto raccontate nel libro. Ciò che invece si censura senza attenuanti è il mio talvolta definito “furore”, talaltra “estremismo”, che intreccerebbero “le perversioni del peggior sistema inquisitorio” con “una paradossale corrente garantista del più acre populismo”. Dovrei consolarmi di non essere tacciato di collusioni con la mafia, ancorché nella sua scomunica morale il procuratore arrivi a sostenere che taluni eccessi discorsivi pure consentirebbero di dubitare della mia buona fede.
Se cedessi alla tentazione di paragonarmi a uomini più illustri che, assai prima di me, hanno ammonito dal rischio di fare dell’Antimafia una nicchia di potere e di privilegio, potrei perfino compiacermi di tanta attenzione. Mi preme invece segnalare, in premessa della mia replica e con rammarico, una ben diversa questione: una velata censura, come quella espressa dalle parole del procuratore, conferma tristemente il clima non proprio favorevole al confronto che scoraggia punti di vista non convenzionali, e che induce molti lettori de “L’inganno” a dirmi che ho scritto un libro coraggioso. In realtà è coraggioso sfidare la mafia, non dovrebbe essere coraggioso criticare l’Antimafia. Se lo è, almeno nella percezione collettiva, dobbiamo interrogarci su che cosa sia diventato questo fondamentale presidio di legalità della nostra democrazia. Ed è questa la prima riflessione che mi preme rinviare al procuratore.
La seconda riguarda invece il divorzio insanabile che si è prodotto tra la giustizia e la vita delle persone. Nella giustizia si può allo stesso tempo assolvere un cittadino perché il fatto non sussiste, e confiscargli tutti i beni, l’azienda, i conti correnti, la casa, le auto e perfino i regali ricevuti dai figli per la prima comunione. Si può fare e dire che le due azioni, assolvere e confiscare, sono possibili, compatibili, coerenti e, in certi casi, consequenziali. Perché la condanna è un provvedimento penale e la confisca un provvedimento sui generis, come lo definisce la Consulta. La condanna si fonda sulla colpevolezza, la confisca sulla pericolosità. La condanna si commina in base a prove accertate oltre ogni ragionevole dubbio, la confisca si dispone sulla base di indizi che possono anche non essere gravi, quindi irrilevanti, e possono anche non essere concordanti, quindi contraddetti da altri indizi.
Il procuratore Melillo non dice se è giusto che ciò accada. Se è giusto confiscare patrimoni di cittadini assolti, di terzi mai indagati, di eredi ignari e, perfino, di vittime della mafia, cioè imprenditori costretti a pagare il pizzo. Si limita a sostenere che questo sistema serve a controllare l’origine della ricchezza, per evitare che essa derivi dalla commissione di delitti. Omette però di ricordare che le confische in Italia prescindono dall’accertamento di un delitto, a differenza di quanto accade nella stragrande maggioranza delle democrazie liberali d’Europa.
Il doppio binario che separa l’azione penale dalla cosiddetta prevenzione è, nelle stanze della giustizia, pacifico. Nella vita no. Nella vita l’idea di un intervento violento e afflittivo dello Stato suona come la più atroce delle sopraffazioni. Se tra la logica della giustizia e quella della vita si è aperto un cratere così ampio, vuol dire che la prima non è più funzione della seconda, ma esiste per sé stessa. E’ questo il dubbio che il libro solleva, partendo da un dato di osservazione e di analisi: le democrazie fragili sviluppano talvolta, di fronte a un’emergenza, anticorpi fuori controllo che col tempo perdono di vista il bersaglio verso cui sono diretti e attaccano l’organismo che dovrebbero difendere. L’Antimafia è un sistema di anticorpi legislativi, giudiziari e culturali, messo in piedi tra quaranta e trenta anni fa per combattere un fenomeno gravissimo piantato nel cuore di intere regioni del paese. Quel sistema però col tempo è diventato una macchina dell’emergenza che nutre interessi di potere e di lucro cresciuti nella politica, nella magistratura, nella burocrazia ministeriale, nelle libere professioni e nel volontariato. Il rischio di una deviazione si riscontra nelle vicende che il libro racconta, e che non sono casi di denegata giustizia o errori giudiziari, ma piuttosto esempi del modo ordinario in cui questa giustizia funziona. Tanto è vero che nessuno paga e nessuno mai pagherà per questi paradossi. Nessuno ha risarcito la famiglia di Riccardo Greco, l’imprenditore di Gela che denunciò i mafiosi estortori e che per anni fu perseguitato dallo Stato quale presunto complice, fino al punto in cui decise di suicidarsi, per sottrarre la sua stessa vita e quella dei suoi familiari alla ferocia kafkiana di un processo capace di inseguirlo per ogni dove. E nessuno risponde dell’immane distruzione di valore privato e pubblico che la macchina della prevenzione realizza con le confische e le interdittive, costituendo una gigantesca manomorta e lasciandola marcire dopo averla svuotata di ogni risorsa. Allo stesso modo nessuno risponde delle retate che ciclicamente connotano l’“attenzione” dello Stato per il Mezzogiorno e dell’insostenibile sperequazione tra l’esorbitante numero di arrestati e incriminati da una parte e l’esiguo numero di condannati dall’altra. Qui il procuratore va oltre le mie intenzioni e mi attribuisce conclusioni che nel libro non ho mai tratto, “secondo le quali le indagini e i processi di mafia ordinariamente procederebbero soltanto attraverso inaffidabili delazioni o massive intercettazioni senza riscontri, nutrendosi di congetture irresponsabili o inconsistenti illazioni”. In realtà io mi chiedo, e gli chiedo, se si possa reagire con indifferenza al ripetersi di operazioni che, per la fragile architettura probatoria su cui si reggono, e per l’enorme impatto sociale che producono, denotano una sorta di colonialismo giudiziario del Sud fondato su atti autoritativi propri di uno Stato di polizia. O forse è fisiologico arrestarne cento per condannarne trenta, venti, e talvolta dieci?
Il punto di osservazione da cui muove la mia analisi è civile, non giudiziario. Ma proprio perché esterno al sistema e alle sue liturgie, mostra il corto circuito di una giustizia che fa sempre più fatica a distinguere tra criminali e vittime, perché ha smarrito la linea di tassatività e di tipicità che in un diritto penale liberale separa il lecito dall’illecito. Intestandosi non più e non solo il perseguimento dell’illegalità, ma piuttosto un controllo di legalità che coincide con un esame sulla virtù della vita pubblica, l’Antimafia rischia di trasformarsi in una macchina di dolore umano non giustificato e non giustificabile. Così può accadere che una Corte d’Appello confischi i beni di un imprenditore costretto a pagare il pizzo con la motivazione che “nessuno lo obbligava a non cambiare mestiere”. O che un condannato per mafia sia liberato dal giudice di sorveglianza perché si è redento, tanto da trovare un lavoro nell’azienda della moglie, e la stessa moglie sia invece interdetta per aver dato lavoro a un ex mafioso, cioè il marito. Il fatto è che queste vicende non paiono prova di una fallace eccezionalità, peraltro in nessun foro censurata, ma piuttosto indizio di una tragica ordinarietà. Mi chiedo e chiedo allora al procuratore se il furore populista stia nella mia critica a quella che purtroppo si connota come una strategia operativa e non piuttosto nella strategia stessa. E, ancora, se sia espressione di estremismo, o piuttosto di moderatismo, chiedere che le confische, i sequestri e tutte le misure di prevenzione tornino all’interno del processo penale, ancorandosi all’accertamento di un reato e limitandosi alla lotta alla mafia; che la legge definisca con chiarezza il confine tra l’illecito e il lecito, tipizzando in maniera tassativa fattispecie come il concorso esterno; che il paradigma del sospetto e del disdoro sia abiurato, separando il diritto dalla morale nella giurisprudenza e nella cultura giuridica e civile del paese; che sia dato un tempo preciso e breve alle misure emergenziali, come il 41bis, nella prospettiva di tornare all’ordinario prima possibile; che sia restituita una funzione di redenzione alla pena, rendendola certa nella misura e flessibile nell’esercizio, cancellando per sempre la vergogna dell’ergastolo ostativo; che siano considerate come sanzioni, e perciò assistite dalle garanzie del processo penale, tutte le misure amministrative che comportino un’afflittività e una limitazione della libertà per i destinatari, come le interdittive antimafia; che, da ultimo, nel paese si apra un dibattito sulla crisi e sulla difesa dello Stato di diritto, che impegni al massimo livello le Commissioni giustizia delle due Camere.
E qui mi fa piacere riscontrare una convergenza con alcune concessioni che, in mezzo a tanta scomunica, il procuratore fa alle tesi del libro. Quando prende le distanze da una giustizia che si percepisce baluardo contro il crimine, o quando critica il dilagare del codice antimafia nell’ordinamento, quando sconfessa la prospettiva di una magistratura imprenditrice delle aziende confiscaste e, da ultimo, quando riconosce che la lotta alla mafia si fa con la politica e non solo con l’azione penale. I punti di condivisione potrebbero essere assai di più, se la magistratura più illuminata, a cui pure il mio libro fa appello, rinunciasse a una difesa corporativa dell’indifendibile. Perché la giustizia da cui sono scomparse le persone in nome del risultato è frutto sì di una deriva legislativa ai limiti della costituzionalità e di fughe giurisprudenziali non sempre equilibrate, ma soprattutto di una cultura che ha impresso all’investigazione una torsione inquisitoria, a cui è connesso un protagonismo politico inaccettabile. Il cui dazio lo pagano i magistrati più rigorosi.
Dal procuratore che pure, come primo atto del suo nuovo incarico al vertice dell’Antimafia, ha chiesto pubblicamente scusa alla famiglia Borsellino per il depistaggio e gli errori giudiziari commessi sul delitto, non mi sarei aspettato un’acritica difesa di un’azione penale che, proprio sulle stragi di mafia, ha mostrato uno sbandamento ideologico così radicale da rappresentare una turbativa democratica dai contorni quasi eversivi. Melillo dice che la politica ha rinunciato a “dare una risposta al bisogno di verità e giustizia originato da molti dei più gravi delitti che hanno insanguinato il cammino dell’Italia repubblicana”. Non è chiaro che tipo di risposta il procuratore attendesse. Mi limito a fargli notare che la politica è stata messa sotto accusa per anni da una surreale inchiesta della procura di Palermo per una trattativa inesistente. Mi chiedo altresì se la risposta che la magistratura possa dare consista nelle deliranti dichiarazioni di pentiti, come quelle portate di recente a processo dal procuratore aggiunto di Reggio Calabria, Giuseppe Lombardo. Secondo cui Berlusconi e Craxi nel 1978 andavano per le campagne dell’Aspromonte a cercare i voti della ‘Ndrangheta. Melillo s’indigna perché nel libro definisco queste deposizioni una “fogna di maleodoranti congetture”. Sarei curioso di sapere come le definirebbe lui. Ma nella strenua difesa sindacale del procuratore antimafia non c’è al momento una risposta alla mia curiosità. Mi chiedo e gli chiedo se non stia sprecando una grande occasione.