Foto di Igor Petyx, via Ansa 

La storia al suo posto

La cupa stagione dei teoremi giudiziari sul doppio stato è finita. Molti faticano a dirlo

Maurizio Crippa

Il cosiddetto "terzo livello" e la tifoseria dell'antimafia. Da Caselli alla Trattativa, come si sono formate le lunghe inchieste degli anni Novanta. Un periodo che ha lasciato solo macerie

Quelli che “non l’hanno preso, si è fatto prendere”; quelli che c’è per forza una nuova Trattativa (l’avevano detto da Giletti); quelli disturbati dal “tono trionfalistico”; quelli che “ma allora perché ci hanno messo trent’anni?”. Nelle reazioni scomposte o solo stupide, e in quelle incrostate di complottismo e vecchi teoremi, c’è spesso un’insipienza dovuta alla mancanza di memoria personale. Ma c’è anche un altro livello, più profondo, in cui s’incista un male vecchio di decenni: la menzogna della stagione dei teoremi giudiziari.

 

Scriveva anni fa Sergio Romano che un certo ruolo forzoso, di supplenza, della magistratura era “antropologicamente il prodotto delle due grandi emergenze, il terrorismo e la mafia”. E non andrebbe dimenticato che tra quelle due s’infilò la grande narrazione dell’e-mergenza di Mani pulite. Ciò che oggi, tre decenni dopo, rende impossibile alla tifoseria dell’antimafia che ancora idolatra i suoi professionisti  (nonostante le smentite dei tribunali e della storia) ammettere che lo stato, il Ros e una magistratura non ideologizzata hanno sgominato la mafia è un pregiudizio antico. Don Ciotti ha detto: “Non vorrei che si ripetessero gli errori commessi in seguito alla cattura di Riina e Provenzano”. Ma quali errori? Da allora Cosa nostra è stata perseguita e svuotata, lo ammette persino Saviano. È come il riflesso automatico di un lungo fantasticare.

 

È aver costruito, da parte della politica, segnatamente il Pci-Pds come allora si chiamava, di una magistratura allineata e della loro stampa di complemento il Grande teorema del doppio stato. Così oggi si stenta a riconoscere che i Ros che hanno arrestato Messina Denaro sono gli stessi che furono guidati dal generale Mori. E questo nonostante i processi abbiano smontato la Trattativa. Perché quel teorema parte da lontano.

 

Parte da molto lontano l’ambizione di fare non tanto processi per condannare i reati, ma di riscrivere, coi processi, la storia d’Italia. Per dimostrare che 50 anni, allora, di democrazia erano stati una conventio ad excludendum criminale. Insomma lo schema di Gian Carlo Caselli che da Torino, ambiente di ferreo patto ideologico tra Pci e magistratura, giunse a Palermo nella grande emergenza del 1993, dopo le stragi di Falcone e Borsellino. Falcone era morto, ma già in vita si era provato a cancellare il suo metodo laico, il suo lucido rifiuto di ogni teoria del complotto.

 

Del cosiddetto “terzo livello”, che fu pure definizione sua, già nel 1988 a Palermo disse pubblicamente: “Al di sopra dei vertici organizzativi, non esistono terzi livelli di alcun genere, che influenzino e determinino gli indirizzi di Cosa nostra”. E nella drammatica audizione al Csm del 1991, ormai costretto a difendersi da accuse e insinuazioni come quelle di Leoluca Orlando da Michele Santoro, “Falcone ha dei documenti sui delitti eccellenti, ma li tiene chiusi nei cassetti”, disse: “Il terzo livello, inteso quale direzione strategica, che è formata da politici, massoni, capitani d’industria ecc… e che sia quello che orienta Cosa nostra, vive solo nella fantasia degli scrittori: non esiste nella pratica”. Ma venne Caselli a governare la grande emergenza palermitana e formò il suo pool di fedelissimi: Antonio Ingroia, Roberto Scarpinato. E impostò il processo ad Andreotti, che avrebbe dovuto essere la summa teologica del terzo livello. Riscrivere la storia, e en passant mettere in cattiva luce o sotto inchiesta i magistrati che avanzavano dubbi.

 

Paradossalmente le lunghe inchieste di mafia dagli anni Novanta in poi sono state un modo per provare a cancellare – in politica e nella mente malleabile dell’opinione pubblica – tutto ciò che contraddiceva la grande riscrittura della storia d’Italia come storia criminale. Una stagione che ha lasciato solo macerie giudiziarie, storiche e anche umane. Andreotti; Corrado Carnevale assolto dal concorso esterno in associazione mafiosa; Mario Mori, assolto da accuse di favoreggiamento e minaccia verso un corpo politico dello stato.

 

Il Capitano Ultimo, Bruno Contrada e tanti altri. Fino al processo che avrebbe dovuto, nella mente degli ideatori, salvare restrospettivamente il fallimento di un’intera stagione di teoremi, quello della Trattativa. E pazienza che lo stesso Borsellino nei suoi ultimi drammatici giorni non si desse pace per come la procura di Palermo stava mettendo in un angolo il lavoro dei Carabinieri. La fine della storia è oggi sotto gli occhi di tutti. Riccardo Iacona, uno dei protagonisti dello storytelling non s’è tenuto su Twitter: “Lo scandalo di una latitanza durata 30 anni è finito. Ora bisognerà capire chi ha protetto #MatteoMessinaDenaro e in cambio di cosa. Vogliamo tutta la verità sulle stragi mafiose lo si deve a #Falcone e #Borsellino e all’Italia intera”. Basterebbe rileggere la storia, le parole di Falcone e Borsellino e gli atti giudiziari senza i paraocchi del teorema. Ha detto il generale Mori che è finita Cosa nostra. È anche la fine di un’epoca in cui politica, magistratura e intendenza mediatica hanno preteso di riscrivere la storia d’Italia.

  • Maurizio Crippa
  • "Maurizio Crippa, vicedirettore, è nato a Milano un 27 febbraio di rondini e primavera. Era il 1961. E’ cresciuto a Monza, la sua Heimat, ma da più di vent’anni è un orgoglioso milanese metropolitano. Ha fatto il liceo classico e si è laureato in Storia del cinema, il suo primo amore. Poi ci sono gli amori di una vita: l’Inter, la montagna, Jannacci e Neil Young. Lavora nella redazione di Milano e si occupa un po’ di tutto: di politica, quando può di cultura, quando vuole di chiesa. E’ felice di avere due grandi Papi, Francesco e Benedetto. Non ha scritto libri (“perché scrivere brutti libri nuovi quando ci sono ancora tanti libri vecchi belli da leggere?”, gli ha insegnato Sandro Fusina). Insegue da tempo il sogno di saper usare i social media, ma poi grazie a Dio si ravvede.

    E’ responsabile della pagina settimanale del Foglio GranMilano, scrive ogni giorno Contro Mastro Ciliegia sulla prima pagina. Ha una moglie, Emilia, e due figli, Giovanni e Francesco, che non sono più bambini"