Foto di Filippo Venezia, via Ansa 

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Con l'inchiesta di Bergamo sulla gestione della pandemia inizia una metamorfosi giudiziaria

Giovanni Fiandaca

Ecco il “processo riparatorio”, dove il dolore conta più dei reati e dove il potere dei pm non ha limiti. Cosa può succedere se il lavoro della giustizia diventa uno strumento "riparatorio" 

L’indagine giudiziaria bergamasca sulle migliaia di morti da Covid va facilmente incontro a giustificate critiche per un insieme di ragioni che sono state ben messe in evidenza su questo giornale da Claudio Cerasa ed Ermes Antonucci. Dal canto suo, Cerasa ammoniva che la giustizia penale non può prescindere dalla verifica di reati in senso stretto, perché altrimenti si tradiscono i princìpi dello stato di diritto, sovrapponendo un improprio processo politico-mediatico al processo penale canonico.

 

Mentre Antonucci metteva, più in particolare, in evidenza il groviglio di contraddizioni rinvenibile nell’iniziativa penale dei pm bergamaschi. In linea di principio, si tratta di critiche ineccepibili se si assume a modello di riferimento una concezione della giurisdizione penale conforme ai princìpi tradizionalmente consolidati. Da questo punto di vista, è forte la tentazione di sospettare che anche in questo caso a motivare l’iniziativa penale siano soprattutto la brama di protagonismo mediatico e la tentazione dei magistrati inquirenti di ergersi a censori anche etico-politici delle decisioni assunte (o non assunte) dai competenti organi politico-istituzionali lombardi nella tragica primavera del 2020.  

 

In effetti, come rilevato da Cerasa, un tale sospetto sembrerebbe avvalorato dalle stesse dichiarazioni del procuratore Chiappani riportate in un trafiletto pubblicato sul Corriere. In sintesi, il capo della procura bergamasca ha affermato che il principale obiettivo dell’inchiesta – al di là delle specifiche ipotesi di reato che potranno essere accertate – consiste nel dare “ai cittadini di Bergamo una ricostruzione della risposta fornita dalle autorità sanitarie e civili contro la propagazione della pandemia”, col connesso intento di poter utilizzare tutto il materiale raccolto “non solo per valutazioni di carattere giudiziario, ma anche scientifiche, epidemiologiche, di sanità pubblica, sociologiche, amministrative”. Insomma, una indagine ad amplissimo spettro, trasversale alle competenze settoriali e finalizzata a fare luce su come effettivamente sono andate le cose sotto ogni angolazione visuale possibile. 

 

D’altra parte, non è dissimile il senso attribuito all’inchiesta da parte dei componenti dell’Associazione dei familiari delle vittime, e lo comprovano alcune dichiarazioni dell’avvocato Consuelo Locati (legale dell’associazione) rilasciate a Repubblica: “Siamo andati avanti nonostante l’omertà che ha sempre contraddistinto questa storia (…) senza mai scoraggiarci nel percorso di memoria e di giustizia. (…) Ci sono stati momenti in cui abbiamo temuto che la ricerca della verità potesse fermarsi, ma i magistrati bergamaschi sono stati esemplari (…) pretendiamo la verità fino in fondo per chi non c’è più”.

 

Orbene, la richiesta dei famigliari delle vittime, l’aspettativa che loro nutrono e che rivolgono alla magistratura è – appunto –  innanzitutto quella di fare verità a tutto campo, di far luce su come in realtà si sono sviluppati gli eventi  ponendo sotto i riflettori investigativi tutti gli anelli (politici, sanitari, ecc.) della complessissima catena causale coinvolta nella produzione dei numerosissimi esiti letali: come se procure e tribunali fossero nella sostanza, più o prima ancora che organi giudiziari, “commissioni giustizia e verità” nella accezione più generale e lata. 

 

La domanda, a questo punto, è questa: perché i magistrati si prestano – non soltanto in questo, ma anche in altri casi in tutto o in parte simili – a (tentare di) esercitare questa funzione veritativa potenzialmente senza limiti, raccogliendo così una richiesta e facendosi carico di un bisogno (emotivo prima che razionale) che provengono da quanti hanno sofferto e continuano a soffrire la perdita di persone care? A ben vedere, c’è forse una possibile spiegazione che porta il discorso su un terreno complementare ma diverso, e – volendo – più profondo e sottile di quello che chiama in causa – spesso, giustificatamente – la ricorrente tentazione magistratuale di straripamenti impropri.

 

Prospetto cioè l’ipotesi che la crescente avanzata del paradigma vittimario cui abbiamo assistito, peraltro non solo nel nostro paese (per un insieme di fattori causali complessi che non è possibile qui neppure accennare), con tutte le conseguenti implicazioni che ne derivano in chiave di accresciute esigenze di riparazione dei dolori e soddisfazione dei bisogni delle vittime, abbia non soltanto dato impulso a una progressiva valorizzazione della cosiddetta “giustizia riparativa”, quale modello di giustizia alternativo o integrativo rispetto a quello punitivo tradizionale (ne è riprova la recente riforma Cartabia che ha introdotto per la prima volta, nel nostro ordinamento, una esplicita disciplina normativa organica in materia), ma abbia prodotto un effetto ulteriore: quello cioè di contribuire indirettamente a determinare – e neppure troppo sotto traccia, troppo sotterraneamente  – una sorta di metamorfosi sostanziale, di trasformazione nei fatti dello stesso processo penale in uno strumento latamente “riparatorio”, vale a dire in un dispositivo che serve a dare qualche forma di soddisfazione alle vittime oltre che ad accertare eventuali reati.

 

Ciò non a caso. Come spiegano non da ora gli studiosi di psicologia della vittima, per chi ha patito i dolori e i traumi di eventi drammatici acquisire la verità o una maggiore verità sulle dinamiche causali, e le forme di corresponsabilità che stanno dietro a quanto accaduto, può già di per sé assolvere una importante funzione di risarcimento morale e sortire nel contempo benefici effetti psicologici (mentre può risultare comparativamente meno soddisfacente, sul piano moral-psicologico, la effettiva punizione di eventuali soggetti responsabili). 

 

Ammesso che la suddetta ipotesi esplicativa abbia qualche fondamento, rimane ovviamente aperto l’interrogativo se l’ipotizzata torsione in chiave riparativa dello stesso processo penale sia o meno da assecondare alla stregua dei princìpi complessivi dello stato di diritto (tanto più che persistono dubbi più che legittimi sulla capacità “veritativa” ad ampissimo spettro di procure e tribunali). Forse, sarebbe opportuno approfondire il discorso. 

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